Il 19 luglio prossimo uscirà sugli scaffali digitali e fisici Watch What Happens, secondo lavoro del Wes Or No Trio, giovane formazione jazz composta Simone Basile alla chitarra, Manrico Seghi all’Hammond e Giovanni Paolo Liguori alla batteria.
Wes, chitarra, Hammond… gli indizi non possono che portare in un’unica direzione. Wes è il grande Wes Montgomery, colui che rivoluzionò la chitarra jazz negli anni Cinquanta e Sessanta, e gli strumenti usati dal trio di cui sopra, si rifanno al modo di concepire la band del musicista di Indianapolis: si può fare buon jazz anche abbandonando il contrabbasso, elemento dirimente in un trio, sostituendolo con un organista (nonostante le critiche feroci ricevute dai puristi del jazz di allora che tacciarono l’artista d’essere troppo commerciale).
Wes suonò con Jimmy Smith, soprannominato The Incredible, “hammondista” di grande spessore, entrambi artisti messi sotto contratto dalla casa discografica Verve. Con Wes Jimmy pubblicò due album The Dynamic Duo with Wes Montgomery e Further Adventures Of Jimmy and Wes, entrambi nel 1966, frutto di un’unica sessione, che segnarono per sempre il cammino del jazz di quegli anni fino a oggi.
Wes suonava la sua Gibson L-5 CES usando il pollice al posto del plettro, ottenendo quel suono morbido e vellutato suo marchio di fabbrica, che si scontrava straordinariamente bene con le modalità blues di Jimmy. E questo è un altro dei motivi che ha spinto gli Wes Or No Trio a procedere su questi binari, divertirsi riproponendo la musica di Montgomery e dei musicisti che lui amava, riarrangiando con uno stile proprio quagli stessi brani. Un lavoro che lascia dunque spazio allo studio filologico del mondo bop di Wes e alla giusta voglia di giovani musicisti particolarmente dotati di rivedere quel mondo con occhi diversi. Il titolo Watch What Happens, guarda cosa succede, bene racchiude gli intenti di Simone, Manrico e Giovanni. Per chi volesse, su Bandcamp è attivo il preordine del disco.
Domani, 10 luglio, gli Wes Or No trio si esibiranno al Pisa jazz. Mi racconta Simone Basile: «L’11 luglio partiamo per un minitour in Cina, dove saremo ospiti del Montreaux Jazz Festival al Culture and Arts Centre di Suzhou, poi il 14 al JZ Club Huanglou di Hangzhou, il 19 al Blue Note di Pechino e il 20 a quello di Shangai».
Simone, da chitarrista, immagino sia tu il Wes-addicted?
«È una mia mattata iniziata al conservatorio: al biennio ho fatto una tesi sullo sviluppo melodico nei soli della chitarra di Montgomery. Da qui, il mio viaggio di approfondimento nella vita artistica del musicista, con le trascrizioni dei suoi brani, l’acquisto di tutti i suoi vinili, l’ascolto continuo… Due anni fa ho proposto a Manrico e a Giovanni di pubblicare un tributo a Wes, visto che anche loro sono molto appassionati dell’organ trio, così è nato il disco Wes Or No. È piaciuto a tutti e tre, così abbiamo deciso di continuare su questa strada chiamandoci con il titolo dell’album».
Il modo di suonare ovattato e vellutato di Montgomery ha ispirato molti grandi chitarristi, da George Benson a Pat Metheny. Perché secondo te?
«Di Wes ho ammirato il fatto di essere sempre stato un vero innovatore. Dal primo all’ultimo disco che ha fatto, inclusi quelli realizzati con gli archi e l’orchestra. Di lui ho introiettato questa curiosità, iniziando a inserire qualche pedalino nuovo nella catena degli effetti, cercando comunque di non imitarlo a 360 gradi. Nel disco non faccio assoli con i bicordi da lui ha usati tantissimo, anche perché non sarebbe venuta la stessa cosa! Una delle sue tecniche che più mi ha svoltato è stato l’uso del pollice, specialmente sull’accompagnamento. Mi ha aiutato molto anche a trovare un mio suono».
Suonate senza contrabbasso, perché?
«In realtà il basso lo fa Manrico con i pedali dell’Hammond. Per suonare l’organo devi essere un polipo sia per le articolazioni, usi contemporaneamente mani e piedi, sia per il cervello, che devi splittare. Per alcuni progetti come il nostro l’uso del contrabbasso non è necessario. Credo che se il prodotto finale ha un senso, suonare senza contrabbasso va bene, ma se deve essere una cosa che per forza si vuole fare strana, no».
Cosa mi dici del vostro nuovo lavoro che uscirà tra pochi giorni?
«Watch What Happens viene pubblicato dalla DaVinci Jazz, etichetta giapponese. Nasce dalla voglia di continuare il progetto su Wes, visto che con il primo disco abbiamo avuto tante buone recensioni, un bel po’ di concerti, partecipazioni a festival e soddisfazioni personali. Abbiamo cominciato a suonare insieme, a vederci tutte le settimane per dedicarci a session dove ciascuno di noi portava un brano nuovo con un arrangiamento particolare, sempre mantenendo il filone Montgomery. Pur avendo brani suoi o di altri jazzisti a cui era affezionato, il nostro nuovo lavoro è diverso dal precedente. Questa volta abbiamo osato aggiungere di più i nostri contenuti. Infatti il titolo, Watch what Happens si riferisce a questo: facciamo questa cosa e vediamo cosa succede mettendoci del nostro. Personalmente mi piace come lavoro, si sente che siamo cresciuti, siamo diventati più coesi».
Avete dunque osato sulle tracce di Wes!
«Sì, alcuni brani li abbiamo proprio stravolti, cambiando i Bpm, pezzi lenti li abbiamo fatti veloci…».
Andrete in tournée in Cina: il jazz lì piace così tanto?
«Ultimamente i cinesi stanno avendo una fase di rinascita musicale, si stanno avvicinando moltissimo al jazz, sono forse più proiettati in avanti di noi sull’ascolto. Avendo poi un’etichetta giapponese che distribuisce in Europa e in Asia, lì l’anteprima del disco sta già avendo un buon riscontro».
Da giovane jazzista come vedi il jazz in Italia?
«Siamo in un periodo in cui si fa tanta sperimentazione, specialmente tra i più giovani, anche perché non c’è molto spazio per loro nei festival jazz puri, si tende a dare precedenza ad artisti più noti che garantiscono concerti pieni di gente, visti i costi che gli organizzatori devono sostenere. Piaccia o non piaccia, oggi i festival guardano più all’aspetto economico che artistico. È un momento di stallo, non è facile suonare in Europa e tantomeno in Italia perché il numero di musicisti cresce sempre di più. Sono tanti i ragazzi che si iscrivono al conservatorio, ed è una buona cosa. L’unica pecca è che, essendo così tanti, si va un po’ a svendere la musica stessa ricorrendo in maniera troppo eccessiva ai canali on line».
E per la musica in generale che mi dici?
«È sempre più difficile attirare il pubblico, avere un certo numero di persone che ti seguono. Stiamo assistendo al reale effetto dei social e di quello che gira intorno: la soglia d’attenzione si riduce sempre di più, così come la poca voglia di andare ai concerti e non riuscire a stare seduti un’ora che, se ci pensi, è pochissimo. A maggior ragione, se si propongono concerti più complessi: appena le cose si fanno difficili ci si allontana, si passa ad altro. Credo sia per questo che in giro si vedono molti Ep…».
Fate molta improvvisazione quando suonate dal vivo?
«A parte le strutture base del pezzo sì, ci lasciamo molto andare, specie sui brani un po’ più aperti. Soprattutto nell’ultimo disco abbiamo voluto costruire un’identità nostra, cercando di ascoltarci il più possibile, andando a creare un interplay, spesso molto ritmico. Ci piace quest’approccio sull’improvvisazione».