
RBSN, Alessandro Rebesani/ Foto Federico Zanghì
Here, “qui”. È il titolo del nuovo lavoro di RBSN, moniker di Alessandro Rebesani, giovane artista anglo italiano cresciuto a Roma. La cover del disco porta scritto solo queste due parole. Il resto è affidato a una fotografia molto significativa (oltre a essere un gran bello scatto!): Alessandro in piedi dentro una vecchia fabbrica che cade a pezzi. Una cover che mi riporta ad altre più datate, per esempio la mitica di Who’s Next album degli Who datato 1971, dove la band posa smarrita intorno un pilastro di cemento su un terreno legato all’industria carboniera nel South Yorkshire, in Inghilterra. Allora le slag heap riguardavano un atto di demitizzazione della propria band.
La fabbrica abbandonata, invece, per Alessandro rappresenta la musica attuale quella tutta uguale, senz’anima, fatta per altre esigenze, leggi social, dominata dalla velocità senza pensiero critico. Lui però, nonostante tutto ciò, è lì in piedi e guarda l’obiettivo con aria di sfida, come dire: “ci metto la faccia, eccomi, sono pronto a dire la mia”, a proporre la sua musica, nata da una lunga introspezione.
Here, infatti, è un lavoro intenso, musicalmente ricco nelle armonie e nell’uso degli strumenti, con testi raffinati, ma anche minimal nei registri sonori, con molte (giuste) pretese. Una su tutte il riuscire a raccontarsi senza piangersi addosso, atto di ribellione verso se stesso. In Here, brano che dà il titolo al disco, RBSN canta: No wonder why you drowned and washed upon my shore/ The mirror didn’t help me finding the right door/ The apparitions tell me it’s me/ I’m looking for/ What are we doing here?/ What are we doing here?
Con Alessandro ho fatto una lunga chiacchierata che trovate qui sotto. Il ritratto che ne esce è di un artista che crede nella propria musica, ma anche nella condivisione di un nuovo modo di far musica (che poi è il ritorno al vecchio, caro, artigianato musicale degli anni Settanta e Ottanta): tutto analogico, più caldo, dagli strumenti allo studio di registrazione. Tornare indietro per andare avanti senza l’ubriacatura di social, digital, intelligenza artificiale. Insomma, un punto fermo da cui ripartire.
Vado subito al sodo: cosa vuol dire fare musica di qualità oggi in un mondo così “semplificato”?
«È una domanda molto bella per cominciare una riflessione sul linguaggio musicale in sé. La prima cosa che mi viene da pensare è che il primo ascoltatore di un brano è sempre il musicista, fatto che si lega molto alla narrativa del jazz. Sono molto radicato a questo pensiero, nel senso che vedo molto dietro alla musica, il contesto sociale e culturale in cui si è formata. Detto questo, in un momento in cui culturalmente c’è tutta questa frenesia e anche alienazione rispetto alla musica come forma d’arte in sé, visto che ci sono regole dettate da altre cose, per esempio dai contenuti per i social media, cerco sempre di mettere al centro della narrazione un incontro che si basa proprio sul lavoro, sulla ricerca, su un background anche culturale importante. Ti faccio un ultimo esempio e chiudo questa riflessione: ultimamente Cinevox, un’etichetta storica del nostro Paese che sta dietro a moltissimi lavori discografici per il grande cinema, ha chiesto a me e ad altri musicisti di lavorare su dei campionamenti di compositori degli anni Settanta, quali Ortolani, Umiliani e così via. E lì devo dire che mi son trovato molto bene perché andavo a lavorare proprio con il Dna culturale del luogo in cui sono nato e in cui vivo. A differenza del fare la mia musica dove c’è tutta l’esperienza che mi riguarda, lì ho lavorato sulle spalle di un background che ha quasi cento anni di storia. Ho sentito questa nuova sensazione che non era più una narrazione individuale o di un piccolo gruppo di persone, ma qualcosa di più grande, che voglio fare anche nel futuro».

Proseguendo su questo discorso: sei uno dei fondatori di Odd Clique il collettivo che ha prodotto anche Here. Averlo creato è stato un atto di sana ribellione?
«Sicuramente la mancanza di un sentiero già solcato ti fa capire che quella è la strada giusta. Nel modo in cui ho sempre vissuto la musica ho visto che, soprattutto in Italia, tendiamo a ghettizzarci. Quindi ci sono prodotti discografici super bellini per una nicchia di persone ma fuori sono irrilevanti. Quello che vorrei riuscire a fare con la mia musica e, spero, anche quella delle persone con cui lavoro, è di creare un canale di comunicazione tra l’Italia e il Mondo, come d’altronde si faceva nel passato. Odd è un po’ quel tentativo lì, sia a livello strutturale – in un paio d’anni tra eventi su Roma, il girare il più possibile bandi con la SIAE siamo riuscire a tramare un tessuto fatto di gente che viene a sentire della musica che magari non conosce con ospiti più internazionali, che vengono supportati da un nome locale – sia per quanto riguarda l’editoria e il discografico – ci siamo lanciati nell’avventura di fare un disco da zero, rodata già dall’esperienza di qualche altra coproduzione. È il tentativo di fare un po’ di rumore intorno a un nuovo modo di approcciare il music business, cosa che a me non piace per niente, però uno deve sapersi destreggiare pure dove non piace troppo masticare».
In quanti siete nel collettivo?
«Il direttivo, quindi chi prende le decisioni, è composto da Federico Zanghì, Vasco Alessandrelli, Giulio Pecci e il sottoscritto. Io poi ho ovviamente più voce in capitolo sulla mia musica e l’impostazione artistica di tutto ciò che faccio. Anche visivamente si parte da me e poi chiedo il supporto di chi mastica di più quel linguaggio, per scrivere un copy, per fare un videoclip, e via dicendo. E poi si allarga a tutta la scena di musicisti che mi ha supportato negli ultimi anni, Emanuele Triglia, Federico Romeo, Pasquale Strizzi, Luca Gaudenzi, Andrea Guarinoni. Stiamo vedendo, soprattutto negli ultimi tempi, dopo la pubblicazione di Here, molti nuovi soggetti che ci mandano i loro più recenti lavori… speriamo di allargare la Community di Odd nei mesi a venire».
In base a quello che mi stai raccontando c’è speranza di ascoltare una musica diversa, più consapevole e non solo indirizzata al mainstream?
«Lo spero vivamente. Negli ultimi tempi, da dopo il passaggio di D’Angelo (artista statunitense morto l’ottobre scorso per un tumore al pancreas, ndr) che ci ha colpito ed educato negli ultimi 15 anni, quel modo di lavorare, di fare una grande ricerca di suono, di forma e contenuto è tornato in auge, quindi anche per la produzione di Here ci siamo affidati a tecniche di registrazione un po’ datate ma perfette per ottenere quello che volevamo noi, e cioè una fotografia dello stato di quei brani in quel momento. Il disco è stato registrato su un nastro, su di un banco, insomma l’iconografia propria dello studio di registrazione. Quindi un grande mixer, un grande vetro, grandi musicisti, grandi brani».
E poca post produzione!
«Sì questo modo di creare ti obbliga a fare delle scelte in studio, in quel momento. Credo che quell’approfondimento, quel tipo di maturità, di salto di qualità che si sente dentro a questo disco derivi molto da tutto ciò. Più semplicità, più immediatezza e anche più effetto».
Nella tua musica si sentono i tuoi ascolti, soprattutto la musica afroamericana…
«L’imprinting musicale più forte della mia vita l’ho avuto in un contesti del genere, con la musica Motown, dell’America nera. Nonostante sia bianco come la neve, è un filone che non mi ha mai mollato, quel modo di catturare un suono e l’emozione sono l’Abc di un musicista che poi si tramuta molto nel live. Sempre per citare grandi musicisti del passato, Sly era uno che diceva che è molto importante catturare lo spirito del momento, anche nella registrazione. Tutta quella narrativa mi ha sempre molto interessato da un punto di vista armonico e melodico, ma anche narrativo e poetico».
Riprendendo il discorso della musica propinata e di quella di nicchia cercata, annusando l’aria mi sa che siamo al momento giusto per osare di più, non trovi?
«Siamo quasi all’inizio di un nuovo cerchio. Negli anni Novanta la sperimentazione ha raggiunto il suo picco, poi negli ultimi venti sono state fatte delle cose, magari sì, all’avanguardia, però sempre riprendendo scoperte già fatte, quindi siamo nel totale postmodernismo. Dico che siamo alla fine di un giro completo perché ora stiamo ritornando a come si facevano le cose nel passato, quindi nastro, saturazione, strumenti vintage… negli ultimi anni mi sono comprato degli scatoloni incredibili, mixer e strumentazione varia perché si trovano strumenti vintage che hanno molto più carattere. L’iperfacilità e l’iperdistribuzione della musica è stata molto bella. Ora però è sicuramente un mercato discografico saturo che non produce più novità, sarebbe figo che gli artigiani facessero di nuovo gli artigiani. Ci servono, come dice Zappa, di nuovo i vecchi con il sigaro all’interno delle case discografiche che scommettono del denaro su delle cose che non capiscono».

In questo tuo disco, l’hai detto tu stesso, c’è tanta autoindagine che è, da quello che ho capito, il tuo modo di fare musica, la ragione per cui fai anche musica…
«Super corretto! Quando ero più giovane ero affascinato magari da qualche tema e quindi l’urgenza nasceva anche dal dare una mia lettura su argomenti specifici. Invece, crescendo avevo già sufficienti traumi da metabolizzare, quindi più che sul “proiettare” ho cominciato a “introiettare”. Sicuramente ora il fondamentale della mia musica è l’indagare più verso l’interno che non verso l’esterno. Sto riscontrando che tutti i grandi maestri della storia della musica e della letteratura, prendi Borges cent’anni fa e Jack White oggi (tra l’altro è entrato nella Rock and Roll Hall Fame nel novembre scorso), dicono la stessa cosa: quello che fa un artista è scrivere qualcosa su di un biglietto regalarlo a un estraneo, far sorridere quell’estraneo e scoprire che poi l’estraneo era Dio».
Cambiando argomento: ho letto da qualche parte che hai un amore per la Fender Mustang…
«Ne ho una che ho trovato a San Francisco alcuni anni fa e che mi accompagna, ed è uno strumento meraviglioso. Come ti raccontavo prima è l’amore che ho per gli strumenti vintage… Gli Stati Uniti sono davvero il luogo migliore per esplorare questo tema, però riesco a spendere tanti soldi anche qui! Per Here ho usato una Martin baritona molto rara, con lei ho registrato la maggior parte del disco. Solo che non è mia, l’ho dovuta restituire, quindi ho trovato una Gibson che ora porterò nei live, così almeno ho quel suono acustico coperto. Invece per l’elettrico non porterò la mia fantastica Fender Mustang, bensì una Harmony Rocket degli anni Sessanta che ho fatto rimettere a nuovo, perché ero un po’ in pensiero per questi strumenti molto rari e quindi ho detto, vado con uno strumento sempre vintage, ma con una allure diversa».
Porterai in giro il disco?
«Abbiamo fatto un concerto-prova a Roma il 7 dicembre. In realtà cominciamo da Bologna, il 29 gennaio, quindi il 30 saremo a Milano e il 31 a Firenze».
Perché hai deciso di cantare in inglese?
«Non è una scelta ma una necessità: essendo bilingue è stata la prima lingua che ho imparato, è la lingua dei miei sogni, quindi mi sembra quella giusta per quello che voglio comunicare. E anche per come sono cresciuto, conosco Bob Angelini (brillante musicista, ndr) da quando avevo 17 anni, presentandomi ed introducendomi a tutto il giro musicale del nostro Paese, vedo che ci sono comunque limitazioni forti imposte dalla lingua, soprattutto a livello di genere. Poi sono grandissimo fan di chi riesce a destreggiarsi con l’italiano, che siano i Verdena o Lauryyn (Aurora De Gregorio, ndr) che è un’amica, molto brava. Io non lo so fare, quindi vado con l’inglese con il quale mi trovo molto bene anche per il tipo di pubblico che vorrei attrarre».