Oh Me Oh My è l’ultimo lavoro pubblicato da Lonnie Holley. Il quinto disco. Lonnie è un artista afroamericano di 73 anni, di Birmingham, Alabama. Scultore, pittore, fotografo, poeta, regista e anche musicista. La sua è un’arte povera, stratificata e rimodellabile, come la vita. Le sue opere sono esposte in molti musei americani al Fine Arts di San Francisco, al Metropolitan di New York, allo Smithsonian, alla National Gallery of Art di Washington, in una permanente all’Onu. Ad ascoltarlo è spiazzante quanto coerente con la sua filosofia di vita: nei brani del disco senti Miles Davies, Gil Scott-Heron, gli Animal Collective – con cui per inciso ha collaborato – e un sacco d’altri musicisti che hanno influenzato i suoi ascolti.
Un lavoro autobiografico, il vissuto di Holley è profondamente racchiuso nei suoi spoken, la musica è un contorno che nasce, cresce, si sviluppa seguendo i ritmi vocali. Lavori di getto che arrivano a destinazione tra chitarre distorte, note essenziali di piano Rhodes, effetti sonori, synth, percussioni, sovrapposizioni e distorsioni. Tutto serve a creare mondi dove l’artista racconta anche cose tremende, come in Mount Meigs, brano il cui titolo ricorda una triste vicenda vissuta dalla stesso Lonnie quando aveva undici anni. Mount Meigs è una delle vergogne dell’America razzista, ufficialmente una scuola per rieducare giovani neri che avevano avuto problemi con la legge (Alabama Industrial School for Negro Children) fondata nei primi anni del Novecento, in realtà un inferno di dolore dove anche Lonnie c’è passato, o nella stessa Oh Me Oh My, dove racconta degli abusi sessuali e della famiglia in cui è nato, settimo di 27 figli: ricorda con tenerezza la nonna che lo teneva in braccio perché la madre non poteva farlo, impegnata sempre a sfornare figli (baby after baby after baby after baby… lo ripete in maniera ossessiva).
In questo brano c’è anche Michael Stipe, l’ex frontman dei REM, che aumenta il pathos come lui sa ben fare. Stipe è un fan di Holley: “Visivamente e musicalmente, considererei Lonnie un artista di trance”, sostiene, e a ragione. Nel disco ci sono anche altre feauturing interessanti, come Justin Vernon/Bon Iver in Kindness Will Follow Your Tears, altro momento di pathos assoluto; o Sharon Van Etten in None Of Us Have But A Little While; e ancora Jeff Parker in I Can’t Hush e Rokia Koné in If We Get Lost They Will Find Us.
Undici tracce che vale la pena ascoltare, per uno dei dischi più densi, toccanti, solidi ascoltati quest’anno. Ha ragione Stipe, lo stato di trance, come uno sciamano, riesce a condurti in altri spazi fisici e mentali. Non necessariamente confortanti, ma la buona arte è proprio questa.