L’inizio della nuova stagione de L’Atelier Musicale, arrivato alla 28esima edizione, rassegna jazz che si tiene all’Auditorio Giuseppe Di Vittorio presso la Camera del Lavoro di Milano, mi ha offerto l’occasione di fare una chiacchierata con i due artisti che si esibiranno nel concerto inaugurale di sabato primo ottobre alle 17:30, Enrico Intra e Paolo Rossi. Entrambi suoneranno in trio, il maestro Intra con Caterina Crucitti al basso elettrico e Tony Arco alla batteria, l’istrione Rossi con i suoi affiatati musicisti, Emanuele Dell’Aquila alla chitarra e Alex Orciari al contrabbasso. Un doppio trio, che si spera possa diventare un formidabile sestetto, per uno spettacolo, Ciao Enzo, dedicato a Jannacci, sintesi perfetta di musica e cabaret, amico di entrambi.
Jazz e cabaret non sono poi così lontani tra loro. Si basano entrambi sull’improvvisazione, però, come ben sanno jazzisti e attori di stand up comedy, l’improvvisazione non si improvvisa. Dietro questa raffinata tecnica ci sono anni di studio, per entrambi sono fondamentali i tempi, il ritmo, la perfetta conoscenza dei linguaggi. Un’attrazione fatale sia per Intra sia per Rossi che ha avuto ha un punto d’incontro fisico perfetto nel Derby, storico locale milanese attivo fino a metà anni Ottanta.
Intra ne è stato il fondatore nel 1962, a soli 27 anni. Lo chiamò l’Intra’s Derby Club. Un luogo dove il jazz fosse nobilitato, diventasse non più musica di sottofondo per una serata tra amici ma protagonista assoluto. Una novità che attirò anche giovani talenti in cerca di palco. Qui arrivarono Jannacci, Fo, I Gufi, Franco Cerri, alternando e spesso fondendo, musica e cabaret. Una formula dirompente per quegli anni del Dopoguerra, dove si cercava futuro per dimenticare il recente passato.
Intra è passato a un jazz minimale, dunque ancor più complesso, quest’anno ha pubblicato due dischi molto interessanti, Brontolo con Gegè Telesforo e Il Maestro e Margherita (titolo che richiama quello del romanzo di Michail Bulgakov), con la contrabbassista Margherita Carbonell. Me li sono ascoltati con attenzione, anzi, quello con la Carbonell ce l’ho sotto ora come compagno di scrittura…
Enrico, buongiorno, disturbo?
«No, no anzi! È da stamattina che studio, una pausa mi fa bene! Mi sto preparando a un concerto che devo fare con Enrico Rava prossima settimana. Suonare in due è difficilissimo perché, sai, l’improvvisazione non è improvvisata».
Bisogna avere solide basi per esercitare quest’arte.
«Devi avere dentro di te tanto materiale e saperlo usare. E per materiale intendo studio, ascolto, cultura musicale, sociale, politica. Il jazz è stato usato ed era considerato una musica politica, perché libero e democratico nella sua esecuzione. È una musica libera perché assimila altri generi e li fa suoi».
Un linguaggio?
«Etimologicamente un dialetto che diventa una lingua universale. Il jazz è una lingua giovane, del secolo scorso, che si sta evolvendo. L’ho assimilato quando si stava ancora formando, ed è una lingua che ha una struttura. Si parte da questa per poi creare nuove forme».
Dunque, ha senso parlare di jazz contemporaneo?
«Il jazz sarà sempre contemporaneo perché è una lingua onnivora che assorbe l’istante in cui viene suonato, viaggia con l’evoluzione – e l’involuzione – delle persone, è comunità».
Enrico mi racconti dell’intra’s Derby Club?
«Volevo creare un luogo dove si ascoltasse jazz. Con me suonava il batterista Pupo De Luca che si divertiva a commentare ogni pezzo prima di suonarlo. Lo faceva in modo marinettiano. La voce si sparse e iniziarono ad arrivare Franco Nebbia, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, tutti giovani incoscienti con una poesia nel cassetto da tirar fuori. Il cabaret ha avuto una sua funzione, potevamo criticare tutto. Dopo il Derby ho aperto un altro locale in corso Vittorio Emanuele, l’Intra’s al Corso, dove è venuto a suonare tra i tanti anche Lennie Tristano. C’era anche Caterina Caselli che suonava il basso elettrico…».
Stasera, venerdì 29 settembre, terrai un concerto per JazzMi in un luogo speciale…
«Suonerò nel carcere minorile Beccaria (al Teatro Puntozero, ore 21 ingresso libero su prenotazione, ndr). Presenterò Ossimoro, una suite in diciassette momenti per pianoforte, contrabbasso (ci sarà Margherita Carbonell, ndr) e il quartetto d’archi Rilke, quattro ragazzi della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado. Tengo molto a questo concerto, scrivilo!».
Sei stato per 35 anni il direttore della Civica Scuola di Musica…
«Ora sono il presidente onorario e il direttore della Big Band».
Paolo Rossi mi ha detto che vorrebbe arrivare alla tua età ma non così in forma, riferendosi al saltello che fai a fine concerto…
«(Ride, ndr) Ormai le gambe iniziano a non tenermi più tanto. Per questo ho chiesto a mio figlio Mattia, che è chirurgo allo Ieo, cosa potessi fare per migliorare. Mi ha risposto: “Compra un bastone”! L’ho acquistato, ma di quelli che si ripiegano così posso metterlo in borsa ed evitare di esibirlo. Lo uso solo uando ne sento la necessità».
Alla musica di Enrico Intra si “innesta” la stand up comedy onirica di Paolo Rossi, attore, comico, pensatore, come si definisce lui stesso.
Paolo, cosa succederà alla Camera del Lavoro?
«Non si può sapere, l’importante è che succeda qualcosa!».
Cabaret e musica sono inscindibili…
«Con Chiamatemi Kowalski sono stato il primo a portare in scena i musicisti. Mi rifacevo all’opéra-comique francese che si basava molto sull’improvvisazione. Questa non si inventa, l’ho studiata e la insegno seguendo regole assimilate dal jazz, chiacchierate fatte con i musicisti dopo gli spettacoli al bar. La regola base per l’improvvisazione è l’ascolto. In parallelo ho sperimentato, facendolo poi diventare un punto fisso, questa sorta di “recitar cantando”. Non sono un cantante, ma un attore che usa la canzone e che dà grande spazio all’interpretazione. Sul palco siamo un circo acrobatico!».
Questo narrar cantando tiene incollato il pubblico, è un buon modo per catturare l’attenzione…
«Penso spesso che si potrebbe applicare alla scuola. Tutti gli insegnanti dovrebbero fare corsi di recitazione: il saper affascinare, il far innamorare, il contaminare le lezioni con i generi frequentati dai giovani renderebbero l’educazione più interessante e dunque coinvolgente».
Comunque metter su questo circo acrobatico non è da tutti!
«Quando sali sul palco devi essere tre entità: l’attore che conosce il mestiere, i personaggi che evochi e interpreti e la persona che sei. In un’epoca in cui, con i social, tutti recitano, quest’ultima diventa fondamentale, perché riesce a stimolare e affascinare. Lo sto vivendo in casa con mio figlio più piccolo Shoan…».
Come la stai risolvendo?
«Lui suona, è molto bravo, ma non il blues e il rock a cui l’ho iniziato, fa rap e trap, generi che sono lontanissimi da me. Per non ripetere quello che è successo con mio padre che ascoltava Nat King Cole e inorridiva quando mettevo dischi rock, mi sono sforzato di capire, almeno dal punto di vista sociale, le sue preferenze musicali. L’altra sera mi ha chiamato al telefono e mi ha detto: “Ti mando un beat che ho fatto”. Un beat? Che razza di roba è ho pensato. E subito dopo mi arriva un ritmo, pim pam bum bum sbam… “E la melodia?”, domando. “Verrà dopo…”, mi ha risposto».
Altre strade dalle nostre!
«È un problema di colonialismo culturale anglo americano. Noi italiani siamo forti e conosciuti nel mondo per la melodia. Se abbandoniamo i nostri talenti naturali rimarremo solo dei cloni malfatti di qualcos’altro. Per questo gli raccomando di cercare di esplorare territori vicini: ha inserito la chitarra elettrica e il basso, un passo avanti».
Torniamo a Intra: è un musicista instancabile!
«Chiude i suoi concerti facendo un saltello, ha un’energia che vorrei avere anch’io, anzi forse un po’ meno! Persone come Intra ti aiutano ad attraversare la giungla e arrivare al giardino della creatività».