De Visu, è il titolo del primo lavoro in uscita oggi per TRP di Sergio Casabianca, chitarrista catanese, classe 1990. Siamo in ambiente jazz, dentro un post-bop con ampie incursioni nel be-bop. De Visu, Con i propri occhi. Quelli di un giovane artista che «non è nato con i dischi di jazz in mano», come mi racconta, ma che ha scoperto il genere crescendo, al conservatorio. Un’evoluzione che lo ha portato dalla musica dei Beatles e dei Rolling Stones ascoltata da bambino, ai Led Zeppelin, Deep Purple, Metallica e Iron Maiden da adolescente, con un mito di riferimento, Ludwig van Beethoven, «il più grande di tutti, quello che è riuscito a penetrare atri mondi attraverso la musica, a scrutare l’uomo come mai nessuno ha fatto».
Il suo primo lavoro da leader, nove brani per 57 minuti d’ascolto arriva in trio, con Riccardo Grosso al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria. Fin dal primo ascolto colpisce il dialogo aperto e franco fra i musicisti. De Visu, il brano che dà il titolo all’album, ne è la prova. Spiega Sergio: «Mi piace come ci concentriamo e ci fidiamo l’uno dell’altro… È un brano complesso, ostico, che necessita di attenzione ma, per me, estremamente divertente ed appagante». Uno scambio continuo, nella migliore tradizione dei trio, un chiacchierare sereno ed educato, divertente da ascoltare.
La chitarra, fonte armonica e melodica, viene esaltata da un grande lavoro ritmico. Sergio si diverte sui cambi di ritmo, riesce a catturare le emozioni nelle ballad, più classiche, ascoltate Fondamenta Nuove, uno dei due omaggi che l’artista ha voluto dedicare a Venezia dove ha vissuto per gli studi di perfezionamento, o raccontare la sua allegria attraverso ritmi funk tenendo sempre la barra puntata sui grandi maestri jazz, vedi Supposed Teachers, o, ancora, andando a iniettare atmosfere funk come in Desk of Love. Insomma, da Wes Montgomery a Julian Lage.
Come abitualmente faccio, l’ho chiamato per farmi raccontare “de visu” il disco e la sua musica.
Sergio, partiamo dalla Sicilia, isola musicale. Da catanese, cos’ha di speciale quest’isola?
«C’è un senso di rivincita innato nell’essere siciliano, o meglio del Sud, aggiungo, del Sud del Mondo. La Sicilia rappresenta bene questo concetto, con i suoi pregi e i suoi difetti, con la sua storia e le tante dominazioni – nella zona orientale siamo più greci in quella occidentale più arabi. Le contaminazioni culturali, che nel jazz sono fondamentali, le abbiamo nel DNA. E poi, la solita vecchia storia del clima bello che stimola la voglia di fare qualcosa per non finire a bighellonare al mare, ma vale per tutte le arti.
Qual è il tuo percorso, partendo proprio da quanto mi hai detto ora…
«Quando ho deciso di fare il musicista professionista avevo vent’anni. Ero un po’ in ritardo rispetto alla tradizionale tabella di marcia, ma mi son messo a studiare con passione. All’inizio dedicandomi alla chitarra elettrica: venivo dal rock, dall’hard rock, dal Metal ero molto interessato al mondo del pop, il mio sogno nel cassetto, per esempio, era di far parte dell’Orchestra di Sanremo, perché no! Approfondendo poi gli studi accademici in ambito jazzistico mi sono innamorato di questo mondo, di questa materia plasmabile che ha tanta tradizione ma ti dà anche altrettante possibilità di interpretazione. Il mio entrare nell’ambito jazzistico è stato – ed è costantemente – graduale. Non sono nato con un disco di jazz in mano, mettiamola così, ma il jazz è diventata la musica che preferisco per esprimere me stesso».
Eri un Rock addict! Cosa ascoltavi?
«A cinque anni avevo tra le mani tutti i dischi di Beatles e Rolling Stones, poi sono passato ai Led Zeppelin e ai Deep Purple. Durante l’adolescenza sono arrivati i Metallica, gli Iron Maiden, i Pantera e tutto il resto. Ho avuto la fortuna di ascoltare da bambino la grande musica leggera italiana e tutta la beat, Moody Blues, Procol Harum, Blood, Sweat & Tears, ma anche i Chicago. Crescendo e studiando ho capito che però il mio musicista preferito, inarrivabile in assoluto, è Beethoven: lo reputo uno dei pochi che è riuscito a toccare mondi nei quali quasi nessuno osava avventurarsi».
Dunque, il jazz dove lo collochi nella tua esperienza musicale?
«Il jazz sta tutto nel mezzo. Sono maturato con Charlie Parker, John Coltrane, Bill Evans… il mio modo di suonare è influenzato sia dalle tradizioni della chitarra rock, da Van Halen e dagli altri grandi chitarristi del genere e dal mondo della chitarra jazz, dunque John Scofield, Pat Metheny senza dimenticare i classici, Jim All, Joe Pass, Wes Montgomery…
Curiosità sulla chitarra che stai usando: ho visto che suoni la coreana Pearless?
«Sì è una Monarch. In realtà sono un “fenderista”, suonerei tutto con Strato e Telecaster. Per questo disco però volevo il legno, ispirato dalle sonorità di Jesse van Ruller e di Johnatan Kreisberg, musicisti che apprezzo molto e che suonano chitarre completamente diverse ma con una grande cassa. Non è detto che nei prossimi lavori rimanga fedele alla semiacustica, se prendi spunti da musicisti come Julian Lage, vedi che negli ultimi anni ha usato tutte le tipologie di chitarra. Un modo di suonare che sta prendendo piede anche in Italia».
De Visu è la tua prima pubblicazione jazz?
«Ne ho un’altra del 2017, autoprodotta, dedicata a Charlie Parker. Questo è il primo disco edito per una casa discografica come leader».
Veniamo alla cover, una foto, il particolare di una vecchia porta scrostata senza serratura. Cosa significa? La porta vecchia indica che ti rifai alla tradizione, ma essendo senza serratura, la puoi aprire facilmente per andare a esplorare altri mondi?
«È un’ottima interpretazione, sottintesa, mi piace. C’è dell’altro: tanto del materiale musicale è autobiografico, ci sono storie dietro a quei brani, sentimentali, goliardiche, vissute… de visu. La fotografia mi è stata proposta da Claudio Allia della TRP, abbiamo subito capito che era quella giusta».
Sei affezionato a Venezia? Ho visto che le hai dedicato ben due brani!
«Ci ho vissuto un anno, ho iniziato il biennio specialistico frequentando il conservatorio Benedetto Marcello che poi ho concluso a Palermo, altra città che amo. È stata un’esperienza molto intensa. Così sono nati Birds of San Marco – in quella piazza ci passavo spesso e pensavo che dovevo attraversarla con una musica che la rappresentasse. Fondamenta Nuove, invece, indica il mio punto di partenza, il primo disco, e poi quel luogo lontano dalla grande folla dei turisti, dove scorgi Murano e l’isolotto di San Michele è uno dei pochi posti dove si può respirare la città».
Qual è il tuo percorso compositivo?
«Sono svariati non c’è uno schema preconfezionato. Per esempio, Birds of San Marco è una rivisitazione di Donna Lee suonata da Charlie Parker. Se prendi l’armonia, la smonti, togli le sostituzioni più ardite, ti ritrovi ad aver scritto una ballad basandoti su un grande brano. Spesso scaturisce dal caso: sto studiando, mi sto perfezionando e magari c’è un’idea che ti passa direttamente attraverso le mani sulle corde. Mi fermo e dico: “aspetta forse qua c’è qualcosa di interessante, potrebbe essere l’inizio di un tema».
Ultima domanda: preferisci stare sul palco in trio o quartetto oppure con una big orchestra?
«Sono disposto a tutto. Mi piace “sfidare” i pianisti, con molto rispetto ovviamente, nel senso che oggi c’è un proliferare di letteratura di chitarra funambolica, specialmente dal punto di vista armonico, e poi tutti suonano con il pianoforte. Mi piace prendermi le responsabilità e i rischi in trio cercando di disegnare percorsi che santifichino l’interplay. Il trio si può aprire ed essere la sezione ritmica di un solista potente come un sassofonista o un trombettista. Per quanto riguarda la big band: ho fatto quest’esperienza, sia come gregario sia come solista. Ovviamente è un’altra dinamica. Essendo composta da tanti elementi, lì c’è l’ordine contro la follia. In questo momento della mia vita preferisco il trio, stimolare l’intesa, è come stare seduti attorno un fuoco, raccontare e raccontarsi».