Fontamar Consort, come rinnamorarsi della musica

Jean Fontamar e Laurianne Langevin

Non so voi, ma quando scopro un disco che si infila nelle pieghe dell’anima diventando una personale colonna sonora con cui vesto la mia giornata, mi sento felice, pieno di speranza sul futuro della musica in epoca di streaming selvaggi e Intelligenza Artificiale. Ecco, dunque, Ramour, nove brani per 31 minuti di ascolto, album firmato dai Fontamar Consort e pubblicato dalla Tǔk Music, etichetta dedita alla ricerca di artisti che sappiano esprimere un’idea di musica non fine a se stessa, ma coinvolgente, creativa stimolante.

Dietro ai Fontamar Consort ci sono due francesi, Cyrille Doublet – in arte Jean Fontamar – poeta, compositore, pianista, specializzato in musica Barocca, e Laurianne Langevin, artista poliedrica (è anche ballerina e attrice), musicista, diplomata in canto. Sono una coppia di vita e di note che si sono conosciuti 17 anni fa in Val Camonica e lì sono rimasti. Entrambi attratti dall’Italia, come potrete leggere nella lunga chiacchierata che ho fatto con Jean alcuni giorni fa. Il Consort, dal latino colui che condivide la sorte, parola usata in epoca barocca per definire un ensemble musicale, prevede, oltre a Jean e Laurianne, anche i salentini Marco Bardoscia al contrabbasso (di cui vi ho parlato in questo post), Valerio Daniele alla chitarra elettrica e baritono, Roberto Gagliardi al sassofono e Vito De Lorenzi alle percussioni, con l’intervento di Paolo Fresu alla tromba e flicorno, presente in due brani, Paupières e La Mer.

Qui la sorte condivisa ha partorito un disco pieno di grazia, una sorta di orto botanico in cui ai grandi alberi centenari si aggiungono fiori colorati e profumi orientali, senza spazio per orpelli e banalità. Musica studiata nei particolari, affidata alle capacità di interpreti eccellenti. Musica che pulsa vita, cambia, grazie a improvvisazioni non fini a se stesse. Basta ascoltare il prezioso lavorar di note e silenzi di Marco Bardoscia, sempre superlativo, del canto di Laurienne che sa essere struggente e meticoloso, degli interventi in stato di grazia del sax di Roberto Gagliardi e della chitarra di Valerio Daniele, la passionalità del pianoforte di Jean e i due camei di Fresu che nel disco si dedica anche agli effetti. Nove canzoni d’amore, da Perdue, primo brano, all’attacco funkeggiante di Monsieur, passando per la classica dolcezza di Paupières – qui degni di nota il contrabbasso suonato con l’archetto che ricorda tanto una viola da gamba e la tromba di Fresu, perfetta nell’intrecciarsi dolcemente al canto. 

Mi racconti come siete arrivati a Ramour?
«Con Laurianne stavamo cercando un’etichetta che pubblicasse un disco di canzoni di Edith Piaf reinterpretato da noi (Paris-Piaf, uscito nel 2020, edito dallo stesso Cyrille, ndr). Una sera l’abbiamo fatto ascoltare al nostro amico Boris Savoldelli. Lui ci ha suggerito di sottoporlo al suo agente, Vic Albani, lo stesso di Paolo Fresu. Il disco è arrivato così a Paolo che l’ha apprezzato ma non poteva produrlo perché la programmazione Tǔk per quell’anno era già chiusa. Il giudizio positivo del nostro lavoro ci ha invogliato a scrivere nostre canzoni. Una volta pronti abbiamo incontrato Paolo, pensando che in alcuni brani ci fosse uno spazio espressivo particolarmente giusto per la sua sensibilità. Ha accettato di suonare nel disco, poi ha voluto produrlo, quindi promuoverlo con noi».

Vi siete definiti Consort, termine seicentesco che indica gli ensemble di musica barocca. Perché?
«È un modo di vivere e sentire la musica. Secondo me, nell’approccio non c’è nessun tipo di rapporto tra un cantante di oggi e Miles Davis. Viviamo nella tirannia del quattroquarti, di una sovraespressività vocale, di un’esagerazione tra il contenuto e la forma. Ma Corelli, Monteverdi e Davis, benché diversi per epoca e genere musicale, sono fratelli nel modo di approcciarsi alla musica, nel possedere quell’attimo di magia. Abbiamo deciso di riprendere questa vecchia parola, perché ha a che fare con le cinque grandi scuole della musica Barocca, l’Inghilterra, la Spagna, l’Italia, la Francia e la Germania. Ci teniamo a ribadire la nostra dimensione europea, visto che il disco è realizzato da due francesi, quattro salentini e un sardo!».

Nel lavoro si sente fluidità, come se fossero anni che suonate insieme…
«L’unica cosa che ti posso dire, la più banale ma la più importante, è che ci vogliamo bene. Ciascuno, ovviamente, è padrone del proprio strumento, musicisti che hanno lavorato per una vita, che stanno facendo delle bellissime carriere. Ma soprattutto, e ce ne siamo ancora accorti alla prima presentazione al Teatro Grande di Brescia, sono gli sguardi che ti scambi durante il concerto, i sorrisi, la fiducia che hanno cementato questo consort. 

E Ramur, è un amore che si rinnova?
«Esatto! Il concetto di riamarsi, soprattutto in questo momento difficile che stiamo condividendo tutti, è fondamentale. Ogni mattina temo di aprire i siti di informazione, mi chiedo quale sarà la nuova pessima notizia… fatemi respirare, vedo nuvole terribili. Capita nel nostro piccolo: sei sposato con una donna da 30 anni, la guardi una mattina e ti rinnamori, ci sono amanti che si rinnamorano per una notte. Sono attimi in cui la vita sembra vibrare di più, essere più bella. Lo è per Laurianne, lo è per me e, penso, anche per i ragazzi del Consort: cosa c’è di più bello dell’emozione dell’amore?».

Paolo Fresu con Jean Fontamar e Laurianne Langevin

Cosa ti ha portato in Italia?
«Mia nonna materna era una pianista, romanziera e critica d’arte. Ha dedicato gran parte della sua vita all’opera di Giotto. Quando ero piccolo mi mostrava gli affreschi, me li spiegava. Quindi mi ha parlato di Piero della Francesca, di Botticelli… Sono cresciuto nell’adorazione della cultura italiana e venire a sincerarmi delle meraviglie che lei mi aveva trasmesso da piccolo per me è stata una necessità, quasi un destino. Sono arrivato in Italia a 30 anni, la mia vita s’è disegnata così e non rimpiango nulla. Se Laurienne e io fossimo rimasti in Francia, forse non ci saremmo mai conosciuti e non avremmo avuto questa grande chance!».

Non ti sembra che stiamo vivendo un nuovo Medioevo nella musica e nell’arte?
«È una domanda che ci poniamo in molti. Ho superato i 45 anni, quando ero adolescente arrivavo a casa con l’ultimo disco degli U2 e dei Cure e provavo a condividere i miei entusiasmi con mio padre. Lui mi guardava dall’alto in basso e mi diceva: “Caro, quando avevo la tua età la stessa settimana andavo a prendere l’ultimo album dei Beatles, l’ultimo dei Rolling Stones e l’ultimo dei Pink Floyd”. Dobbiamo ammettere che oggi c’è un impoverimento, ma dobbiamo anche provare a tenere gli occhi aperti perché ogni generazione produce le sue meraviglie. Non critico la produzione odierna, sono altri tempi, soprattutto altre modalità di diffusione e di distribuzione della musica. Stiamo vivendo un’epoca del tutto nuova, mi sento un po’ smarrito, a volte preoccupato, ma nonostante tutto voglio fidarmi ciecamente di tutti questi ragazzi che amano profondamente la musica e che creeranno i loro capolavori».

La diffusione musicale digitale, però, ti porta ad ascoltare quello che vuole l’algoritmo…
«Avrai letto la dichiarazione brutale di Björk in un’intervista di qualche settimana fa (rilasciata al giornale svedese Dagens Nyheter e poi rimbalzata in tutto il mondo, ndr). Ha detto chiaramente che Spotify è la cosa peggiore che sia mai capitata ai musicisti e alla musica. Per Laurianne e per me Björk è un concentrato di talento, bellezza, sensibilità, immaginazione. È una signora che non ha più niente da temere dal futuro, e può dirlo con grandissima onestà. La sua intervista segna un passo molto importante. Anche Thom Yorke ha lo stesso pensiero, fa firmare petizioni ad amici e colleghi, siamo alla vigilia dell’irruzione massiccia dell’Intelligenza Artificiale nel mondo della musica. Le prospettive sono confuse. Condivido il senso di smarrimento, ma siccome ci sono così tanti motivi per essere preoccupati per il domani provo almeno a non inquietarmi troppo per la musica. Ripeto, voglio fidarmi dei giovani».

Sei comunque di una generazione che ha conosciuto il vinile, il senso della tattilità della musica!
«Siamo stati fortunati perché siamo nati con “un piede nel disco”, visto che la generazione precedente ci aveva educato all’ascolto dei vinili. Ricordo quando a 12 anni mio padre mi ha messo per la prima volta nelle mani The Dark Side of the Moon. L’ho ascoltato in cuffia e, quando è partita The Great Gig in the Sky sembrava che la testa mi scoppiasse, si aprisse, sentivo delle dimensioni sonore che non potevo lontanamente immaginare. Lo stesso mi è successo con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band: i Beatles avevano confezionato una proposta musicale articolata, esteticamente coerente, con scelte molto precise, percepivi la meticolosità dell’insieme non semplicemente della singola canzone… Oggi il senso dell’album è quasi scomparso, le major vogliono picchiare forte su un brano che deve essere ascoltato tantissime volte».

I Fontamar Consort. Da sinistra, Valerio Daniele, Jean Fontamar, Roberto Gagliardi, Marco Bardoscia, Vito De Lorenzi. Al centro, Laurianne Langevin

In Ramour si percepisce il senso che avete dato all’album, c’è narrazione, ci sono buoni narratori, c’è sorpresa. Marco Bardoscia in questo lavoro è stato fondamentale!
«Marco è di una versatilità straordinaria. L’ho incontrato per la prima volta tredici anni fa. Allora  facevo tutt’altro, lui aveva 27 anni e stava portando in giro The Great Gig in the Sky, album basato sul capolavoro dei Pink Floyd in trio con Boris Savoldelli e Francesco Casarano (di lui vi ho parlato in questo post, ndr). Sono andato a sentirli alla Cantina Bentivoglio di Bologna, non sapevo si potesse dipingere con un contrabbasso, ero pietrificato sopra il mio piatto di spaghetti al limone, me lo ricordo come se fosse ieri! E in cuor mio mi sono detto: “Se tu devi, come sogni, riprendere la musica, sarà con questo ragazzo”!».

Anche Laurianne è una bella sorpresa. Ha una voce calda, morbida…
«Il Consort nasce grazie alla voce di Laurianne, epicentro di questo lavoro. La sua è una voce lirica e antilirica, lei è capace di tutto. L’incontro con Laurianne e Marco ha dato vita a tutto questo: la prima volta che ci siamo trovati a provare nel novembre del 2022, è stato un momento come diciamo noi francesi, toccato dal dito della grazia. Dopo aver suonato per cinque ore ci siamo guardati e ci siamo detti, siamo già pronti per fare un disco. Poi interagire con Marco è stato più semplice, ha vissuto sette anni in Belgio, quindi capiva perfettamente il senso delle parole delle canzoni. Al momento di registrare sono arrivati un batterista e percussionista d’eccezione, Vito De Lorenzi, il talento folle di Valerio Daniele, la foresta indomata del sax di Gagliardi e il tocco di velluto di Paolo».

Com’è nato il tuo alter ego Jean Fontamar?
«Mi piace foneticamente, perché sembra un nome, come diciamo noi francesi, tirato all’inchiostro, con un elemento nero in centro. Sono stato affascinato dalla semplicità assoluta del nome Jean, l’ho sempre trovato bello. E Fontamar, ricorda Fontamara, il romanzo di Ignazio Silone, un omaggio al Sud da cui provengono i quattro musicisti del consort. E poi Fontamar è anche una fonte con l’acqua amara o una fonte che sfocia in fiume e si perde nel mare…».

Avete pianificato una serie di concerti in Italia e in Francia?
«La parola Consort anche da questo punto di vista è molto interessante, un consort è per eccellenza un insieme modulabile! Te lo dico perché stiamo definendo proprio queste cose. Siamo musicisti che provengono da più parti d’Italia, stiamo incastrando date che vadano bene a tutti, oltre che i luoghi dove suonare. All’incrocio di tutte queste considerazioni pratiche, artistiche e umane, speriamo di stabilire al più presto una serie di date per promuovere il disco».