Antonio Faraò, il cuore eclettico della musica al GaiaJazz

Antonio Faraò – Foto Marco Glaviano

Mi trovo per lavoro a Chianale, in Val Varaita, sopra Cuneo, a pochi chilometri dalla Francia. Un borgo a 1800 metri d’altezza, lì vicino il confine, appena 22 abitanti, la metà giovani che hanno scelto di costruirsi la vita qui, mettendo a frutto studi, competenze, aspirazioni. Parlano l’occitano, lingua romanza diffusa tra Francia Piemonte, Liguria e, in un’enclave, anche in Calabria. Danzano nelle tante feste estive al passo dei suoni tradizionali, l’organetto diatonale e la ghironda, un cordofono d’origini antichissime…

Dall’altra parte della pianura Padana, nel borgo medievale di Portobuffolè (Treviso), si sta tenendo un festival arrivato al suo decimo anno di vita, il GaiaJazz Musica & Impresa, nato grazie a Dotmob, associazione culturale fondata con l’obiettivo di diffondere la conoscenza delle imprese e delle professionalità che valorizzano il territorio. Il jazz c’entra più di quanto possiamo pensare: caparbietà, cultura, studio, creatività lo rendono sintesi di come dovrebbe essere l’impresa nel nostro Paese.

Sotto lo stesso cielo, dal Piemonte al Veneto, c’è sempre la musica. Veicolo per tenere vive tradizioni o per connettere e segnare nuove strada. Sono tracce, indizi di un progredire verso obiettivi, che poi riguardano tutti, penso alla sostenibilità ambientale, a un certo modo tollerante e costruttivo di relazionarsi, a una cultura diffusa. Un mondo che rispetta le diversità, anzi si nutre di queste, che promuove connessioni umane fatte di linguaggi diversi, che considera l’arte un mezzo di riflessione su tutto quello che ci sta accadendo.

Chi lavora su questi binari è un geniale pianista romano, Antonio Faraò, jazzista di fama mondiale. Da tre anni è il direttore artistico del GaiaJazz. Il suo percorso artistico rispetta tutto quello che vi sto raccontando: la musica non ha confini, non si etichetta, perché la creatività non si imbriglia… La musica non viaggia per sotterfugi, si dichiara apertamente: in fin dei conti è questo lo spirito del jazz, libertà di movimento nel rispetto dell’altro, dialogo soavemente dolce o intimamente aspro, in ogni caso, linguaggio il più aperto possibile.

Il 2 luglio Antonio chiuderà il festival con un suo concerto nella Tenuta Polvaro ad Annone Veneto presentando il progetto Eklektik, che poi è anche il titolo di un suo disco uscito nel 2017, dove la contaminazione di generi e l’annullamento di limiti, in questo caso letti come generi musicali, sono temi dominanti. Con lui, in quintetto, Simona Bencini alla voce, Enrico Solazzo alle tastiere ed elettronica, Aldo Mella al basso e Lele Melotti alla batteria.

Il suo disco ha visto, invece, numerose e “forti” collaborazioni: Snoop Dog, Marcus Miller, Manu Katché, Krayzie Bone, Didier Lockwood, Walter Ricci, Bareli Lagrène, Lenny White, Luigi Di Nunzio, Claudia Campagnol, Mike Clark… Dodici brani nei quali tutto si tiene tra jazz, lounge, funk, brazilian, rap, soul e sonorità anni Settanta. Più che uno strizzare l’occhio a nuove possibili platee d’ascolto, il progetto di Antonio Faraò è un aprirsi al mondo, un atto di fede verso la musica vista come parabola del mondo, un percorso dove il jazz fa da collante, una sorta di filtro magico che assorbe note e restituisce armonia.

Eklektik è stato un disco “inclusivo”…
«Si tratta di un progetto pensato a lungo, per una decina d’anni, e che poi, stimolato dalla casa discografica Warner Music, ha visto la luce cinque anni fa. È un lavoro vario, più “elettrico” rispetto ai miei precedenti, dove ho lasciato più spazio alla musica. Un disco meditato: ho impiegato un paio d’anni nella post-produzione… Lo sai che sono stato contestato per questo album?».

Non stento a crederci…
«Me lo aspettavo, per questo il primo brano, Eklektik Intro, è uno spoken recitato dall’attore Robert Davi, con il quale vengono esplicitate le intenzioni del disco».

Ci sarà un Eklektic 2?
«Sì, l’ho abbozzato…».

Restando su questi concetti, mi piace quello di musica messa in relazione con imprese e lavoro.
«Gaia quest’anno celebra i suoi primi dieci anni di vita, io sono direttore artistico da tre edizioni. È una rassegna incentrata per lo più su musicisti nazionali, su giovani talenti (come Raffaele Fiengo, sassofonista presente in quartetto), che mantiene una programmazione varia e – fondamentale – uno spessore artistico».

Antonio Faraò – Foto Roberto Cifarelli

Che musica ti piace ascoltare?
«Classica, jazz, brasiliana, praticamente di tutto, anche una Mazurka di Casadei, l’importante è che sia fatta bene e sia autentica. Adoro Tom Jobim, Chico Buarque e Ivan Lins, che ha messo i testi su due miei brani. E poi c’è Frank Zappa, un grande musicista, uno sempre avanti. Lo è ancora adesso a quasi trent’anni dalla morte. Scommetto che tra 100 anni sarà ancora avanti!».

Il panorama attuale della musica, soprattutto mainstream, non è confortante…
«Purtroppo ci sono logiche diverse dall’autenticità. Per quanto mi riguarda esistono dei… “clan” che fanno conoscere volutamente la parte mediocre della musica. Siamo immersi in un “provincialismo” che limita molto, ed è un sistema che funziona così da anni. Sembra che esistano solo pochi musicisti, che poi sono quelli che riescono a relazionarsi politicamente, frequentando i palazzi e i ministri di turno, ed è un peccato, perché di materia prima ne abbiamo molta e valida, musicisti che ci invidiano nel mondo».

Possibili soluzioni?
«Ognuno per il suo dovrebbe andare contro questo sistema, prendersi la possibilità di divulgare la propria arte. Perché non è giusto che giovani talenti vengano sfruttati e poi snobbati. E questo avviene anche nel jazz, tutto ruota attorno ai soldi. GaiaJazz si propone, nei fatti, di invertire questo sistema». 

Mi sembra difficile riuscire a cambiare…
«La questione, secondo me, va  ben oltre il linguaggio e la cultura. Banalmente, se non fai parte di un certo “rango” non suoni».

Non sei per niente ottimista!
«Il problema non è il mio ottimismo, ma l’essere realisti: devi convivere con queste realtà assurde che fanno perdere di vista il ruolo e il senso dell’essere un musicista. Ho suonato recentemente a Villa del Grumello, a Como. È stata una serata bellissima che mi ha emozionato. Questo sistema povero d’anima e di vibrazione ti fa dimenticare quanto importante sia entrare in contatto con il pubblico. Per me la musica è emozione: se riesco a emozionare chi mi sta ascoltando, lo percepisco e mi commuovo io stesso, so che ho dato qualcosa a chi mi ascolta, che poi mi ritorna».

Uno scambio continuo di energie, così dovrebbe essere…
«Però tutto è finalizzato al business, ed è una bestemmia per un musicista: la musica è un’arte che fa brillare il mondo, dovrebbe esserci più rispetto nell’emozionare e nell’emozionarsi».

Come nasce una tua composizione?
«Dipende, da una melodia, un accordo, una base ritmica. In quello che faccio sono sempre legato al mio passato, alla mia famiglia, ai genitori. Anche il canto di un uccellino può essere un input… ma poi, sapessi quanti brani ho buttato nel cestino!».

Da pianista e musicista, come vedi le “giovani leve”?
«La cosa che mi stupisce negli allievi è che conoscono Brad Mehldau, ma non Bill Evans. O anche Jackie McLean (uno dei più grandi sassofonisti e compositori jazz del Novecento, ndr). Noto che tecnicamente sono ben preparati, però spesso c’è poca anima, si rischia di perdere il pathos, la parte istintiva. Il jazz va respirato, dev’essere virale dentro di te. Insomma, non bisogna suonare per mostrare quanto sei bravo, ma perché ami quello che fai. È una missione…».

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