Marco Testoni e la sua guida all’ascolto per inconsapevoli spettatori di colonne sonore

Sto leggendo un libro molto interessante che ha a che fare con il cinema e con la musica. Si intitola Come si ascolta un film? (Edizione Esfesto, 212 pagg. 28 euro) è stato pubblicato un paio di mesi fa e l’autore è un compositore, musicista e music supervisor per il cinema, Marco Testoni. Il sottotitolo sulla cover di questo saggio con più chiavi di lettura, risponde alla domanda del titolo: Guida all’ascolto per inconsapevoli spettatori di colonne sonore.

Non è una novità che la musica e il cinema siano oggetto continuo di studio, di saggi e di interventi letterari. Lo sono fin dai tempi del cinema muto. Il libro, anzi, il librone, 612 pagine possono spaventare, si legge veloce tra aneddoti, spiegazioni, considerazioni. Nella postfazione Massimo Privitera lo definisce “un volume che ha la capacità di essere, pur nella mole, giocosamente e seriamente sia divulgativo che analitico”. 

Iniziate dall’indice, dove i capitoli sono divisi in rapida sequenza temporale L’altroieri, Ieri, Oggi e Domani, con dovute “riflessioni oleose” finali e la postfazione di Privitera a rafforzare ciò che si è letto in questo lungo viaggio alla quale non si sono sottratti compositori classici, rocker, jazzisti, cantautori, artisti pop. Dopo la lettura dell’indice… liberi tutti, ognuno decide da che parte iniziare. 

Un altro atout del libro sono le 70 pagine di filmografia musicale essenziale. Scrive l’autore: “Un doveroso tributo a tutti gli artisti e professionisti della musica per cinema, quasi sempre tenuti fuori dalle luci della ribalta, che hanno invece indelebilmente contribuito all’intera storia della settima arte”. Quindi non troverete solo gli autori della soundtrack, ma anche, dove possibile, i musicisti o i cantanti che hanno dato vita alle partiture. Date a Cesare, quel che è di Cesare! 

Ho chiamato Marco e ci siamo ritagliati una divertente e curiosa chiacchierata che vi ripoto qui sotto…

Marco, 612 pagine, un bel tomo!
«Eh sì, se a casa hai un tavolo che ti fa difetto, lo puoi mettere sotto tranquillamente!»

Non esageriamo, dai! È molto interessante, e come giustamente annota Massimo Privitera nella postfazione, non è un libro scritto per accademici o per sfoggiare cultura ma per coinvolgere chiunque sia amante del cinema, della musica e della lettura…
«L’idea è quella quella di dare dei consigli per “ascoltare” meglio un film, perché magari uno si perde delle sfumature o non conosce quell’artista… Ma, soprattutto, puoi iniziare a leggerlo da dove ti pare e questa è una buona cosa».

Ricorro sempre al “santo” Privitera. Il consiglio è di leggere innanzitutto l’indice, lettura assai spassosa quanto illuminante!
«Ci tenevo a partire direttamente così, per far capire il tono». 

Perché una postfazione invece che una prefazione?
«Proprio per evitare di essere accademici. Con Massimo siamo amici da tanto tempo, penso lo si capisca anche. Nessun intento di sminuire, volevo fosse una postfazione perché le prefazioni introducono alla lettura, mentre per questo libro ho ritenuto più utile il contrario, cioè, una volta che tu l’hai letto, non dico tutto, magari una parte, ti dedichi alla postfazione per fissare meglio alcuni punti salienti».

A proposito di musiche e immagini, quale autore di colonne sonore vedresti per raccontare una finale di Grande Slam con Sinner protagonista?
«Non sono un amante di Sinner, lo ritengo bravissimo, fantastico però non è un personaggio che scalda il cuore. A dire il vero è tutta questa generazione di tennisti a essere così, sono macchine da guerra… quindi come autore delle musiche ci vedrei bene uno Hans Zimmer (Il Gladiatore, Dune, ndr)… che poi è anche assonante con Sinner!».

La musica per film esiste praticamente da quando è nato il cinema. Perché c’è stato fin da subito un legame così profondo tra le due arti?
«Ci sono molte risposte al riguardo. Quella che io preferisco è che la musica racconta il non detto, l’invisibile, ciò che non puoi spiegare a parole. Lo vedo nel mio lavoro, come compositore e music supervisor: a volte gli sceneggiatori adottano mille tecnicismi per dover spiegare un passaggio, la battuta di quel personaggio deve rendere comprensibile questa o quell’altra cosa. La musica in cinque secondi ti spiega il mood di una scena. Faccio un esempio: nel cinema muto il pianista stava lì sia per imitare i rumori attraverso gli strumenti musicali, quindi cascatoni, pugni, baci, e via discorrendo, sia per commentare, aiutando a capire il senso della scena. La musica completa il film. Altro fattore importante, l’ho scritto nel libro: prova a pensare a musiche di suspense, di thriller. A volte sono molto dissonanti, non le ascolteresti mai in macchina, eppure, temi come quello della scena della doccia in Psycho, scritto da Bernard Herrmann, così stridulo, sgraziato, lo conoscono tutti. Attraverso le immagini quindi puoi far passare musica difficile da ascoltare ed è bellissimo, perché offre la possibilità a molti di apprezzare altri generi musicali, lontani dai tuoi ascolti».

In effetti, negli anni Quaranta la musica dodecafonica è stata applicata al cartone animato!
«Esattamente, e per far ridere! Il brano era di era di Scott Bradley, lo fece per un episodio di Tom & Jerry. Nella scena un cane dava una bastonata in testa al gatto: per esprimere musicalmente il rintontimento dovuto alla botta il compositore ci mise una serie dodecafonica».

In Profondo Rosso di Dario Argento, oltre ai Goblin c’era anche Giorgio Gaslini!
«A un certo punto Gaslini si auto-mise alla porta perché Argento gli chiedeva di fare un lavoro prog-rock. Ai tempi, era il 1975, era un genere molto in voga. Lui che era un jazzista e compositore d’avanguardia rinunciò, lasciando il lavoro incompiuto. Arrivarono i Goblin e terminarono la colonna sonora. Quella pellicola è interessante perché dimostra come un film possa essere letto con due linguaggi musicali differenti. Se la musica è ben fatta, il risultato è sempre buono».

Ci sono tanti grandi artisti classici, rock, jazz che hanno scritto musiche per film: perché i musicisti corteggiano così tanto il cinema?
«Potrei risponderti come diceva nel Novecento Bernard Herrmann, per me, il più grande compositore di colonne sonore: “È impensabile poter fare il mestiere del musicista, del compositore senza pensare alla musica per film”. Affermazione che vale ancora oggi, anche perché il cinema dà da lavorare a tantissimi musicisti soprattutto se vuoi fare cose più particolari e non per forza canzoni. Oggi, un po’ tutti, dai grandi compositori colti ai cantautori, cedono al fascino delle colonne sonore per film, serie tv, e quant’altro».

Nel libro racconti storie interessanti, raggruppando i musicisti attraverso i film che hanno musicato. Ci sono registi che usano la musica come sistema immersivo e altri che la musica non la prevedono proprio. Penso a Oppenheimer di Christopher Nolan e a Blaga’s Lessons di Stephan Komandarev.
«Chi vuole descrivere la realtà cruda, per quello che è, tendono più a far sentire la componente rumori, ambiente senza metterci nulla di “fittizio” come la musica. È passato un po’ questo concetto: se vogliamo essere realisti, nella nostra realtà quotidiana non c’è la musica, e dunque non ci devono essere abbellimenti. Dall’altra parte, invece, accade esattamente il contrario, che bisogna talmente stupire con gli effetti speciali che la musica, sempre presente, diventa a tutti gli effetti immersiva. È una visione fumettistica, un po’ esagerata. Il dato interessante è che la musica viene definita come qualcosa che ti porta fuori dalla realtà, mentre se vuoi stare dentro la realtà non devi mettercela. Sono due tendenze».

Senza la colonna sonora di Piovani La Vita è Bella di Benigni avrebbe raggiunto il successo che ha avuto?
«Ma certo che no! Ne La Vita è Bella il percorso è inverso: c’è un dato reale così amaro così tragico che l’autore ha trasformato in un gioco per bambini, e quindi la musica è perfetta. Senza di lei, a volte malinconica altre un po’ buffa, quel senso di sogno – il lager visto dagli occhi di un bimbo che crede di trovarsi dentro a un gioco – sarebbe stato arduo renderlo così bene».

Stesso discorso per The Blues Brothers
«Quel film è un monumento alla musica e per questo resiste ancora oggi: è un atto d’amore nei confronti del blues, è pazzesco. Rientra nei film musicali, dove non si può parlare di colonna sonora perché ciò che ascoltiamo è esattamente quello che suonano gli artisti. The Blues Brothers è un capolavoro, insomma, cosa vuoi dire di più».

Lo scorso anno ho intervistato Franco Piersanti per la colonna sonora di Siccità, il film di Paolo Virzì. Lui è incredibile, ha reso tattile l’arsura…
«Secondo me, Franco Piersanti e Carlo Crivelli attualmente sono i due più grandi compositori italiani di colonne sonore. Crivelli ha lavorato per molto tempo con Bellocchio, è uno di quei musicisti che, se non fosse nato in Italia ma in un’altra parte del mondo, probabilmente avrebbe avuto una carriera completamente diversa. Franco Piersanti rappresenta gli altissimi livelli di composizione, è uno specialista nel riuscire a cogliere sfumature come quelle che hai detto tu, cioè farti sentire l’aridità in un film dove il tema è la mancanza d’acqua. Uno pensa ma come fa a crearlo con la musica? Lo crea, riesce a fare anche quello! Tra l’altro è una delle migliori colonne sonore degli ultimi anni realizzate in Italia».

Se dovessi compilare una tua personale classifica di film basati su compositori italiani cosa sceglieresti? Come sostiene Privitera tu sei un fantastico archeologo cine-musicale!
«Partiamo dall’attualità: negli ultimi tempi sono uscite due belle colonne sonore, una del film di Fernan Özpetek, Diamanti, scritta da Giuliano Taviani e Carmelo Travia, e l’altra, per Il Ragazzo dai pantaloni rosa di Margherita Ferri, composta da Francesco Cerasi: Sono veramente belle perché c’è sia la tradizione della scuola musicale italiana, sia l’innovazione… Quanto possiamo andare più indietro?».

Facciamo dagli anni Settanta!
«Oddio, come fai a non ricordare Ennio Morricone! Ti cito alcune sue opere che sono oltre la norma, C’era una volta in America, Mission e Nuovo Cinema Paradiso. E poi, ovviamente, come puoi non metterci la sua Trilogia del dollaro. Andando a ritroso, troviamo i vari Piccioni, Trovajoli, Carpi… Stiamo parlando di compositori che, nella loro carriera, hanno composto ciascuno qualcosa come duecento colonne sonore. Poi c’era Piero Umiliani, colui che ha sdoganato il jazz italiano nelle colonne sonore, anche lui fondamentale. Quindi… Nino Rota, Il Padrino, Amarcord che, tra i classici, la ritengo una delle più belle colonne sonore di quegli anni».

E i compositori stranieri?
«Adoro Bernard Herrmann, lo considero il Bach della musica per immagini, uno di quei compositori che hanno contribuito a fondare il linguaggio per la musica per immagini, persona fantastica, fumina. Poi ci sono John Williams, Charlie Chaplin, non solo era un grande attore e un grande regista, ma pure un grande musicista; lui stesso scriveva, le melodie dei suoi brani, prendi Limelight, Luci della ribalta. Non bisogna dimenticarsi di Hans Zimmer con tutto quello che ne deriva…». 

È molto bello il paragone che fai nel libro tra musica e olio extravergine d’oliva. La musica per un film deve essere come l’olio, un esaltatore di sapidità?
«(Ride, ndr) È un paragone culinario, molto italiano, di cui vado orgoglioso! La musica è quella cosa che nell’ambito cinematografico – e anche nelle serie televisive – c’è senza che ce ne rendiamo troppo conto. Comel’olio: diamo per scontata la sua presenza, però se tu non lo aggiungi nel cibo, dal più semplice al più raffinato, perché il sapore cambia. La musica è quella cosa che fa diventare poetico un film, che dà quella lettura in più ed emotivamente colpisce nel profondo».