Joe Pisto e Fausto Beccalossi: il “Respiro” della musica

Il 17 gennaio scorso è uscito per l’etichetta indipendente Belfagor Label il secondo lavoro di Joe Pisto e Fausto Beccalossi dal titolo Respiro. Il chitarrista lucano e il fisarmonicista bresciano hanno stretto da oltre 15 anni un solido e proficuo rapporto di collaborazione, iniziato con numerosi concerti insieme e perfezionato da un disco, uscito nel 2018, dal titolo Interplay. È proprio su questa parola, ormai d’uso comune per definire nel jazz un perfetto dialogo tra i musicisti, che si fonda quest’unione artistica. Interplay è interazione, scambio dinamico di linguaggio, sinergia, credere nelle capacità dell’altro. 

Nella loro comunicabilità e creatività la parola Interplay suona dolce come i dialoghi e le sovrapposizioni tra chitarra classica e fisarmonica, spesso arricchiti dal canto di Joe – che,  per inciso, insegna al conservatorio di Bologna. «È un album autobiografico, rispecchia le emozioni di un determinato periodo della mia vita», mi dice Joe, schernendosi. «Sono storie molto personali e… vabbè…». Da una parte il pudore e la voglia di tenere tutto dentro di sé, dall’altra l’esigenza di fissarli in un disco che di questi fatti è cronista fedele. Il linguaggio è forbito e vario, le melodie sono avventure, storie narrate con delicatezza, senza rabbia o rancori. Il brano che meglio riassume questo racconto diviso in otto capitoli è l’ultimo, un epilogo dalla fine aperta, Sole di notte. La luce è speranza oppure struggente solitudine? Ognuno l’interpreti come vuole. L’attacco richiama i contrappunti della classica per poi evolversi, grazie alla fisarmonica di Beccalossi, in una narrazione cinematografica.

Elegante la title track, Respiro, che si dipana lungo un tema arioso, anche qui un dialogo tra strumenti, chiacchierata sentimentale che culmina in un assolo di Joe a metà percorso. Il brano è preceduto da un tango alla Piazzolla, L’amante, sanguigno al punto giusto. Un mosaico di generi, dunque, che rimbalzano da Buenos Aires all’Andalusia, dai sapori mediterranei alle atmosfere parigine. Tutto si tiene in questo lavoro che non si può riassumere in un generico contemporary jazz, né tantomeno mettere nel grande cassetto della World Music. È musica per la musica, dove ciascuno può riconoscersi ed emozionarsi.

Com’è nato il tuo sodalizio con Fausto Beccalossi?
«Ho conosciuto Fausto più di quindici anni fa. L’ho ascoltato per la prima volta a un concerto a Bologna. Era in trio con un pianista e una cantante, facevano fado e tango. Mi piacque talmente tanto che mi presentai, gli proposi una collaborazione visto che in quel periodo avevo iniziato a pensare a un un mio progetto dedicato alla musica mediterranea, una sorta di riassunto di tutte le esperienze musicali che mi avevano influenzato. Lui ha accettatoci siamo subito capiti ed è nata un’intesa umana e musicale. Abbiamo la stessa idea di musica, l’espressività dell’esposizione del tema melodico, di cui Fausto è maestro. Poi è nata la collaborazione che ci ha portato a tenere diversi concerti insieme a cui è seguita l’idea di pubblicare il nostro primo disco, Interplay, nel 2018. Passata la pandemia e tutto quello che le è venuto dietro, abbiamo poi registrato Respiro».

Oltre a suonare la chitarra, canti. Qual è stato il tuo primo amore?
«Ho iniziato prima a cantare. Lo faccio da quando avevo 5-6 anni. Tra l’altro la passione per la fisarmonica l’ho ereditata da mio padre: la suonava a orecchio allietandoci nei fine settimana, cantandoci canzoni napoletane e del nostro folklore. Sempre mio padre mi faceva cantare nei festival del paese e in parrocchia nel coro… L’amore per la chitarra è arrivato invece da adolescente: avevo quasi 14 anni quando, in uno dei concerti di musica classica che la Rai trasmetteva la domenica a mezzogiorno, ho visto suonare Andrés Segovia. Mi aveva ipnotizzato l’agilità delle sue dita sulla tastiera. Mi sono innamorato di quel suono così ho iniziato a studiare diplomandomi in chitarra classica. Parallelamente alla classica, ho sempre amato qualsiasi genere musicale, senza pregiudizi, facendo esperienze con Soul, Funk, quelli dell’etichetta Motown per intenderci, soprattutto con la musica di George Benson, per me un mentore, come chitarrista e cantante».

Nella tua musica c’è un portentoso via vai di creatività e suoni…
«Tutto mi ispira, l’incontro di una persona, il parlare tra amici, un suono… Quando scrivo mi metto sullo strumento, incomincio a suonare, canto una melodia e nasce il pezzo. Ho preso l’abitudine di registrarmi: lascio decantare alcuni giorni, riprendo in mano il brano e continuo. Respiro è la fotografia di un mio viaggio interiore. È un album interamente autobiografico. La title track è nata dopo un lungo periodo di sfide emotive personali, volevo comunicare questa mia necessità di respirare a pieni polmoni, il respiro è alla base della vita, no? È un invito a esplorare le proprie emozioni, a trovare il proprio respiro in questo mondo che molto spesso appare soffocante».

Un disco è sempre un viaggio, ha un punto di partenza e uno d’arrivo. C’è una scansione cronologica o emotiva nella progressione dei brani?
«Ogni pezzo racconta una storia. Sono viaggi autobiografici ma credo che molte persone possano condividerli».

Sole di notte, l’ultimo brano, lo si può leggere in più modi: una luce nella notte, dunque una gioia, ma anche solitudine, abbandono?
«Ha più significati: il sole può essere dentro di te, sei illuminato nonostante l’oscurità della vita. Oppure possono essere delle persone sole che magari non riescono a prendere sonno, sopraffatte dai pensieri».

Joe, come come definiresti la tua musica?
«È difficile classificare oggi la musica, è talmente contaminata! Sicuramente la mia viene dall’anima, è sincera, questo mi preme dirlo. Poi, ripeto, amo la musica in toto, vengo dalla classica, quindi il Bel Canto, la melodia sono fondamentali. In Respiro ho cercato di creare delle canzoni che avessero un equilibrio tra composizione, interpretazione e improvvisazione. Per interpretazione e improvvisazione possiamo parlare di jazz. La composizione è molto varia, c’è del flamenco, della musica mediterranea, se vuoi anche della musica colta,  prendi Sole di notte l’intro di chitarra può sembrare un pezzo di musica classica».

Usi solo la chitarra spagnola?
«In questo progetto sì, o comunque quando suono con Fausto Beccalossi. In altri progetti, dove uso maggiormente la voce con testi cantati –  jazz più “mainstream” – utilizzo quella elettrica».

 Cosa stai ascoltando in questo momento?
«Mah, c’è c’è talmente tanto materiale disponibile che è complicato! Cerco di ascoltare i nuovi cantanti jazz, mi piace molto Gregory Porter. Come chitarrista adoro Roberto Taufic, è un grande musicista, ha una sensibilità pazzesca. Ascolto anche i nomi storici del jazz, come Sara Vaughan o Miles Davis: non si smette mai d’ascoltarlo! E poi sono molto curioso, vado  su Spotify a cercare nuovi dischi, pubblicati magari da autori sconosciuti, soprattutto di World Music, non disdegno la musica elettronica, perché ci possono essere situazioni ritmiche che stimolano la creatività».

Come vedi, in generale, il panorama musicale del nostro Paese, tra musica digitale, non suonata, e Intelligenza artificiale?
«È cambiato proprio l’approccio. A parte i talent, show che per me sono la rovina della musica. Parliamo di pop e dintorni, con l’uso dell’autotune che nasconde il timbro di una persona, come fa una canzone ad arrivare dentro l’anima degli ascoltatori? Un suono elettronico non può farti venire la pelle d’oca. Detto ciò, parlando dell’Italia, ci sono tantissimi artisti validi, solo che non hanno spazio, perché è più importante avere centomila follower su Instagram, perché altrimenti non conti nulla. Oggi tutto è basato su questo, il giovane artista pensa più a pubblicizzarsi sui social che a studiare e a creare delle cose sincere o meno. Poi come hai detto tu con l’intelligenza artificiale sono nati programmi che ti creano proprio la canzone, con il testo in stile Tizio o Caio… è tutto incredibilmente freddo».

Non ci sono Club, non ci sono talent scout, si massimizzano i guadagni…
«Non si investe più negli artisti. L’unico incentivo viene dai talent: le persone vengono messe in vetrina per 6-8 mesi, in televisione e sui social, i vincitori li fanno andare in giro, ma nessuno più sostiene realmente un artista. I giovani non vanno ai concerti, l’età media del pubblico è di 50 anni in su. Dove sono tutti questi studenti di musica, appassionati? Anche queste assenze denotano poco interesse verso la musica. Ai concerti, invece, si  impara tantissimo, conosci i musicisti, parli con loro, ti si apre la mente, sentire un brano ti può stimolare la creatività…»

Portate in giro il disco?
«Ci stiamo preparando per marzo. Il 2 saremo a Bologna alla Cantina Bentivoglio, quindi, dal 10 al 17, tra Marche, Puglia e Basilicata. A maggio dovremmo suonare a Pavia…Ti terrò informato!».