Clio and Maurice: la voce, il violino e la ricerca della bellezza

Non potevo iniziare meglio l’ultima settimana di marzo! Mi sono, infatti, imbattuto in due giovani artisti, Clio and Maurice, lei una gran voce soul, lui violinista versatile, entrambi di Milano. Voglio cominciare da loro, nei prossimi giorni il mio racconto musicale si sposterà fra teatro-canzone e jazz contemporaneo, con belle sorprese e graditi ritorni. Clio and Maurice mi hanno convinto per più di un motivo: sono giovani, hanno un facile talento, e, non guasta mai, hanno ben delineato il loro percorso artistico. E poi, da non sottovalutare, sono fuori dal coro.

È la mia piccola battaglia quotidiana che combatto attraverso Musicabile: proporre alla vostra attenzione musicisti che hanno qualcosa da raccontare. Mi illudo, così, di contribuire a versare almeno una goccia in quel mare di cultura e bellezza che, inesorabile come l’esigenza idrica sul Pianeta, va via via prosciugandosi. La speranza che qualche discografico “illuminato” possa ritornare a indossare scarpe comode e andar per palchi o passaparola a cercar talenti come si faceva oltre mezzo secolo fa, prima che il meccanismo s’inceppasse con l’avvento dello streaming e del digitale (più facile scritturare qualcuno in base ai like sui canali social), non mi abbandona. 

Rientro dalla mia divagazione: Clio and Maurice, all’anagrafe Clio Colombo, 26 anni, e Martin Nicastro, 29, sono entrambi animati dall’esigenza di raccontare qualcosa di nuovo, che valga la pena d’essere ascoltato. Coppia d’arte da quattro anni e di vita da otto, stanno affinando un progetto-sfida: sfruttare la potenzialità della voce e del violino, per ottenere una fusione carismatica grazie anche all’uso sapiente dell’elettronica.

Nella loro musica si avvertono tutte le escursioni/espressioni soul di Clio – in alcuni brani ricorda il pathos di Annie Lennox o l’estro di Björk -, mentre Martin, con la continua ricerca di nuove sonorità da dare al violino, strumento che, nelle sue mani, diventa “altro”, se proprio deve ricordare qualcuno, fa pensare ad Andrew Bird o a certe atmosfere alla Brian Eno. Un duo che si sposta leggero, con un solo strumento e una loop station, oggi è un valore aggiunto… All’attivo hanno vari singoli e un EP, Fragile, uscito nel 2020. Stanno tentando ì di far uscire il loro primo album – appena troveranno una casa discografica disposta a credere in loro.

Li ho incontrati in un bar dalle parti di Loreto per conoscerli meglio, davanti a un buon caffè.

Clio, Martin, raccontatemi, com’è nato il vostro sodalizio musicale?
Clio: «Ci siamo conosciuti per caso, da amici comuni, otto anni fa. A me è sempre piaciuto cantare, ma non lo consideravo un possibile lavoro. Mi divertivo a interpretare cover. Dopo quattro anni di vita insieme è nata spontanea l’esigenza di unirci anche nella musica».
Martin: «Ci siamo seduti attorno a un tavolo e abbiamo riflettuto seriamente su come costruire qualcosa di originale con ciò che avevamo a disposizione, lei la voce, io il violino. Che è uno strumento “nomade” per definizione…».

Martin, oltre al Conservatorio, hai suonato in una band diventata piuttosto famosa, i Pashmak: ricordo un vostro album che mi era piaciuto particolarmente, Let The Water Flow
«Era un bel gruppo, abbiamo fatto molti concerti insieme, ma la gestione costava molto, eravamo soddisfatti se nei nostri tour finivamo non perdendo soldi… Io suonavo il pianoforte e il violino».

In duo è più agile, almeno nella gestione dei live…
Martin: «Sicuramente è stata una scelta di carattere pratico ma c’era soprattutto la volontà di fare qualcosa di diverso».
Clio: «Per me è stato l’attimo “buono” per sbloccarmi e iniziare a scrivere. Siamo partiti usando molto i loop. Cercavamo di comporre brani più strutturati, qualcosa che si potesse combinare con un loop. Oggi li usiamo molto meno. Siamo orientati su cose più radicali, violino e voce senza troppi effetti, più melodici…».
Martin: «Uso un pedale multieffetto, con cui faccio i loop, mentre con un octaver creo la linea del basso».

Il violino lo suoni molto poco nel modo tradizionale…
Martin: «Non direi. Cerco suoni polifonici, che ottengo sia pizzicando le corde, sia usando l’archetto, ma anche suonando accordi».

Come vi siete divisi la composizione?
Clio: «Partiamo prima dall’armonia e su quella provo a improvvisare qualcosa con parole chiave che mi evochino il brano. Poi inizio a scriverci intorno. Sono i suoni che danno il senso al testo».

Perché avete scelto di esprimervi in lingua inglese?
Clio: « Mi veniva più spontaneo, è quella che mi parla di più».
Martin: «La lingua influenza la musica. La nostra è stata una scelta d’istinto, ma c’è anche la consapevolezza che per il nostro tipo di musica l’inglese sia il “suono” giusto».

Un modo per allargare i confini, andare oltre l’Italia…
Clio: «La vediamo come una scommessa: essere italiani e fare musica in inglese, come fanno da anni i tedeschi o i nordeuropei».

Siete cresciuti con la musica in casa?
Martin: «Non veniamo da famiglie musicalmente “fornite”. C’erano ascolti diversi, quelli normali, da pubblico non educato. Ho iniziato a 14 anni con musica bella, la classica… Ascoltavo anche i Queen, i Led Zeppellin. Ricordo, però, che confondevo I Radiohead con i Motörhead, pensa com’ero messo!».
Clio: «Adolescente, sono improvvisamente passata da Hilary Duff, ad ascoltare e amare Ella Fitzegerald…»”.

Oggi quali sono i vostri ascolti?
Clio: «Tanti generi diversi. Ultimamente mi dedico molto al jazz, soprattutto quello nordeuropeo, mi sono innamorata della scena jazz svedese degli anni Sessanta».

Torniamo alla vostra musica: secondo me è particolarmente interessante perché il duo permette di esprimere le qualità di entrambi e valorizzarle. Quando suonate live chi viene a vedervi? Viene capita la vostra musica?
Martin: «Dobbiamo distinguere tra Italia ed Europa. Quando suoniamo in Francia, Olanda, Germania, ma anche in Gran Bretagna, possiamo cento come undici persone ad ascoltarci, ma sono tutte molto attente, capiscono quello che stiamo proponendo. In Italia, finora, quando ci esibiamo dal vivo abbiamo la sensazione di sembrare degli alieni. Ovunque, fuori, abbiamo percepito di essere nel posto giusto e di star facendo la cosa giusta».

Clio, stai passando un anno sabbatico a Berlino. Com’è la situazione lì?
«Sicuramente diversa da qui, anche se quella scena multiculturale, aperta, vivace è molto cambiata. Sempre molto creativa, comunque. C’è maggiore accesso all’interscambio tra artisti, lo stato tedesco tutela l’arte: anche nel periodi di Covid gli artisti che si sono trovati di colpo senza soldi, sono stati aiutati. Si percepisce che l’arte è considerata fondamentale».

Qui contano molto i contenuti mainstream. Chi non rientra, ha uno spazio di manovra stretto. È una questione culturale, che prima o poi dovrà essere affrontata…
Martin: «Credo sia inevitabile che prima o poi qualcosa cambi. Quello che manca in Italia è un po’ di coraggio da parte delle etichette discografiche: dovrebbero osare di più, investire invece di andare sempre sul sicuro».

Perché Clio and Maurice?
Clio: «Volevamo un nome che fosse disorientante, di cui non si capisse l’origine geografica, senza però perdere l’idea della coppia: volevamo essere noi e allo stesso tempo altro rispetto a quello che siamo».

Come etichettereste la vostra musica? Avant Pop?
Martin: «Mi sembra un po’ troppo impegnativo. Starei piuttosto su pop sperimentale, o pop alternativo».

Continuerete a suonare in duo?
«Nel disco che abbiamo praticamente finito abbiamo scelto di collaborare in alcuni brani con alcuni musicisti, gli Any Other, Margherita Carbonell al contrabbasso e Francesco Tanzi al violoncello. Per ora sì, è la veste che ci siamo dati e ci crediamo!».

I concerti? A casa dei fan. Il progetto di un giovane musicista

Giulio Voce – foto di Silvia Gerbino

Ci sono tanti modi per fare musica. Soprattutto oggi, un limbo, dove tutto sembra essersi cristallizzato e dove ci si muove a fatica, su strade strette e apparentemente invalicabili. In questo mondo in slow motion, per fortuna, ci sono speranze. Piccole, probabilmente insignificanti comparate al mondo dei live precovid, ma fresche, genuine da cui trarne insegnamento.

E vengo al punto. Lui si chiama Giulio Voce, ha 33 anni, è romano dell’antico e popoloso quartiere San Giovanni, e di professione fa il cantautore. All’attivo ha un album, Lithos, e due Ep, Terra Bruciata e Voce. È un musicista, quindi grande rispetto per il suo lavoro! Uno cresciuto a rock anni Sessanta e Settanta, cantautori alla Guccini e alla Rino Gaetano, fulminato dagli Offspring. Quale mix può esserne uscito dai suoi ascolti e dal suo background lo giudicherà chi vorrà ascoltarlo. In lui ho trovato, data l’età, reminiscenze di quelle estati da adolescenti degli anni Settanta, un po’ impegnate e altrettanto “cazzare”, tra folk americano, rock British e cantautorato impegnato.

Giulio è stato uno di quelli che ha approfittato della quarantena per crescere come artista, cercando aspetti del suo lavoro più umani, contatti, pareri, consigli dai suoi fan, vecchi e nuovi, sparsi lungo tutto lo Stivale. E proprio questo contatto virtuale lo ha reso reale a molti, che hanno iniziato ad apprezzarne la musica e il suo modo di presentarsi. Il motivo per cui l’ho contattato…

Quest’anno niente concerti, niente pubblicazioni, niente di niente…
«Non è un 2020 molto fortunato. In aprile avrei dovuto fare il “concerto della vita”, quello che prepari e speri perché può svoltarti la carriera, nella sala Petrassi all’Auditorium Parco della Musica, quindi in estate sarei dovuto partire per un tour… È saltato tutto, così ho pensato che dovevo ottimizzare le occasioni perse».

Quindi?
«Grazie proprio al lockdown e alla mia presenza sui social che mi ha dato l’occasione di conoscere persone nuove, parlarci, discutere, m’è venuta l’idea di fare ugualmente un tour,  molto particolare, però, andando a suonare nella case di chi mi vuole invitare e ascoltare dal vivo. Ho sondato e molti, tanti, si sono offerti di ricevermi, chi nel giardino del condominio, chi nel salotto di casa, addirittura, questo ad Ancona, a bordo di una barca a vela. Sto ancora mettendo a punto il progetto, probabilmente con me ci sarà un altro musicista, quindi un fonico, un fotografo, un videoreporter e una giornalista. Vorrei ricavare da questo viaggio in musica una sorta di docufilm – mi piace spaziare in altri ambienti. Insomma, un’avventura post-covid a stretto contatto con il pubblico».

Della serie, se il pubblico non può andare dall’artista è l’artista che va a casa del pubblico… Suonerete gratis?
«Ci sono alcune opzioni in discussione: lanciare un crowdfunding – e lo farò in questi giorni – ma anche forme diverse di accoglienza, ad esempio un baratto, scambio di ospitalità per immagine. Stiamo pensando di noleggiare un camper, che sarà la nostra casa per il tour e potrebbe diventare anche un elemento di unione nella nostra avventura musicale».

Dove andrete?
«Al Nordest, dove abbiamo avuto molti inviti, soprattutto in Veneto, San Donà di Piave, Jesolo, Bibione, ma anche in Friuli Venezia Giulia, passando per le Marche. Avrei inviti anche a Sud… vediamo come va il primo esperimento. Mi piacerebbe raccontare l’idea di viaggio, che in realtà sto già elaborando da mesi, con una serie di canzoni che comporranno il mio prossimo disco: mi ha dato lo spunto la Trilogia dei Pirati scritta da Valerio Evangelisti, con cui sono entrato in contatto. Il brano Tortuga fa parte di questo progetto, come l’altro, Penelope, o C’eri Tu, brano contenuto nell’Ep Voce, elemento anch’esso di questa lunga storia: una canzone semplice, estiva, molto pop. Scrivere una cosa apparentemente semplice è difficilissimo, perché facilmente cadi nelle banalità».   

L’idea di avere con te un fonico ti fa onore…
«Se devi presentare un brano lo devi fare bene. E poi, è fondamentale l’empatia che si crea con i tecnici. Senza di loro un concerto non sarebbe tale…».

Cosa ti aspetti dal tuo “personal tour”?
«Anche prima della quarantena molti mi domandavano: ma tu preferisci suonare nelle piazze, nei club o nei caffè letterari? Rispondevo – e ribadisco – che per me i migliori concerti sono i “post cena gucciniani”, quegli attimi dove c’è un vero scambio di emozioni, una sorta di ritorno alle origini, dove io racconto una storia e poi ho il contatto diretto e immediato con il pubblico. Mi aspetto questo. Vorrebbe dire che ho fatto centro!».