Il viaggio perfetto nella musica di Enrico Solazzo

Lo avevo visto suonare a Portobuffolè (Treviso) lo scorso anno. Era il tastierista di un supergruppo jazz dove l’anfitrione era Antonio Faraò, uno dei grandi della musica internazionale, pianista virtuoso ed emozionante, che presentava al Gaia Jazz, di cui è direttore artistico, il suo progetto Eklektik.

Enrico Solazzo, brindisino di nascita e romano d’adozione, ha pubblicato per Via Veneto Jazz da nemmeno due mesi il suo primo lavoro da leader, Perfect Journey. Titolo quanto mai appropriato: un viaggio perfetto nella musica che gli piace, negli arrangiamenti di cui è maestro e con gli amici dei quali ha sommo rispetto e scambi professionali continui. All’album hanno partecipato quaranta musicisti, tra questi Antonio Faraò in You’re My Trhill, uno standard interpretato da Billie Holiday e Nat King Cole di Jay Giorney e Sidney Clare, Fabiana Rosciglione, Stefano Di Battista, Lele Melotti, Baptiste Herbin. Mi fermo qui, l’elenco è ancora lungo…

Il risultato è, dunque, quel viaggio fantastico di cui vi parlavo poco sopra, allegro, profondo, avventuroso. Non cercate di stabilire chissà quale priorità sulla scelta dei brani. Tutto si tiene in una logica ferrea, almeno per l’autore, la sua mano, l’arrangiamento, di cui Solazzo è un maestro. Dunque, passiamo da September degli Earth Wind & Fire a Caruso di Lucio Dalla, trattato con la gentilezza e il rispetto dovuto ma rivestito con un abito elegante dove il contrabbasso conduce le danze e alla chitarra acustica spetta il controcanto.

Confesso che a un primo ascolto non ho capito il percorso artistico dell’album. Ma più lo si ascolta più si colgono le mille sfumature di cui si compone questo lavoro, dove conta la musica, l’armonia, il piacere di regalare nuovi tessuti sonori a brani che abbiamo ascoltato “enne” volte. Delle 14 tappe di questo itinerario sulla Route 66 della musica, quattro sono brani originali: Algo Azur (Dario Rosciglione, Enrico Solazzo), Deep (Enrico Solazzo), Angel Eyes (Fabiana Rosciglione, Enrico Solazzo, Cristiano Prunas), Paint the Picture (Dominic Smith, Enrico Solazzo) e Zero Gravity (Fabiana Rosciglione ed Enrico Solazzo), gli altri nuovi punti di vista, che Enrico chiama abiti

Com’è nato il tuo primo album da leader?
«Come per molti musicisti, durante la pandemia. Avevo già pubblicato da solo, ma con pseudonimo, un paio di dischi di musica elettronica. Ho usato un  moniker perché facevo musica per giovani e mi sentivo anzianotto! Tornando al disco: tutte le mattine mi mettevo in studio a suonare. Un giorno stavo riarrangiando un brano e ho pensato che fosse cucito per Lele Melotti (batterista). Sai, un arrangiatore non è mai leader, sta dietro le quinte. Così ho pensato: pubblico un album tutto mio, lo gestisco dall’inizio alla fine, e lo faccio con i musicisti che conosco e stimo. Diciamo che Perfect Journey è un resoconto di viaggio, la summa delle esperienze di anni e anni di musica. Ho approcciato stili diversi perché la musica mi piace davvero tutta, mettendo in risalto gli arrangiamenti, la mia passione».

Nel disco ci sono brani molto famosi, alcuni sono diventati degli standard…
«Tra le tante cose che mi piacciono ne ho scelte alcune. Prendi, per esempio Crazy (degli Gnarls Barkley, ndr): l’ho portata in uno stile rock-blues. Oppure Caruso, ero molto combattuto nel proporlo, temevo di imbattermi in qualcuno che mi dicesse: ma cosa c’entra con tutto il resto?».

Come hai fatto a radunare quaranta musicisti?
«Dopo anni di lavoro li conosco tutti, tranne Kadir González López, un giovanissimo polistrumentista cubano davvero notevole. Ognuno ha risposto con entusiasmo al mio invito, voleva ascoltare le tracce, partecipare».

È un disco imponente, come farai a portarlo in giro dal vivo?
«Nello scrivere l’album ho pensato più al lato artistico che a una proposta live, volevo registrare qualcosa che poi non fosse schiava del palco. Insomma, ho ragionato da arrangiatore, i dischi visti da questo punto di vista ormai non si fanno più. Prendi il pop: è ovvio che il live è l’appagamento dei fan che vedono il loro beniamino e cantano con lui. Per l’artista è il momento di raccogliere i frutti del suo lavoro. Il concerto è l’attimo della condivisione. Anche a me piacerebbe portare sul palco uno show ma con 40 artisti! Allo stato attuale, è impossibile, troppo costoso. Sono convinto che ci sarebbe anche del pubblico disposto ad ascoltare».

Ti rifai alle big band degli anni Cinquanta e Sessanta…
«Proprio quelle. Mi potresti chiedere se sto sognando. Sì, ma lo farei, per l’arte, per la musica. Il mio sogno sono le orchestre sinfoniche. Vado spesso teatro ad ascoltarle ed è una magia ogni volta, perché ogni strumento, e dunque, ciascun musicista, contribuisce a creare quella musica, a emozionare. È la musica come si faceva prima, completamente reale!».

Torno ai brani: come li hai scelti?
«Non c’è stato un motivo preciso. Caruso, per esempio, ho voluto riarrangiarlo perché è stato proposto in molte forme e modi. Io stesso l’ho suonato più volte dal vivo. L’input che mi sono dato è stato uno solo: dare una seconda opportunità d’ascolto a brani che sono diventati ormai degli standard, dei sempreverdi con cui spesso si ha un approccio scontato e, dunque, banale. Ho cercato di vestirli in un modo diverso, nel massimo rispetto dell’originale. Mentre arrangiavo pensavo: cosa farebbero in questo caso Herbie Hancock o Sting?».

C’è stata una moda anni fa per mancanza di creatività, quella di riproporre brani simili con arrangiamenti minimi e osceni…
«Sì lo facevano spesso i dj. Però un musicista sa che alcuni brani non si possono riarrangiare altrimenti li massacri, mentre altri si prestano. Per esempio, Lazy Nina: il brano è stato composto da Donald Fagen e interpretato per la prima volta da Greg Phillinganes nel 1984. L’ho riscritto cambiando i Bpm e la ritmica ma l’approccio è rimasto lo stesso».

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