Agenda Brasil 2025 celebra Léa Freire: ritratto di una musicista che sfida gli stereotipi

Léa Freire – Foto di Caroline Bittencourt

Stasera al cinema Anteo di Milano inizia la dodicesima edizione di Agenda Brasil, Festival Internazionale di Cinema Brasiliano. Vi starete chiedendo perché mai sto scrivendo di cinema in un luogo di musica. Perché il tema di quest’anno è Brasile: presente!, Il Paese latino americano è tornato dopo anni incerti non solo con il buon cinema ma anche con la miglior musica, con due docufilm dedicati a due grandi della musica brasileira, Léa Freire e Luiz Melodia, e un delizioso spaccato sulla nascita di Radio Fluminense, A Maldita (La maledetta) a Rio de Janeiro, emittente che nei primi anni Ottanta ha contribuito non poco a fare emergere il fenomeno del Rock brasiliano. 

La ragione per cui vi sto scrivendo tutto questo ha un nome e un cognome, Léa Freire, paulistana, musicista, compositrice, direttrice d’orchestra, fondatrice dell’etichetta discografica Maritaca. Léa è un’anima libera, combatte con determinazione da sempre gli stereotipi, la sua musica affonda nelle radici del suo Paese e nella sua inesauribile creatività. «Suono perché senza la musica mi ammalerei», mi dice. «Non sto scherzando, ho persino la prescrizione medica incorniciata al muro, che mi dice che devo suonare per restare in salute, dunque la musica è la mia medicina!». 

Léa è la protagonista di un bellissimo docufilm (pluripremiato) firmato da Lucas Weglinski, regista, attore e produttore di São Paulo, dal titolo A Música Natureza de Léa Freire, del 2022, che sarà proiettato all’Anteo il 5 novembre alle 21:30 e che vi invito caldamente a vedere.

Pianista, flautista, esploratrice musicale curiosa e mai stanca Léa è “la” musicista senza se e senza ma: «Armonia e melodia sono alla base del mio lavoro», mi spiega. Freire è il frutto di quella “mescolanza etnica” che ha formato il popolo brasiliano. Ne è l’essenza e la sintesi. L’ho raggiunta in videocall nella sua casa a São Paulo, dietro di lei, due pianoforti a coda. Le tante domande che volevo farle sono svanite davanti a una dichiarazione lapidaria: «Faccio la mia musica, la cambio, improvviso, ma non secondo canoni definiti, cambio direzione mi lascio trasportare senza vincoli». Libertà appunto. E mi viene in mente un’altra grande della musica brasiliana, la mitica Chiquinha Gonzaga che, tra il marito che disapprovava la sua arte e la musica, scelse l’armonia.

Léa nel suo studio di casa – Foto di Caroline Bittencourt

Léa sei nata con un dono enorme, quello di pensare in musica… Oggi la musica commerciale si riduce a ritmi prefabbricati in serie dove chiunque, grazie all’autotune, ci può cantare sopra…
«Ci sono persone che hanno più talento per un certo tipo di musica che non per un altro. Gli stonati non riescono a cantare melodie, nascono così, non è un difetto, ma una condizione biologica, probabilmente. Lo stesso succede a coloro che hanno difficoltà con il ritmo, d’altronde ci sono persone che hanno difficoltà per esempio con la dislessia o la discalcolia. Per molto tempo la musica ha privilegiato le persone che avevano le qualità della melodia, del ritmo, i cardini che formano una musica più completa, secondo me. Gli “stonati” sono stati relegati ad altri pubblici, non riuscivano a cantare Tom Jobim, a volte non riescono nemmeno a cantare “Tanti auguri a te”, ma, ripeto, non è un difetto».

Però gli “stonati” sono diventati mainstream!
«Penso che sia bello se riescono a divertirsi, se questo fa sentire loro bene è fantastico. Ma allo stesso tempo si è creata una cultura in cui si dice che la musica con armonia, con melodia è elitaria, antipopolare, non politicamente corretta… È una sciocchezza, un argomento fuori luogo, una falsa polemica. Alla fine, quello che faccio… Io faccio per me stessa, no? L’ho sempre detto. Se non suono, mi ammalo. Quindi sono costretta a farlo. Mi sono già ammalata, per questo motivo, ho dovuto prendere medicine quando, a un certo punto della mia vita, ho smesso di suonare. Il mio dottore me l’ha ordinato: “Devi suonare, devi ballare, devi stare in un luogo aperto”, mi ha detto. Io sto solo obbedendo alle prescrizioni mediche». 

Sono cambiati i tempi rispetto a quando eri giovane e passavi la notte sulla rua Augusta, a São Paulo, a suonare in jam session, a imparare, a collaborare. Ora non esiste più tutto questo?
«Non è un problema di creatività, ma di sicurezza. Se esco, alle ore in cui uscivo per suonare per strada, non torno più a casa!».

Già, São Paulo è una città piuttosto pericolosa…
«Mi correggo, potrei anche uscire di nuovo, se avessi la sicurezza per farlo. Perché se vengo assaltata, che mi vada bene mi rubano un flauto da due, tremila dollari, ma rischio di essere anche picchiata. Soprattutto a questa età, in cui siamo più vulnerabili, più esposti a questi episodi».

La tua musica è un flusso di emozioni, tecnicamente è molto difficile, ci sono passaggi davvero complessi. È il tuo modo di scrivere?
«Quella sono io, faccio tutto quello che mi viene in mente. Sono difficile, ho questa fama! La mia musica è bella da ascoltare e difficile da leggere, perché il ritmo non segue sempre la stessa forma. Cambia, spesso tolgo alcuni pezzi dal tempo, non so nemmeno io cosa sto facendo quando suono. Lo scopro solo quando trascrivo. E poi, mi piace molto sbagliare. Penso che l’errore sia il nuovo, un messaggio della creatività che ti fa fare quella cosa inconsapevolmente, trasformando ciò che stai componendo. Continuo a suonare, accetto quello che viene».

Sei una pianista e una flautista. Quando componi lo fai al pianoforte?
«Adesso sì. Ho composto molto anche alla chitarra. L’ho pure insegnata… chitarristi, non ascoltatemi!».

C’è molta improvvisazione nella tua musica?
«Sì, sempre. Non riesco a suonare due volte allo stesso modo, mi viene sempre un’idea nuova a cui non posso resistere. Lo stesso succede quando stiamo suonando sul palco. Ma non sono la sola. Per esempio, quando suono con Arismar do Espírito Santo, lui improvvisamente cambia l’armonia. Stai suonando un tema, uno standard e, a un tratto, l’armonia non è più la stessa. Filó Machado oltre a cambiare l’armonia, cambia addirittura la musica. Nel bel mezzo della canzone ti guarda, ti fa un sorrisetto e se ne va per la sua strada, capisci? Adoro questo modo di suonare, perché giochiamo, d’altronde play, in inglese ha un doppio significato, suonare e giocare».

Però la tua non è un’improvvisazione jazzistica!
«Il mio modo di improvvisare non è quello tradizionale, in cui si usano scale, arpeggi, progressioni armoniche, insomma, un determinato cliché… Non l’ho mai fatto e non lo farò mai. Quello che mi piace è suonare la melodia che ho in testa, ciò che mi viene in quel momento. Quindi, a volte va molto bene, altre non altrettanto bene. È il rischio intrinseco nell’improvvisazione. A dirla tutta, noi improvvisiamo nella nostra vita, lo stiamo facendo anche ora: tu sapevi di dover intervistare Léa ma non immaginavi che direzione avrebbe preso l’intervista. È un compromesso».

E la musica è così.
«Esatto. Quindi, se il bassista ha sbagliato l’armonia, è passato a un’altra canzone, succede, devi stare al gioco, non discutere su chi ha o meno ragione. In quel momento devi divertirti invece di arrabbiarti».

Immagino che tu sia sempre stata così!
«Sempre. Ricordo che, quando avevo sei, sette anni, mia madre mi trovò un’insegnante di pianoforte. Mi sembrava una signora molto simpatica, anche perché andava in bicicletta, faceva i massaggi, dava lezioni di pianoforte, insomma, se la cavava! Era una tedesca super attiva, solo che aveva metodi d’insegnamento antiquati. Ho fatto un errore e lei mi ha preso la mano e me l’ha schiaffeggiata. Io ho immediatamente reagito dandole uno schiaffo in faccia. Lei mi ha picchiato e io ho picchiato lei. È finita così e mi sono giocata la maestra!». 

Quando hai scoperto il tuo linguaggio musicale?
«Più o meno a 38 anni. Mi piaceva molto suonare, poi ho smesso, sono rimasta undici anni senza farlo e mi sono ammalata. E allora ho realizzato che l’unico modo per guarire era reiniziare a fare musica. Quando sono ritornata, l’ho fatto anche da produttore, lavoravo come direttrice finanziaria, sono laureata in economia, così ho pensato, mettiamo insieme queste competenze e montiamo una casa discografica. È nata Maritaca, che oggi ha più di 60 titoli nel suo catalogo. Non è la classica editrice, è più una forma di sponsorizzazione, faccio da mecenate agli artisti e produco le mie cose. In pratica non è un’attività commerciale che si preoccupa di vendere. Pubblico un paio di dischi all’anno al massimo. Di tutti e 60 titoli, solo due sono stati sponsorizzati dal governo».

Foto Caroline Bittencourt

L’hai creata per essere libera dal mercato?
«È una spesa, ma questa etichetta ha registrazioni che nella quasi totalità considero importantissime. Ci sono delle rarità, per esempio, l’unico Cd di Mozar Terra, artista che ha vissuto a lungo in Europa, pianista e compositore meraviglioso, oppure Vinícius Dorim, un sassofonista straordinario, tutti, me compresa, scherziamo chiedendogli di suonare prima di lui, perché dopo di lui… si sparisce! C’è anche un’antologia di Benedito Lacerda, flautista e sassofonista brasiliano molto importante. In realtà, tutto quello che faccio, lo faccio per me stessa, mi fa sentire bene. Tutto qui».

Capitolo flauto. Perché ti sei innamorata di questo strumento?
«A scuola ci obbligavano a suonare il flauto dolce, durante le lezioni mi veniva in mente una canzone che avevo ascoltato alla radio e continuavo a canticchiarla nella mente finché non trovavo la nota giusta. Nella ricreazione prendevo il flauto e cercavo di suonarla. Così ho educato il mio orecchio relativo in modo piuttosto efficace. Quando ho compiuto 15 anni, mio padre mi ha regalato un flauto traverso a patto di scambiarlo con “il fischietto”, come lo chiamava, troppo fastidioso. Dopo un paio d’anni, ho conosciuto Filó Machado, mi sono trovata per caso a suonare con lui in un festival di musica; da allora sono passati più di 50 anni, io e Filó continuiamo a suonare ancora insieme, ho avuto molta fortuna perché Filó, Arismar, Guilherme Vergueiro sono stati i miei insegnanti di musica popolare». 

Un’ultima domanda: tu combatti da sempre il machismo nella musica. Ce n’è ancora tanto soprattutto nel jazz…
«Nel documentario lo racconto: più di qualcuno, lo ha fatto anche un mio amico proprio l’altro ieri, un musicista eccellente, dopo aver ascoltato un mio concerto mi chiede incredulo: “Ma l’hai scritta proprio tu questa musica?”. Io rispondo: “No, è stata tua madre”». 

Sei conosciuta come il Villa Lobos in gonnella o il Tom Jobim al femminile…
«Alla gente che mi dice: “Ah, ma tu sei una specie di Gismonti, vero? Io rispondo: “No, sono una specie di Léa”. Ma non serve a niente. Ormai non mi arrabbio né mi preoccupo più. Faccio tutto quello che voglio, continuo a inventare cose nuove perché tutto quello che volevo fare l’ho fatto. Per me questo è il sinonimo più assoluto possibile di successo. E anche se non ho questo riconoscimento che, a volte, persino Lucas pensa che dovrei avere, per me va bene così. Non devo rendere conto a nessuno, sono una privilegiata, mi trovo esattamente dove volevo essere e non posso lamentarmi di nulla».