Saudade. Parola sulla quale si è discusso – e si discute ancora – molto. Solo pochi ne comprendono il significato, in buona sostanza, portoghesi e brasiliani. Aggiungo, per dovere di storia, anche un’altra parola, Banzo, eh sì, una sorta di Saudade ma dei popoli africani che si sono ritrovati schiavi in Brasile e in altri paesi occidentali, prede di mercanti e di tratte. Il banzo lo avvertirono, soffrirono, rielaborarono i neri della diaspora, come sono stati definiti in Brasile. Ma qui ci inoltriamo in ragionamenti psico-sociologici che meriterebbero ben più di un semplice post su un blog.
Torno alla Saudade e sul perché ho deciso di parlarvene oggi. Siamo chiusi nelle nostre case ormai da quasi un mese, o forse più, accidenti ecco il rischio, perdere la cognizione del tempo. Ci si arrabatta, si lavora in smart working, si fanno vari giri pensosi per la casa, cosa mi accadrà dopo, ma quando è il dopo?, nulla tornerà come prima… cosa che potrebbe persino essere eccitante: pensare di ripensare un modo di vivere. Per lo più si pensa a quello che di bello si faceva fuori e che davi per scontato, piccoli atti che facevano parte dell’esistenza di ciascuno di noi. Ecco questa è la… Saudade. Credo che questa parola, intraducibile, sia riduttiva pensarla solo come “nostalgia”, come la intese il creatore di questo neologismo, un giovane medico svizzero, Johannes Hofer, nel 1688 quando pubblicò la propria tesi di laurea sulla depressione dei militari svizzeri lontani da casa perché impegnati in guerra, unendo due parole greche, νόστος (ritorno a casa) e άλγος (dolore, sofferenza). Sì, certo, è anche questo, ma è quel qualcosa d’altro che hai dentro, quella sensazione profonda che fa parte di te, ereditata geneticamente mi spingo a dire, una piccola parte nella catena del DNA… Ed eccoci: sì ho Saudade, una “deslumbrante” (fulgida) Saudade. Di una strada che percorrevo tutti i giorni, di persone che si incontravano, di un respiro a pieni polmoni in piazza Duomo, di uno spritz (col Campari, rigorosamente!) dalla mia amica Silvia alle Biciclette, di un concerto, di una sera a teatro o a un cinema che ti apriva la testa.
Jô Soares, drammaturgo, scrittore, presentatore televisivo e raffinato intellettuale brasiliano, in un post su Facebook di qualche anno fa sulla Saudade scriveva: «Não importa: a saudade arde. Mas serve para nos mostrar como o outro é importante. Serve para mostrar como pequenas coisas fazem falta. A saudade faz a gente prestar mais atenção no outro. E, principalmente, a saudade mostra o que é de verdade», “Non importa: la saudade brucia. Ma serve a ricordarci come l’altro sia importante. È utile a indicarci come si senta la mancanza delle piccole cose. La Saudade ci obbliga a focalizzarci sull’altro. E soprattutto, la Saudade mostra ciò che conta davvero”.
Dunque, questa è la Saudade? Il rimpianto e il desiderio di avere o rivivere, una cosa, come canta con quella sua voce incredibilmente carnosa Maria Bethânia, sorella di Caetano Veloso, nell’album Tua del 2009, brano scritto da Chico César e Paulo Moska. Negli ultimi versi Maria dice:
A casa da saudade é o vazio
O acaso da saudade, fogo frio
Quem foge da saudade
Preso por um fio
Se afoga em outras águas
Mas do mesmo rioLa casa della saudade è il vuoto
La casualità della saudade, un freddo fuoco
Chi scappa dalla saudade
Tenuto per un filo
Si affoga in altre acque
Ma dello stesso fiume…
Nel 2014 persino i Thievery Corporation, al secolo Rob Garza ed Eric Hilton, pionieri di una gran sofisticata musica elettronica di qualità, hanno dedicato alla bossa nova e alla Saudade un intero disco, con collaborazioni di musicisti e cantanti di tutto rispetto, con un brano strumentale, che dà il titolo al disco: solo musica per esprimere uno stato d’animo intenso.
Ci sono anche i Saudade, super band fondata di Chino Moreno dei Deftones con Dr. Know e Mackie Jayson dei Bad Brains, il bassista Chuck Doom e il tastierista jazz John Medeski. Moreno ha reinterpretato il senso della Saudade addirittura incarnandolo nel nome della band. Chino con la musicista californiana Chelsea Wolfe, ha publicato l’anno scorso Shadows & Light, bella sintesi.
Ho tanti amici brasiliani, persone meravigliose, che, non appena mettono piede a Milano sentono la Saudade della loro città d’origine, del caldo, della spiaggia, della “cervejinha ben gelada” da sorseggiare nei sonnolenti sabati pomeriggio o per ringraziare “Deus” dei tramonti meravigliosi sul mare, e persino dell’odore dell’aria o della “batucada” di qualche ragazzino che fa samba su tamburi di latta. Quando si riappropriano di tutto questo, lei è ancora lì in agguato, questa volta perché mancano le amicizie milanesi, quella serata, i vecchi tram che sferragliano rumorosi…
Insomma, nati per soffrire, sempre e comunque. In realtà, e l’ho appreso dopo anni di contatti con i popoli di origine lusitana, la Saudade serve a sentirsi vivi, desiderare ancora passione, felicità, amore. Ma anche tristezza, essenziale per migliorarsi in una sorta di catarsi necessaria per arrivare alla soddisfazione della propria esistenza. Non ho Saudade di uno spritz ma di quello che lo spritz (rigorosamente col Campari, ripeto!) significa: relazione, amicizia, vita. Ecco perché la Saudade è più che mai necessaria in questi momenti duri. Resistere, resistere, resistere…