Non amo scrivere i coccodrilli, ricordare artisti nel giorno della loro scomparsa. Ma un’eccezione per Franco Battiato è doverosa ed essenziale. Non per ricordare la vita dell’uomo e dell’artista, ma per pensare all’eredità artistica che il musicista siciliano ha lasciato.
Era il 1974, avevo 13 anni e muovevo i miei primi passi tra vinili, band e musica. Ricordo che nel negozio principale del mio paese, che vendeva un po’ di tutto, c’era anche un raccoglitore confuso, non catalogato in ordine alfabetico, pieno di vinili. Lì, c’era sempre un mondo che mi aspettava. Avevo puntato i Queen, Sheer Heart Attack, disco che conteneva Killer Queen, ma anche l’immaginifico Houses of The Holy, uscito l’anno prima, dei Led Zeppelin. Tra questi, Nicola Di Bari e Lucio Dalla c’erano anche tre copertine che avevano attirato l’attenzione mia e dei miei “colleghi” di scorribande musicali.
Pollution, Fetus e Sulle corde di Aries. Quella musica andava fuori dai canoni della mia primordiale conoscenza e gusto musicale. Ricordo di averli ascoltati e riascoltati, con amici un po’ più grandi di me che si piccavano di farmi capire il nuovo, la musica impegnata, la sperimentazione. Ammetto che le chitarre di May e Page erano più nelle mie corde invece dei synt, gli accenti di musica classica, il prog melodico che l’allora giovane Battiato proponeva, indicando la strada che avrebbe poi intrapreso nella sua lunga carriera.
Quegli LP li ho rivalutati dopo, crescendo, appassionandomi a quel mondo di musicisti che non seguivano il successo per il successo ma si arrampicavano lungo un sentiero tutto in salita, mettendosi sempre in gioco, credendo fermamente nella loro creatività. Accanto a lui c’è stato per anni il maestro Giusto Pio, che, da buon trevigiano, conoscevo come uno dei grandi personaggi della Marca. A Castelfranco Veneto, dove era nato (e dove morì nel 2017), tutti lo associavano a Franco Battiato. Per noi che abbiamo vissuto l’adolescenza in quell’angolo d’Italia, nei Settanta, e la gioventù, negli Ottanta, erano un punto di riferimento. Pio e Battiato erano la musica intelligente, la ricerca di qualcosa di nuovo in quegli anni dove tutto cambiava alla velocità della luce. Ricordo quando Battiato venne ai funerali dell’amico Pio nel Duomo di Castelfranco. Quel venerdì di febbraio, uno dei fili della mia giovinezza s’è spezzato.
L’inquietudine della ricerca dovrebbe essere per un artista un naturale istinto. Però, non appartiene a tutti, inclusi anche quelli più famosi. Chi ce l’ha, ha quella marcia in più, quell’osare con le note mondi fantastici, quel contaminarsi superando i generi: non più classica, jazz, pop, rock, worldmusic ma un’unico mondo dove tutto si mescola e convive, con gioia e sofferenza, allegria e tristezza. Questo per me è stato Franco Battiato, l’artista che era stato folgorato da Stockhausen. E anche dai dervisci, dalla musica araba e dalle nenie popolari…
Chiudo qui. Con il testo di una delle sue canzoni più intense, E ti vengo a cercare, dall’album Fisiognomica (1988):
E ti vengo a cercare
Anche solo per vederti o parlare
Perché ho bisogno della tua presenza
Per capire meglio la mia essenza.
Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te.
Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
Fare come un eremita
Che rinuncia a sé.
E ti vengo a cercare
Con la scusa di doverti parlare
Perché mi piace ciò che pensi e che dici
Perché in te vedo le mie radici.
Questo secolo oramai alla fine
Saturo di parassiti senza dignità
Mi spinge solo ad essere migliore
Con più volontà.
Emanciparmi dall’incubo delle passioni
Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
Essere un’immagine divina
Di questa realtà.
E ti vengo a cercare
Perché sto bene con te
Perché ho bisogno della tua presenza.