Kaso, l’intervista: un nuovo disco, “Funziona” e la voglia di raccontare

Nel variegato mondo del rap è un tipo po’ anomalo. Innanzitutto, pubblica solo quando ha qualche cosa da dire, che a suo pensare possa risultare interessante (e già questo delinea il personaggio). Secondo: non insegue la notorietà, semmai è perdutamente infatuato della musica, il funk, il soul, l’hip hop old style, generi con cui convive fin da ragazzo, pur apprezzando le nuove pieghe dell’hip hop versione 3.0. Terzo: lavora nel sociale, e, credetemi, non è un lavoro facile, bisogna avere un bell’equilibrio interiore e una gran spinta motivazionale.

Dunque, riassumendo, un rapper a tutti gli effetti, una lingua sciolta che in rima rende plastici i concetti, costruendo storie che si riescono a “vedere”, introspettivo e caustico, mai assoluto e sentenzioso. Basta la pianto qui. Per tutti questi motivi, ha attratto la mia attenzione anche perché, dopo aver rilasciato un brano, Sono a casa Mamma, tra meno di una settimana, il 27 maggio, uscirà il suo nuovo album, Funziona. Lui è Kaso, di nome Fabio, originario di Varese, bella fucina di rapper, “operativo” in musica e versi dalla fine degli anni Novanta, quando ha dato vita a una fortunata coppia, Kaso & Maxi B, lo svizzero-italiano Maximiliano Bonifazzi, amicizia e collaborazione che coltiva ancora oggi.

frame da “Niente da dire”

«Ho perso l’obiettivo, il rap cambiava veloce, non capivo quel che sentivo, faceva schifo…». In Niente da dire, brano uscito nel marzo dello scorso anno rappavi così, davanti al bancone di un bar di paese…
«Avendo una quarantina d’anni mi adeguo al mio pubblico (scherza, n.d.r.). Non mi ritengo un rapper con i paraocchi. Il rap è una grande casa che ospita e continua a ospitare molte voci. E sono convinto che abbia ancora una storia da scrivere. I miei riferimenti sono alla musica black, il soul, il funk… Per la mia storia e per formazione ho avuto a che fare con gente del rap “classico”, passami questo termine, ma anche con giovani come Massimo Pericolo (27 anni di Gallarate, al secolo Alessandro Vanetti, n.d.r.): è uno delle mie parti ed è bravo…».

Chi, a tuo parere, emerge in questo mondo così affollato e complicato?
«Apprezzo chi ha una storia da raccontare, ovviamente con stile, determinante per fare questo genere di musica. Io suono più Elettronico, “groovoso”, legato, come ti dicevo alla black music. La trap non parla direttamente a me. Se non si ha nulla da dire, a mio parere, meglio stare zitti».

Tu e Maxi B. Avete fatto un pezzo della storia del rap agli inizi del Duemila…
«Con Max ci conosciamo dagli anni Novanta, allora registravamo in vinile! Anche nel mio nuovo album c’è un pezzo cantato con Maxi. Insieme abbiamo costruito una comunione di due anime diverse. Io sono “conscious”, attento al messaggio, lui, invece è molto diretto, crudo. Insieme abbiamo dato colori ed emozioni anche all’interno di una stessa canzone. Ci siamo ritrovati in varii brani e anche in questo album. Siamo complementari, mi piacciono i contrasti, i cortocircuiti, i percorsi poco lineari che hanno le persone, e anch’io mi ci metto dentro, senza per forza cercare un’ostentata coerenza…».

E qui entriamo nel tuo nuovo album, Funziona.
«Esatto, il titolo e anche la cover, che vedrete, ha come concetto proprio questo, il desiderio di far voler andar bene tutto, salvo poi andare in cortocircuito. Sai, i rapper hanno sempre uno spiccato senso critico verso la società, e io anche verso me stesso. Quelle che evidenzio sono cose vere ma probabilmente sono anche una sorta di giustificazione di me stesso. È inutile continuare a fare musica tanto per farla, poi finisci che fai uscire brani che durano poco e vengono dimenticati».

Sei severo con te stesso…
«Sì, ma posso dire, eccomi qua, non mi sono fatto sentire da un po’ ma sono qui, con qualche cosa da raccontare».

La tua canzone che anticipa l’uscita del disco è una metafora…
«Sono a casa mamma è un omaggio al genere hip hop. È una grande casa che accoglie tutti. La metafora della mamma è la più calzante per descrivere cos’ha rappresentato per me: ha contribuito alla mia identità ed è diventato anche un “luogo” musicale che posso chiamare “casa”».

Fabio, tu hai anche un altro lavoro, oltre a fare il musicista…
«Mi occupo di sociale dal 2002, lavoro con vite al limite, attualmente mi occupo di minori che hanno commesso reati e rifugiati, sempre giovani, tra i 19 e i 25 anni”.

Con questo impiego non sarà difficile trovare storie da raccontare…
«Non è facile per me conciliare il sociale con la musica, per come sono fatto io c’è una sorta di rispetto e pudore nel fare riferimenti nei miei testi alle storie di queste persone. Pensa che molti di loro sono anche miei fan. Gli domandi che musica ascoltano e capita che ti dicano: Kaso! È anche divertente… Sai, lavorare con ragazzi e ragazze che hanno storie molto pesanti ti porta a due scelte, per come la vedo io: o fare il guerriero, dare un approccio politico, oppure, senza mettermi il paraocchi, approcciarmi alla musica in senso libero, avendo anche la possibilità di realizzare qualcosa di più leggero».

Hai deciso di fare questo lavoro per scelta?
«È stata una mia decisione e l’ho fatto per due motivi: la musica hip hop ha un forte valore sociale anche per chi ha scarse competenze musicali. È un genere accessibile che ha permesso anche alle persone “ignoranti” di musica di approcciarsi a una forma libera di espressione. Ribadisco il forte valore sociale della break dance o quello dei graffiti. Non esistevano scuole che ti insegnassero, era una sorta di “pedagogia circolare”, tutti imparavano da tutti, si cresceva insieme… L’altro motivo è che penso di avere un talento innato per questo mestiere, mi viene facile. Pensa che nello scrivere testi sono molto più lento…».

Torniamo a Funziona
«I progetti musicali nascono da un’esigenza e uno stimolo. In tutto questo c’è anche il mio collega “musicale” Mauro Banfi, tornato a casa, nelle mie zone, da Londra dove ha vissuto per molti anni. Lui è un bravo musicista di estrazione jazz e con lui sto collaborando da un po’, ci conoscevamo da anni e con il suo ritorno abbiamo iniziato a parlarci, a fare progetti insieme con un obiettivo: riportare nel mondo del rap il groove, abbinato con qualcosa di fresco. Abbiamo curato molto  e preparato anche l’aspetto “live”: penso che il rap dal vivo possa dare ancora molto. Quindi, quando ritorneremo a suonare dal vivo, lo farò con una band, creando uno show che possa incuriosire lo spettatore e che apprezzi il rap come una musica suonata. I rapper sono intrattenitori di loro, se in più ci metti anche i musicisti diventa qualcosa di grande. Salmo dal vivo è una potenza proprio per questo».

Ci sarà, dunque, rap con escursioni jazz?
«Sì, non solo, ma sempre riportati al groove. Nello spettacolo dal vivo avere dei musicisti sul palco fa sentire il rapper molto più libero di muoversi ed esibirsi. È una bella sfida spaziare su diversi mondi…».

Anche tu suoni…
«Sono cresciuto utilizzando il campionatore. Da ragazzino avevo iniziato a suonare la tromba. Mi piaceva, ma non al mio vicino che, per lavoro, faceva anche i turni di notte. Così mi ha fatto capire che forse era meglio che cambiassi strumento. Allora sono passato alle tastiere. Che ho suonato anche in un gruppo funky rock, gli Hoptelpry. Le tastiere le riutilizzo ancora, e le fondo con il campionatore, credimi, molto meglio per i diritti d’autore (scherza, n.d.r.)».

Una curiosità, anche in questa copertina ci sarà il colore giallo? È una sorta di marchio di fabbrica…
«Non ti anticipo nulla sulla cover, uscirà tra pochissimo, comunque sì, c’è del giallo. Questa è un’altra storia, il giallo è arrivato per caso, quando io e Maxi producevamo vinili, lo stampatore sbagliò colore e ce li fornì tutti gialli. A nessuno piaceva questo colore ma ci siamo convinti quando ci ha detto: “è stato un errore, scusate, ma vi facciamo uno sconto”. Da allora abbiamo fatto diventare il giallo una sorta di marchio identificativo. Nei concerti c’era quel colore. Con Maxi abbiamo pubblicato un album dal titolo Preso Giallo, che in slang torinese significa “prenderla male”, io ho pubblicato un disco dal titolo Oro Giallo, il mio marchio è giallo…».

Domanda inevitabile, che cosa ha lasciato questa pandemia nella musica?
«Spero che dopo quest’esperienza che ha coinvolto tutti, possa nascere all’interno del settore un senso di unità per creare qualcosa di nuovo, di più solido. Rinascere con più consapevolezza, penso anche nella gestione dei diritti d’autore. Sono una persona che non invidia i colleghi che hanno avuto grandi successi, sono felice per loro».

Cosa ti aspetti?
«Chi lo sa! Sia a livello locale sia in quelli più alti bisogna cercare di riconoscere che quello del musicista è un lavoro a tutti gli effetti, un mestiere come tanti altri. Perciò bisogna cercare di renderlo dignitoso. Ma è una rivoluzione di pensiero che deve partire dagli stessi artisti».

Smart Working? Lavoro “agile”? Nulla sarà come prima

Nulla sarà come prima. Dal mio angolo di studio casalingo fisso il computer. Le musiche che mi frullano per la testa sono tante, attimi, spotlight, ricordi di note e parole. Nulla sarà come prima, nulla sarà, comunque, come qualche giorno fa. Ritornare alla normalità, complice tre settimane di chiusura sta provando ciascuno di noi.

Ci si adatta, si riesce a sopravvivere perché l’uomo, come tutti gli animali, riesce a ricavarsi un posto dove stare, cercando poi di trarne il meglio per la propria specie. Ma qui il discorso è più profondo. In pochi attimi sono stati rivisti anni, decenni di modi di lavorare, vedere la vita, produrre, persino ascoltare musica…. «It’s the the End of the World As We Know It (And I feel Fine)», per dirla con la rabbia rassegnata dei R.E.M. di Michael Stipe & Soci. Ed è proprio questo che preoccupa.

Finora la nostra società s’è retta su strutture, se volete arcaiche: ufficio, luogo di lavoro, casa, bar, luoghi di aggregazione, concerti e stadi luoghi di divertimento. Ma, fino a quando tutto gira nella routine non ci fai caso. Ora, da casa, si riesce a mettere in discussione – e a fuoco – tutto quanto. A partire dal lavoro: si può produrre anche da un luogo che non sia l’ufficio. Potremmo in modo veloce e come divertissement applicare un sillogismo cartesiano: Dunque, sono ancora davvero indispensabile? O mi ritrovo uno dei tanti che sa fare quel lavoro? Conta qualcosa se sono in un luogo fisico costruito per quello, l’ufficio, o quest’ultimo, è solo un orpello perché tanto la mia attività non è così essenziale che sia fatta lì, in quel luogo? Il registratore di cassa che apre Money dei Pink Floyd da The Darks Side of The Moon  è il segno di quell’opulenza a cui ci siamo votati: «Money, it’s a crime, Share it fairly but don’t take a slice of my pie» (Soldi, è un crimine, condividi equamente, basta che non prendi una fetta della mia torta…). A questo punto del ragionamento male non fa rimanere con i nostri cari amici Pink Floyd e far salire, dopo aver messo a manetta l’ouverture di Shine On You Crazy Diamond da Wish You Where Here (1974), omaggio a quel diamante pazzo che era Syd Barret, il fondatore del gruppo perso nelle vallate dell’LSD e di altre droghe, il nostro quesito: cosa succederà quando riapriranno i cancelli? Mi (ci) ritroveremo di nuovo in coda, come tutte le mattine ai tornelli della metropolitana o sotto la pensilina del tram ad aspettare di salire per ritornare al lavoro, rispondendo, nel frattempo a testa bassa e incuranti degli altri alle tante sollecitazioni social (e qui c’è la chitarra di Gilmore, che aumenta e incede prima dell’assolo di risposta che dovrebbe risvegliare i miei nervi, ma solo per un attimo, far vedere a me stesso che fluttua in una bolla che poi è la vita di ciascuno di noi…).

Per le aziende la quarantena da coronavirus è un’esperienza universale fatta senza pressioni esercitate da forze sociali e sindacali, una manna dal cielo, l’opportunità di cambiare.

Non ho mai fatto nella mia vita altro che il giornalista, tralasciando piccole passioni personali. Non che sia una cosa aprioristicamente valida. Per carità, la mia vita professionale si carica di molte altre valenze, ma questo so fare, e so che la grande crisi di lettura di questo Paese, la mancata vendita dei giornali – a parte le contingenze tecnologiche dietro alle quali fin troppi addetti ai lavori si nascondono -, è frutto della povertà intellettuale, dell’inaridimento culturale a cui siamo stati strascinati passo dopo passo senza nemmeno essercene accorti. Tutto è così perché è così, non una voce dissonante. Chi non è d’accordo urla, ma urlare non è dissentire argomentando. Le redazioni erano state concepite come luoghi di produzione di idee, posti di costruzione di pensiero, arene aperte dove discutere, azzuffarsi per poi fare sintesi. I direttori, in teoria le persone che eccellevano in queste capacità, avevano in mano un potere enorme, quello di tante menti che adoravano il mestiere, amavano stare insieme, magari si insultavano anche pesantemente, ma pure un insulto ha il suo fondamentale perché. Direttori d’orchestra che facevano suonare la loro partitura. Da casa, ognuno nel suo rettangolare, personale buco di mondo che è il proprio laptop cosa può trasmettere all’altro? Lo cantava bene Johnny Cash scandendo le corde della sua chitarra, reinterpretando quella straordinaria canzone dei Depeche Mode che è Personal Jesus. Noi abbiamo il nostro Cristo su misura e da lì non ci muoveremo. Su questo vorrei sentire anche i vostri pareri mentre me ne sto disteso sul tappeto, immaginando i prati in fiore e l’erba profumata e l’eco lontana delle note di Overkill degli australiani Man At Work. Un’esagerazione?