Franz Campi, il teatro-canzone e quel Sentimento prevalente

Oggi voglio tornare sul teatro-canzone. Genere che ha un suo perché: musica, creatività e recitazione sono una delle classiche forme di intrattenimento, probabilmente la più antica. Vi ho  già parlato di alcuni artisti che – vedi Roberta Giallo, Sergio Malpelo Gaggiotti, Rossella Seno, o anche Paolo Fresu – lo propongono in modo intelligente. C’è anche un altro musicista che ne ha fatto lo scopo della propria vita creativa. È un bolognese, 60 anni freschi di festeggiamenti, una verve da ragazzino e un’ironia schietta, contagiosa. Il suo nome? Franz Campi.

Un artista “regionale” come si definisce, visto che per lo più lavora nella sua terra, l’Emilia Romagna. Uno che è tante cose, comunicatore, organizzatore di eventi, attore, conduttore radiofonico e televisivo e, soprattutto, musicista. È riuscito a portare il suo spettacolo su Fred Buscaglione persino in Galles, ha partecipato nel ’93 alle selezioni di Sanremo Giovani (che passò) e nel ’94 al festival («che esperienza…»); tra le tante operazioni culturali messe a punto, s’è inventato pure la Premiata Palestra Atlas per muscoli del cervello, concorso per nuovi poeti… «visto il successo, alcuni concorrenti si montarono la testa e finì a schiaffi e pugni… alla faccia delle anime gentili…», scherza.

Il 19 novembre del 2021 è uscito un suo album dal titolo Il Sentimento Prevalente, 12 canzoni  firmate con Davide Belviso, che parlano della complessità del mondo, della pandemia, della violenza, dello scordarsi del passato, del ripetersi inutile della storia. Brani caustici, Venda l’Oro, appassionati, Lettera di un condannato a morte della Resistenza, ironici, Ridateci Fellini, o Stammi bene… In mezzo a tutto questo caos organizzato c’è un inguaribile ottimista che guarda il vorticar delle cose, le annota con la precisione di un notaio e la consapevolezza di essere altro da questo modo di vivere.

Eccoci qua, Franz! Come ti definisci: artista, cantautore, attore di teatro-canzone, organizzatore, conduttore, hai un programma televisivo, che parla di Green, Zorba, arrivato alla terza stagione…
«Sono fondamentalmente un comunicatore, mi piace raccontare, coinvolgere la gente, se riesco, con un sorriso e un filo di ironia. È la mia cifra stilistica principale. Lo faccio attraverso diversi canali, quello che mi affascina di più è certamente la musica, essere un musicista».

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E il teatro-canzone?
«Se vuoi vivere di dischi, o vai in cima alle classifiche o devi lasciar perdere! Quindi, una quindicina di anni fa ho deciso di dedicarmi al teatro-canzone. Ho iniziato con un tributo a Giorgio Gaber (Ciao Signor G.!), poi sono passato a Fred Buscaglione (Sono Fred, dal whisky facile): pensa, quest’anno sono undici anni di repliche…».

A proposito come sei finito in Galles con Fred?
«L’ho portato un po’ ovunque, in Svizzera e, sì, anche in Galles, dove nessuno lo conosceva! È stato uno di quei cortocircuiti della vita: un gallese che stava aprendo uno studio di registrazione e che aveva fatto l’Erasmus a Torino, s’era innamorato di Buscaglione a tal punto da cercare artisti italiani che lo facessero molto bene. Mi scoprì via Internet e mi chiamò là a suonare. Una bella esperienza!».

Nel tuo repertorio di teatro-canzone non ci sono solo le vite dei musicisti…
«L’ho declinato attraverso tanti altri temi, che poi coincidono con i miei interessi. C’è il cibo, ovviamente, con uno spettacolo chiamato Canzoni da Mangiare. A proposito: sono anche il portavoce della storia della Mortadella per il Consorzio della Mortadella di Bologna Igp… Ho raccontato la storia dell’Arte con Intonati a regole d’arte, e quella del manouche Django Reinhardt (Lo zingaro miracoloso – l’incredibile storia di Django Reinhardt) e ora quella di Alberto Rabagliati (Quando canta Rabagliati!)Grazie a lui mi sono innamorato dello swing!».

Immagino che la pandemia abbia fermato anche i tuoi spettacoli…
«Beh, sì, con i teatri chiusi s’è smesso di recitare e guadagnare! Però non sono riuscito a star fermo, così mi sono ritrovato a fare i concerti… da casa mia, gratuitamente! Appuntamenti fissi, sei settimane, sei sabati di seguito… socc’mel, era diventato un gran lavoro! Mio figlio (Andrea, uno bravo davvero, ha 24 anni ma è un bravo musicista!) faceva qualche pezzo con me, c’erano le dirette su Facebook, 1000, 1500 persone alla volta che mi seguivano. La gente mi mandava continue richieste di brani da suonare. Era diventato un bell’impegno!».

Avevi i tuoi fan…
«Ti racconto questa: c’era una signora che viveva con la badante proprio sotto di me, al terzo piano. Era molto anziana e malata, poi è mancata, poverina. Nei miei concerti casalinghi mettevo le casse fuori in terrazza, e suonavo. Un giorno la signora, non potendo venire da me, causa lockdown, è scesa aiutata dalla badante all’ingresso del palazzo e mi ha citofonato (immaginate il dialogo con inflessione bolognese, ndr): “Senta signor Campi, sono la Wanda, la Rizzoli… Volevo ringraziarla, che lei ci ha dato tanta felicità in questi momenti! Avrei una richiesta da farle…”. Eccola là ho pensato, chissà che canzone vuole che le canti, invece: “Potrebbe spostare di più le casse verso la mia terrazza, così sento meglio, grazie sa!».

Franz, veniamo a Il Sentimento Prevalente
«Come già detto, non riuscivo a star fermo in casa. Avevo canzoni nel cassetto, altre idee in testa, altrettante cose da dire, così, con Davide Belviso, polistrumentista, abbiamo messo su il disco. Ci siamo ingegnati, come tutti, a farlo da lontano: mandavamo le canzoni ai vari musicisti perché suonassero la loro parte, per il bandoneon a Udine, il piano in Puglia il sax a Guastalla… Poi Davide ha mixato il tutto. C’è una canzone che avevo scritto anni prima con Daniele Furlati, lo stesso che aveva composto le musiche con Marco Biscarini del film L’Uomo che verrà, sulla strage di Marzabotto, Lettera di un condannato a morte della Resistenza. Volevo ricordare a quelli che parlavano e parlano tanto di dittatura sanitaria e paragonavano il governo ai fascisti e ai nazisti, quello che era successo davvero durante una feroce dittatura. Certi paragoni sono inappropriati, offensivi. Avevo letto le lettere di saluti che i condannati a morte facevano recapitare alle loro famiglie, e lì mi sono ispirato. Alla pandemia s’è aggiunta la guerra: mi attacco alla musica cercando di portare positività di pensiero a chi ascolta».

Qual è il sentimento prevalente…
«Ogni giorno ci sentiamo oppressi, schiacciati verso terra. Lo pensavamo anche prima della pandemia, soprattutto noi della nostra generazione, triturata tra le responsabilità verso i figli, il lavoro stressante, i genitori anziani da gestire. Quando arriva sera, dopo una giornata intensa dove succede di tutto, si finisce per credere che le emozioni prevalenti della nostra vita siano solo quelle negative. L’ho vissuto anch’io: faccio uno sforzo per salvare me stesso, sennò mi butto dalla finestra. E poi rifletti: se hai la finestra hai anche una casa, un tetto dove vivere, una famiglia a cui vuoi bene, gli amici con cui incontrarti e parlare, molti interessi, un lavoro… sei un privilegiato, in una società ricca come la nostra! La morale è che il sentimento prevalente deve essere positivo. In questo disco, costruito a capitoli come un libro, ho cercato di spiegare tutto questo. Spero di esserci riuscito».

Che genere di musica ascolti?
«A essere onesti ne ascolto sempre meno. Mi piacciono le canzoni del passato, più che altro mi piace leggere. Penso con tenerezza al periodo in cui la gente andava ad ascoltare le orchestre. Qui a Bologna, a metà Ottocento, c’erano i venerdì dell’Antonelli, la prima banda della città. Tutti andavano in piazza Galvani ad ascoltarla, c’erano le belle da marito e i maschi che le scrutavano. Erano momenti di grande socialità. Venendo alla mia giovinezza: con i miei amici facevamo tutto insieme, compravamo i dischi a turno, andavamo a casa di uno o dell’altro, aprivamo gli album insieme, con attenzione per non rovinarli, insieme leggevamo le note, i nomi dei musicisti, guarda! C’è lui, ma no! C’è anche quell’altro, deve essere bellissimo… Poi, si mettevano i dischi sul piatto e si ascoltavano, condividendone le emozioni. Mi manca questa socialità, ora abbiamo una fruizione onanistica, tutti con le cuffie in testa ad ascoltare l’ultima playlist imposta da Spotify. C’è un pensiero unico anche nella musica. Siamo tutti uguali, ascoltiamo tutti le stesse cose…».

Hai iniziato a portare di nuovo in giro gli spettacoli? Hai intenzione di presentare anche il disco?
«Stanno iniziando a richiamarmi, ribadisco, sono uno “locale”. Ho iniziato con Canta che ti passa, spettacolo piccolino, liberatorio, antistress. Sul palco siamo tutti vestiti da medici, io sono un neurologo, l’altro uno psicologo, l’altro ancora è un proctologo (eh eh eh!), cantiamo tutti pezzi belli della canzone d’autore, divertenti, e lo facciamo assieme al pubblico. Sto preparando anche lo spettacolo per Il sentimento prevalente, lo sta scrivendo Alessandro Vanoni, scrittore che ha lavorato per il teatro: sul palco interagisco con una mia voce della coscienza e con immagini che scorrono dietro di me. Inizieremo a portarlo sui palchi a fine ottobre. Sempre in Emilia Romagna, a meno che non ci sia qualche teatro che ci chiami fuori regione!».

Fai tutto dal vivo?
«Sì tutto, atmosfera liberatoria…».

Rivango il passato: come sei finito a Sanremo?
«Facevo le mie canzoni e stavo vincendo un sacco di concorsi. Una sera faccio un concerto a Bologna,  mi viene a vedere la Iskra Menarini e mi dice: “Hai un repertorio bellissimo perché non lo fai sentire a Gianni Morandi che sta finendo il disco?”. Così io e Maurizio Minardi (autori di Banane e Lamponi, ndr) andiamo nello studio di Morandi e lasciamo una cassetta. Dopo due tre giorni, visto che non avevamo avuto risposta, siamo tornati. Suoniamo, ci apre Mauro Malavasi che chiama Morandi. C’era un lungo corridoio e nel mezzo un pianoforte. Abbiamo fatto un concerto per loro: “Fammi sentire questa, poi quest’altra, e questa?”. A Morandi piace Banane e Lamponi, una canzone goliardica che avevo scritto ai tempi dell’università, di quelle un po’… porno. “Sai non la posso cantare, con quel testo, ho un’immagine…”. Noi assicuriamo che in pochi giorni avrebbe ricevuto un altro testo. Malavasi e Morandi sono perplessi. In due giorni l’abbiamo portata, è andata bene ed è diventata un successo. Forte di quell’aggancio, sono andato a Sanremo Giovani dove ho vinto due serate. A febbraio ero sul paco dell’Ariston, ma mi son trovato la strada leggermente chiusa, era un anno particolarmente ricco, c’erano Francesca Schiavo, Joe di Tonno, Irene Grandi, Giorgia, Bocelli…».

Quando componi scrivi testo e musica o prima uno e poi l’altra?
«Ultimamente scrivo sempre meno musica. La musica è un’amante abbastanza severa, non puoi farla così così. Sulla composizione ho un po’ mollato, ho tanti altri impegni, ma a Bologna organizziamo spesso residenze artistiche. Ne ascolto tanta di musica, e quanto sento qualcuno di bravo, inizio con lui delle collaborazioni».

Nel tuo mondo ideale cos’è per te la musica?
«Una grande gioia. Lucio Dalla diceva che il successo è avere un pezzo del mio cuore dentro il cuore degli altri. La musica accende le coscienze. Pensa a Faletti con Minchia signor tenente; se pensi più in grande, anche contro l’Apartheid in Sud Africa la musica ha avuto il suo ruolo determinante, vedi Peter Gabriel con Biko o Carlos Santana. Non credo che si riuscirà a fermare Putin con una canzone, ma una canzone può provocare una grande onda».

Ci vorrebbe un nuovo Live Aid…
«Ognuno pensa al suo tour, al suo disco, non esiste più un Bob Geldof perché non c’è più un “noi”. Oggi… stiamo cotonando il nulla. Ognuno, salvo rari casi, pensa a se stesso, e non solo nella musica. Per cercare cose interessanti devi andare nei locali piccoli. Non ci sono più i talent scout… Lo scouting viene praticato davanti al computer, la prima cosa che si fa è andare a vedere le visualizzazioni, i “mi piace”… Se uno riesce a smanettare bene sui social può anche non saper suonare o cantare, e fare ugualmente successo. È tutta una grande truffa…».

Ciò si riflette inevitabilmente sull’ascoltatore…
«La velocità oggi è un dato indispensabile. Ci sono i tempi di lettura sui giornali, che trovo aberranti, e i brani corti, di facile e pronto consumo. Tutto deve essere ridotto a una cosa semplice, per nulla complessa. La complessità pretende attenzione, sacrificio, approfondimento, non puoi cavartela con uno slogan. Ascoltare di più, leggere di più ti dà più armi per crescere».

Roberta Giallo, ovvero la poetica della vita tra Lucio e l’Arte

Roberta Giallo – Foto Valerio Mengoli

 

Oggi leggerete una bella storia. Ha a che fare con quel geniaccio di Lucio Dalla e con la bravura di un’artista baciata dagli dei della musica. Ritorno al musicista bolognese, visto che settimana scorsa vi avevo presentato Caro Lucio rispondo, l’album di Sergio Rossomalpelo Gaggiotti, un intero disco-risposta a una famosa lettera-canzone di Lucio, L’Anno che verrà.

La protagonista del post è un’artista completa, compone, suona, canta, è attrice di cinema e teatro, scrittrice, pittrice, una di quelle persone con cui parlare è sempre una bella, grande avventura: Roberta Giallo. Marchigiana di nascita, bolognese d’adozione, ha pubblicato, lo stesso giorno di Rossomalpelo, il 4 marzo scorso, un brano dedicato a Lucio e alla sua Bologna dal titolo La città di Lucio Dalla (Tgcom24.it, la testata che ospita il sottoscritto e Musicabile, ha pubblicato in anteprima il video che potete vedere qui).

Su Dalla e su quello che aveva consegnato alla mia generazione avevo scritto uno dei miei primi post un paio d’anni fa. Intervistare, anzi, chiacchierare con Roberta, una di quelle sane “parlate” che sono possibili solo quando ci si sente a proprio agio, mi ha confermato quanto il lascito di Lucio sia stato importante. Una conversazione fitta, dove è emersa un’artista dotata di grande creatività ma anche di altri mille interessi, una mente mai ferma, una donna che non ha mai smesso di sognare che canalizza nella musica, nella scrittura, nella pittura, nel teatro, nel cinema e chissà in cos’altro ancora, tutte le sue energie. La creatività viene dalla fantasia, dall’esercitare ogni giorno quella parte ribelle di noi che vuole vivere i propri sogni.

Artista di grande esperienza, usa la voce con una naturalezza disarmante. Se la ascoltate in Anidride Solforosa, bellissimo pezzo firmato Dalla/Roversi, incluso in un disco – dal titolo Vicina Vicina – registrato in presa diretta e pubblicato sotto lockdown nel 2020, Roberta riesce a rendere la sensazione di quella nube tossica che soffoca la società, che poi è lo smarrimento dell’uomo, raspando la melodia, grattandola, scalfendola, seghettandola.

Se, poi, non avete ancora ascoltato Canzoni da Museo, album dello scorso anno dove ha musicato nove poesie di Giovanni Gastel, Roberto Roversi e Davide Rondoni, fatelo! Fossi stato allevato dalle scimmie di Gastel è l’ironico brano che introduce un percorso poetico e sonoro di grande delicatezza e attualità…

Roberta, non possiamo non iniziare da Lucio Dalla…
«È stato una persona e un artista straordinario che la vita ha messo sulla mia strada. Un po’ per destino, un po’ perché si finisce per incontrare sempre ciò che si ama. Arrivata a Bologna avevo conosciuto Mauro Malavasi (musicista, produttore, amico e collaboratore di Dalla, ndr). Con lui avevo avviato un percorso professionale, sfociato poi in una grande amicizia. Avevo in testa un progetto composito (disco, romanzo e spettacolo teatrale) che riguardava una mia storia personale (lo scoprirete tra un po’, ndr). Malavasi mi disse: “L’unico artista che può capirti è Lucio Dalla”. Gliene parlò e Lucio volle conoscermi, così mi invitò a cena. Da quella sera è iniziato un bellissimo viaggio di conoscenza, sia umana sia artistica. Il nostro rapporto non si limitava a una mera collaborazione professionale, il mentore affermatissimo che consigliava una giovane artista, ma era diventato un… legame familiare. Ero spesso a casa sua e lui a casa mia… A volte, semplificando, dico che Lucio per me è stato un po’ il mago di Oz, mi ha aiutato a realizzare sogni grandi, mi ha dato il coraggio, quel po’ di intraprendenza in più che mi mancava. Mi diceva: “Sbaglia e impara… non aver paura di quello che dicono gli altri”.

Quando hai scoperto la musica?
«Dacchè ho memoria di me stessa, ho sempre cantato e suonato. La mia prima lezione di pianoforte l’ho fatta a quattro anni e mezzo. A tre cantavo con mio papà, con in mano una specie di microfonino, La Casetta in Canadà! Ho iniziato a studiare piano in modo rigoroso con un’insegnante polacca che seguiva il metodo russo. Nonostante ciò, riuscivo a ritagliare sempre uno spazio per improvvisare. Dopo sette anni di piano ho capito che il conservatorio a cui ero destinata, non era la mia strada. Volevo sperimentare cose mie. Ed è proprio quello che sono diventata: una cantautrice aperta a tanto altro, mi sento bene così, perché trovo stimolo da più arti».

Prima di attrice, scrittrice, pittrice sei una musicista…
«Sono definizioni che uso per semplificare. Mi definisco, scherzando, cantautrice italiena, perché diversa e trasversale. Sono cantautrice ma anche interprete. Ho le mie canzoni, percorsi da interprete, percorsi in teatro dove divento performer. Anche il teatro-canzone è una formula che in qualche modo ben mi si accosta. Nella canzone porto sempre un racconto come chiave, una dimensione dove mi ritrovo…».

I tuoi lavori contengono narrazioni compiute, vedi Vicina Vicina: hai scelto tre cantautori a te affini, Dalla, De Andrè e Tenco diventati un filo conduttore…
«Credo che, ancor prima di me stessa, venga l’opera. Noi artisti siamo solo un veicolo, qualunque cosa facciamo. Dobbiamo promuovere la nostra immagine per far conoscere ciò che abbiamo creato, ovviamente solo se speriamo e pensiamo che stiamo lavorando per cose grandi. Lo stesso vale per gli album: non ho mai pensato a un greatest hits, piuttosto a un concept album. Ciò viene dal mio amore per l’arte figurativa, un viaggio compiuto che fai dall’inizio alla fine, per dare valore all’opera, sia esso un disco o una pièce teatrale».

La Città di Lucio Dalla farà parte di un nuovo album?
«Domanda interessante. Questa canzone è nata veramente per i fatti suoi. Quando Lucio ci lasciò, provai un grande dolore. Fu una botta incredibile, persi un amico e un mentore. Sprofondai nel silenzio. Scrissi la canzone un paio di giorni dopo la sua morte, per lui e per Bologna che mi aveva permesso di ospitarmi e di farmelo conoscere. L’ho ritirata fuori dopo tanti anni dallo scrigno della memoria, l’avevo tenuta lì per pudore. La ferita era troppo fresca, ne stavano parlando già in tanti… Oggi che questa si è chiusa, posso ricordarlo come si merita. Quando ho deciso di pubblicarla, per l’arrangiamento ho pensato, e ne ho parlato con il produttore (Enrico Dolcetto, ndr), a una chiave che potesse raggiungere anche i più giovani, conservando però qull’aspetto più cantautorale, che è la mia cifra. Creare canzoni fuori dal tempo, attuali ma non così collocabili stilisticamente: la musica che sfugge al tempo. Immagino di inserirla nell’album che sto preparando, anche perché l’utilizzo di sperimentazioni elettroniche unite all’acustico possono far nascere un bel progetto».

La tua musica è classificata in tanti modi, Alternative, WorldWide, Pop… In quale genere la identifichi?
«L’artista, poveraccio, ai giorni nostri deve essere un po’ influencer e un po’ prodotto da supermercato, avere attaccata un’etichetta. Quest’ultima te la devono incollare per forza se tu vuoi esistere nel mercato musicale. Anche se io non mi definissi me la affibbierebbero comunque. “Metti quello che vuoi”, mi dicono. Allora penso: sono pop, mi piace esserlo, sono per chi mi vuole ascoltare non mi considero un’elitaria della musica, cerco di fare cose belle, sentite. Quindi scelgo quelle “non definizioni”, che sono piuttosto larghe. La realtà è che sono molto curiosa, mi dedico a tante cose oltre la musica, quest’anno farò anche due film…».

Davide Rondoni sostiene che “la poesia mette a fuoco la vita”. Lo pensi anche per la musica?
«Il concetto di poesia di origine greca, oltre alle parole include la musica, che è un po’ come una divinità, estesa, non puoi controllarla né definirla fino in fondo. Musica può essere anche un’astrazione, al di là di se stessa, il luogo delle muse. Quindi, sì, può mettere a fuoco la vita! Nel mio caso lo fa, ma con il rimando: la vita mette a fuoco la musica. Finita la fase di me adolescente che già scriveva canzoni attingendo da un universo fantastico (a 15 anni sembravo una donna di 40 anni, già sposata…), una volta diventata adulta ho sentito l’esigenza di mettere a fuoco sempre un mondo fantastico ma soprattutto una “lei” più matura, che ha vissuto la vita. C’è molta vita nei miei brani, prendi La città di Lucio Dalla. La canzone ha questa grande potenzialità è un mondo enorme, vago, dove ognuno ci vede quello che vuole».

Hai pubblicato un disco, Canzoni da Museo (2021), mettendo in musica alcune poesie di Giovanni Gastel, Davide Rondoni e Roberto Roversi. Questo continuo dialogo tra poesia e musica lo intendi nell’accezione ellenica o è una ricerca ulteriore, un immaginare l’arte in un modo più complesso?
«Grazie, domanda molto bella! Posso parlare di poesia almeno in due modi diversi: quella legata a canoni ben definiti, intesa come studio, e l’altra come approccio più poetico alla vita, che non esclude la prima, ma che è un modo di essere. Ci sono persone che trovo estremamente poetiche nel loro relazionarsi con la vita, l’amore, l’amicizia, per come percepiscono la natura e l’ambiente circostante. Fin da bambina avevo questa propensione poetica alla vita, mi vedevo come una donnina dell’Ottocento. Ho una memoria – e probabilmente anche una nostalgia – di un passato che non ho vissuto, o magari l’ho vissuto in un’altra epoca! Quando scrivo musica uso, dunque, un approccio poetico. Comporre un brano per me non è un atto commerciale. Rispetto chi lo considera tale, ma io faccio tutt’altro, sono  due lavori diversi. L’arte non può essere delimitata da troppi paletti. In questo senso mi definisco poetica, riuscire ad arrivare alla cellula primigenia che fa scaturire una canzone, un testo, un quadro, creare legati a un sentimento. Alla fine mi occuperò anche della collocazione sul mercato, dell’etichetta… Gli antichi greci parlavano di Daimon, il demone che ispira l’artista: cerco sempre di rintracciare il mio. Altra cosa se devi scrivere su commissione, allora lì viene fuori il mestiere. La poesia c’è nelle situazioni di decadenza e in quelle pompose, è il nostro occhio che può coglierla».

Questo tuo modo d’essere è stato influenzato dalla famiglia?
«L’ambiente è importante, anche se poi c’è un quid che sfugge: ci sono fratelli educati allo stesso modo che diventano l’opposto uno dell’altro. Sono nata in una famiglia dove mia mamma è stata il viatico perché l’arte diventasse per me importante. Lei è una pittrice, insegnava in una scuola d’arte. Quando era incinta, ascoltava tanta musica classica convinta che mi facesse bene. Mi parlava molto della cultura classica, mi ha preparata ad amare tutto questo. Non lo ha fatto, invece, con il mondo. A scuola sono arrivata con un’educazione da “donnina ottocentesca”. Se non non è stato un problema alle elementari, lo è diventato poi. Ho frequentato il classico e l’università, filosofia. Al liceo ero vista come una giovane “strana”. I ragazzi pensavano a uscire mentre io, già a 11 anni, frequentavo il coro polifonico, dove si cantava musica gregoriana. A parte alcune amicizie della mia età, ho preferito coltivare rapporti con persone più grandi di me: uno dei miei più grandi amici è stato il mio insegnante d’arte del liceo. Oggi posso dire che tutto ciò è stata la mia fortuna, ma ho avuto tante difficoltà nell’integrarmi con gli altri. Sono stata emarginata perché non trovavo coetanei con cui condividere le mie passioni. La musica è stata il mio rifugio. Per me è un modo per stare con gli altri, è ciò che mi permette di incontrare gente, la molla sociale che mi offre la mia professione è ciò che mi muove nel mondo, che mi dà un senso».

Il tuo primo lavoro, L’Oscurità di Guillaume a chi era dedicato? Ad Apollinaire, a de Machaut?
Roberta mostrandomi Web Love Story, un romanzo da lei pubblicato, mi spiega: «Si intitola in un altro modo, ma in realtà è la storia de L’Oscurità di Guillaume (2017). Guillaume era un ragazzo francese bellissimo che conobbi per caso appena finita l’università. La musica non mi dava ancora da vivere per cui lavoravo in un negozio di mobili. Si presentò questo giovane affascinante, ci scambiammo i numeri di telefono perché gli avevo raccontato dei miei sogni, della  mia voglia di fare musica e lui voleva ascoltarmi… Su Myspace avviai una corrispondenza – io da Bologna, lui dalla Francia: finalmente avevo trovato una sintonia, era anche lui un uomo dell’Ottocento! Iniziammo una corrispondenza molto bella, lui da quanto mi raccontava, aveva ancora una relazione aperta ma arrivata agli sgoccioli. Poi, mail dopo mail, sbocciò l’amore, si conversava su Skype per ore. Questa storia ebbe un finale tragico. Mauro Malavasi, a cui avevo raccontato tutta la vicenda, mi spinse a elaborare la tragedia scrivendo una sceneggiatura, raccontandola in musica. Ne fu così entusiasta che mi disse: “Solo Dalla può aiutarti a mettere insieme tutto questo”. Così Lucio ricevette la bozza della mia storia, ne rimase affascinato, ci incontrammo a cena e.. da lì nacque tutto».

Scusa se ritorno sulla tua storia d’amore, ma Guillaume l’ha poi ascoltato il disco?
«Non lo so. Dopo mesi e mesi di fitta corrispondenza Guillaume non si presentò all’incontro stabilito. Dovevamo andare in Francia a trascorrere quindici giorni e lui doveva venire a prendermi. L’ho atteso, invano. Il giorno dopo sono venuta a sapere che era morto in un incidente mentre veniva in Italia da me… A distanza di tempo ho dubitato molto di questa morte. Lui cessa d’esistere, i messaggi che gli avevo inviato in quelle ore non erano stati letti sul suo telefono. Dopo nove giorni, però, improvvisamente Whatsapp me li dava tutti spuntati. Si fece vivo un amico di Guillaume che mi confessò di essere innamorato di lui e che fu lui ad accendere il cellulare per cancellare certi suoi messaggi e a leggere i miei… Il mistero si infittì, tutti facevano le loro congetture, anche Lucio: sospettava che i due fossero già una coppia, lui si era preso una cotta per me e non sapeva come uscirne così avevano inscenato tutto… Dopo anni penso che lui sia ancora vivo, che l’amico innamorato fosse solo una sua invenzione e la morte una messa in scena per scomparire…».

Un libro, un disco: manca una serie crime alla Netflix…
(ride, ndr!) Perché no! Potrei cercare un regista e ampliare questo capitolo della mia vita. Per me continua a rimanere un mistero irrisolto…».

Qual è il filo conduttore del nuovo lavoro?
«Dopo le Canzoni da Museo, tornerò a un progetto al cento per cento cantato, reale. In cantiere ho sempre avuto tantissime canzoni, La città di Lucio Dalla è una di queste. La mia idea è scrivere e recuperare brani dal cassetto per raccontare una nuova storia. Questo è un momento molto stimolante per scrivere e offrire punti di vista, bisogna solo cercare alcune parole chiave. Inoltre, continuo con i miei spettacoli a teatro, Morirete Cinesi con Federico Rampini, e Il mio incontro con Lucio Dalla, con Ernesto Assante. Spero in un tour meglio strutturato, ma è molto difficoltoso, vista ancora la grande incertezza pandemica. A proposito di teatro canzone: alcuni giorni fa mi ha chiamato Francesco Baccini, abbiamo in mente di unire le forze per fare qualcosa insieme. Tanti buoni progetti nascono così…».