A fine aprile è uscito il primo disco di Marco Petrigno, cantautore, bluesman e pittore palermitano. Il titolo incuriosice, La lingua del Santo (via Vina Records), otto tracce che trasudano dolore, sofferenza, visioni apocalittiche. In effetti di un’apocalisse si tratta. Un’apocalisse personale dove il roots blues ci calza alla battuta. Chitarre stridule, resofonica metallica fino all’asprezza, synth che creano tappeti profondamente cupi, disegnando oscurità nel pentagramma.
Può sembrare un ossimoro uscire con un lavoro così in un momento, come la primavera che prelude all’estate e alla voglia di sole e fancazzismo. Una risposta la dà lo stesso artista, consapevole di questa forzatura: «La lingua del Santo è un disco che principalmente serviva a me. Che mi mancava. È come se senza dolore fossi nulla. A volte mi sento come se ci siano dei posti dentro la mia testa dove non posso andare neanche io. Malessere ed irrequietezza. Sentirsi fuori posto, inesatti. Scomodi. Il disco è uno sfogo del mio malessere, la mia musica lo è solitamente», spiega Marco. Continua a leggere