Sei giorni fa Bob Dylan, 82 anni compiuti il 24 maggio, ha pubblicato, via Columbia Records, il suo 40esimo album in studio, Shadow Kingdom. Quattordici brani suonati da vecchio cantautore folk, senza pianoforte, né violino, né batteria, né percussioni. Chitarre acustiche ed elettriche, contrabbasso e basso, fisarmonica. E la sua voce, che alla sua età è addirittura migliorata, più pastosa e smussata.
Si tratta di composizioni completamente riscritte su brani degli anni Sessanta con tre eccezioni: Forever Young, contenuto in Planet Waves, album pubblicato nel 1974, What Was It You Wanted, da Oh Mercy del 1989, e l’ultimo, Sierra’s Theme, strumentale, un brano cinematografico che ricorda un tramonto, la palla infuocata del sole che scende e lui, il menestrello di Duluth, chitarra in spalla che si avvia in controluce verso la sera.
Shadow Kingdom viene dopo il bellissimo Rough And Rowdy Ways di tre di anni fa. C’è chi ci vede un’operazione commerciale iniziata proprio con quel disco, portata avanti nel luglio del 2021 con un “falso” live in streaming (costava 25 dollari ed è rimasto disponibile per una settimana) registrato in un altrettanto “falso” locale, il Bon Bon Club di Marsiglia, e ora dopo due anni, con la versione discografica di quel concerto.
“Quel” concerto in realtà era un film di 54 minuti, in bianco e nero, diretto dalla regista israelo-americana Alma Har’el. L’ambientazione vede Dylan e la sua band sul palco, tutti con il volto coperto dalle mascherine, un “supergruppo” (tra gli altri, Don Was al contrabbasso, T Bone Burnett alla chitarra, Greg Leisz alla pedal steel e mandolino, Shahzad Ismaily alla fisarmonica e Buck Meek dei Big Thief alla chitarra), circondati da un pubblico che fuma beve e si diverte in un’ambientazione come ha ricordato più d’uno in stile Casablanca, il film con Humphrey Bogart.
Quello che interessa, invece, è vedere come Dylan tratta le sue canzoni: le considera degli standard, canovacci sui quali costruire nuovi percorsi. È un modo molto “jazzistico” di procedere, imboccando nuove strade, spacchettando i ritmi, cercando l’essenza e l’emozione con pochi strumenti, in questo caso, tradizionalmente folk.
Ci sono molti punti in comune con il penultimo disco, nelle atmosfere e in quella ruvidezza controllata che evoca luoghi e situazioni ormai compromesse dal tempo. Prendete Tombstone Blues, brano contenuto in Highway 61 Revisited album del 1965, nella versione riscritta è decelerato, sofferto – nel refrain è quasi recitato: Mama’s in the factory/ She ain’t got no shoes/ Daddy’s in the alley/ He’s lookin’ for the fuse/ I’m in the kitchen/ With the tombstone blues: assomiglia nelle atmosfere ad I Contain Multitudes che apre Rough And Rowdy Ways.
Un’operazione riuscita, dunque. Poco importa se sia una perfetta mossa commerciale, può essere, ma francamente, sono soltanto affari suoi. Quello che interessa è il lavoro del Dylan menestrello che si è approcciato a questo disco con la visione del Dylan pittore. Come giustamente ricorda John Mulvey di Mojo, alla fine di The Philosophy Of Modern Song, il libro che Dylan ha pubblicato lo scorso anno, l’artista scrive: «La musica trascende il tempo vivendoci dentro, proprio come la reincarnazione ci permette di trascendere la vita vivendola ancora e ancora». Il segreto del suo esistere come musicista sta proprio qui.
Ascoltatelo, un consiglio di un vecchio cronista che ama la musica. Lasciatevi coinvolgere, perché in un mondo dove non si parla altro che di Intelligenza Artificiale, robot, Metaverso, tutti temi degnissimi e importanti per etica e sopravvivenza, ascoltare 54 minuti di pura creatività umana in versione analogica è meravigliosamente e immensamente impagabile.