para reconocer en la sed mi emblema
para significar el único sueño
para no sustentarme nunca de nuevo en el amor
he sido toda ofrenda
un puro errar
de loba en el bosque
en la noche de los cuerpos
para decir la palabra inocente(Los Trabajos y Las Noches, Alejandra Pizarnik)
Words of the Wind è il titolo del terzo album di Luciana Morelli, musicista, cantante e compositrice argentina residente a Basilea, uscito il 7 giugno scorso per Habitable Records, etichetta nata tre anni fa grazie all’intraprendenza e alla scommessa di otto giovani musicisti capitanati dall’argentino Javier Subatin. Tra questi “saggi” c’è anche c’è anche una preziosa conoscenza di Musicabile, Francesca Remigi.
Un album bello, ricco di chiaroscuri a pennellare un progetto che parte dalle poesie di quattro autrici di epoche diverse: l’inglese Emily Brontë, vissuta nell’Ottocento, l’argentina Alejandra Pizarnik, una delle voci controcorrente del Novecento latinoamericano, suicidatasi ad appena 36 anni, nel 1972, la newyorkese trentaseienne Robin Myers, appassionata di letteratura iberoamericana, e la settantaquattrenne canadese, poetessa e saggista Anne Carson. Su queste solide basi Norelli ha basato le sue composizione, andando ad armonizzare versi e armonie.
Per capire il suo modo di lavorare basta ascoltare Los Trabajos y las Noches, il contrabbasso tiene bordone mentre lei recita i versi della Pizarnik e poi partono i tamburi, il pianoforte e il clarinetto basso a fare da controcanto. Me la sto ascoltando e riascoltando e la trovo un “riassunto” interessante di quest’artista che ha scelto di vivere a Basilea in Svizzera, molto attiva già a Buenos Aire in performance musicali, teatrali, una fusion di arti che l’hanno portata a recitare, suonare, cercare personali modi espressivi emozionanti ed efficaci.
Al disco hanno collaborato oltre venti musicisti, una rappresentazione corale che l’ha spinta a confrontarsi non solo sul canto ma soprattutto sulla composizione jazz. Il suo essere iberoamericana domina la sua musica, gli arrangiamenti sono caldi, si avverte chiaramente che il disco è sfida che ha voluto affrontare con se stessa, soprattutto nella scrittura per gli Archi o i fiati. Il risultato è una somma di dettagli che si svelano poco alla volta, ascolto dopo ascolto. C’è l’affermazione della sua provenienza e allo stesso tempo la necessità urgente di innovare, i dialoghi romantici della sua terra e la spinta a osare, nella voce come nelle armoniche.
Il suo quintetto di Basilea è composto da Philipp Hillebrand al clarinetto basso, Mauricio Silva Orendain al pianoforte, Sebastián de Urquiza o Snejana Prodanova al contrabbasso e Paulo Almeida alla batteria. L’ho chiamata perché mi ha incuriosito molto il suo modo di procedere nel jazz. Come leggerete, pur essendo di origini italiane e avendo avuto nel suo albero genealogico un bisnonno musicista che a Buenos Aires aveva montato una piccola orchestra, non ha mai suonato in Italia. Un motivo in più per apprezzare la sua musica e magari per convincere chi di dovere a invitarla a suonare dal vivo in una buona rassegna jazz…
Una precisazione doverosa: tutte le musiche sono state composte da Luciana Morelli, tranne The night is darkening around me di Lisette Spinnler, che è stata una sua insegnante di canto, e Antelmo to his daughter basata su Rincon, composizione del sassofonista americano David Binney, altro suo maestro.
Perché hai scelto di vivere in Svizzera?
«Volevo venire in Europa, vivere in un’altra città, fare un’esperienza diversa, perfezionarmi dopo gli studi del conservatorio, sia per la voce che per la composizione, e poi perché ero un po’ stanca della scena di Buenos Aires. La mia meta era Barcellona, l’avevo scelta per la lingua ovviamente, e poi perché quella città mi attirava culturalmente. Il “Piano Barcelona” però non ha funzionato, vivere lì era molto costoso, non avevo trovato quello che davvero cercavo. Nel frattempo avevo incontrato il mio partner Philipp, svizzero, che mi ha consigliato alcune università nel suo Paese che erano completamente fuori dalla “mappa” che mi ero disegnata, ma alla fine è stato fantastico. Qui ho incontrato un ambiente universitario pieno di musicisti straordinari, persone di talento, insegnanti molto validi e poi ho fatto due master, poi sono andata a Basilea, mi sono innamorata e sposata!».
Ti piace abitare a Basilea?
«Sì, certo! È stato un cambiamento radicale per me, cultura, lingua, clima, modo di relazionarsi, ai miei occhi la gente aveva un atteggiamento più… freddo, distaccato ma dopo cinque anni, ma alla fine è solo un’altra cultura. È un buon posto per vivere, c’è molta natura intorno».
I tuoi hanno origini italiane?
«Sì, le famiglie dei miei nonni paterni erano italiane, provenivano da due piccolissimi paesi del sud della Calabria, mio nonno era di Paravati, mia nonna di San Giovanni, frazioni di Mileto in provincia di Vibo Valentia. Quando si sono sposati si sono trasferiti a San Giovanni. C’è ancora la loro casa e, ovviamente, lì ho molti parenti alla lontana, i cugini di mio padre, sono persone molto gentili e accoglienti. È stato molto commovente conoscerli».
La cultura italiana dei tuoi nonni ha influenzato la tua musica?
«Quello che so è che il mio bisnonno, anche lui immigrato in Argentina, era violinista e aveva una piccola orchestra ma nulla di più. Quindi, no, non mi ha influenzato».
ucianal
Perché ti sei appassionata al jazz?
«La prima volta che l’ho ascoltato sono rimasta stupita: a casa avevamo molti dischi, ovviamente tanta musica argentina, mio padre in particolare ascoltava anche jazz e molta musica legata al jazz. È un genere che ho amato dal primo minuto che l’ho sentito, perché porta in sé una raffinatezza nell’armonia, nel ritmo, e anche nelle voci, penso a Billie Holliday. Per me oggi il jazz è uno spazio molto fecondo, un modo per relazionarsi con la musica in generale, puoi prendere idee dal rock, dal pop, dalla musica del tuo paese… Il jazz è sempre lì a ricordarti di essere creativo per lavorare bene. Ti arricchisce anche personalmente: attraverso la musica impari a relazionarti con gli altri, l’interazione tra i musicisti è fondamentale per dare spazio all’improvvisazione, parlare “linguaggi” diversi e ritrovarsi».
Words of the Wind rispetto a Lo Abismal, El Agua, tuo precedente album, è meno “argentino” e più di ricerca…
«Vero! Lo Abismal, El Agua l’ho scritto nel periodo in cui volevo andare a vivere in Europa e non sapevo come fare e poi mi sono trasferita a Barcellona. Il disco è legato a quest’esperienza personale di migrazione. A maggior ragione, essendo stato registrato durante la pandemia, mi ha fatto riflettere molto sulla mia decisione di cambiare vita, sul ruolo della mia musica, su cosa volevo dalla musica… Il titolo deriva dall’ IChing, il Libro dei Mutamenti, da cui ho preso un esagramma (sei linee orizzontali che possono essere spezzate o intere, cioè Yin e Yang, ndr): le sei linee parlano di resilienza, di come cercare di essere più simili all’acqua per poter affrontare i momenti difficili della vita. Words of the Wind è più sperimentale perché nasce dal desiderio di esplorare tecniche diverse di composizione e ambientazioni – per me ovviamente, non ho inventato nulla! – come, per esempio, scrivere partiture per archi. Nel precedente album ero concentrata sulla voce e il suo rapporto con il jazz, gli elementi della cultura argentina sono stati inevitabili, con l’ultimo mi sono focalizzata sulla composizione e sul rapporto con le parole di queste poetesse. Mi affascinava l’idea di compenetrare con la mia musica i vari linguaggi poetici scelti. Ho deciso di resettare il mio modo di comporre, uscire dalla mia comfort zone e lasciarmi guidare da questi diversi mondi descritti con diverse parole».
Ci sono musicisti a cui ti ispiri nel tuo lavoro?
«Sono tanti, i classici cantanti jazz come Billie Holiday, ma anche molto anche Esperanza Spalding, adoro il suo lavoro, la chitarrista cilena Camila Meza, Gretchen Parlato, Norma Winstone. Per la composizione mi ispiro ai classici e ad artisti contemporanei come Caroline Shaw, cantante, violinista e compositrice americana che lavora molto con gli archi e le voci.
Quando fai concerti noti differenze tra i pubblici europei?
«Non ho fatto molti concerti, però sì, le ho notate tra il pubblico svizzero, tedesco e francese. In Svizzera, la prima volta che ho suonato, era al Kultur Café di Basilea, c’era un silenzio assoluto, sembrava un ascolto passivo, invece al contrario era molto attento, nessuno fiatava, non sentivi cellulari trillare, negli intervalli tra un brano e l’altro potevi ascoltare gli uccellini cantare fuori dal club. Questo a Buenos Aires non potrebbe mai succedere! Sono stata a suonare recentemente: lì invece del canto degli uccellini sentivi gli autobus che passavano, le loro frenate alle fermate. In Germania sono sempre attenti durante il concerto, però partecipano di più, applaudono durante i brani, sono più curiosi, alla fine del concerto vengono a parlare con te, vogliono sapere, chiedono informazioni sulla musica, sulle composizioni… insomma, l’atmosfera è più “calda”. A Parigi abbiamo suonato al Jazz à la Cité, festival organizzato per i giovani nelle univeristà. Ricordo era un ambiente grande, affollato, le persone si sedevano ovunque, è stato un live molto partecipato, c’erano uomini e donne di ogni età. Sarà perché francese e spagnolo hanno lala stessa radice latina ma i testi che cantavo nella mia lingua madre venivano capiti, si era creata un’intesa, sentivo affetto, partecipazione. Per conludere: sono pubblici belli e interessanti tutti e tre, perché comunque le persone che vengono ad ascoltarti sono mediamente preparate e ben disposte ad ascoltare musica poco conosciuta».
Cosa ti aspetti da Words of the Wind?
«Beh, innanzitutto che la mia musica raggiunga il pubblico che deve raggiungere: evidentemente non tutta la musica è per tutti e comunque non faccio un genere mainstream. Per me è un album speciale che evolverà dal vivo con presentazioni sempre diverse, di base vado con il mio quintetto, ma quando si potrà aggiungerò archi e più fiati. La mia speranza è che le persone che vengono ad ascoltarmi aprano la loro immaginazione».
Ti piace la musica elettronica applicata al jazz?
«L’arte contemporanea in generale sta esplorando la tecnologia e tutte le sue forme, c’è molto da sperimentare anche con l’intelligenza artificiale. Penso che se è fatta per rendere più attraente un disco o perché fa tendenza, non ha grande senso. Quello che conta per me è la musica, lei viene prima di tutto: quindi se per te artista l’elettronica è necessaria perché arricchisce quello che vuoi dire in un brano, allora ben venga!».