Giovanni Guidi e Matthew Herbert: piano, elettronica e improvvisazione

Giovanni Guidi – Foto Roberta Paolucci

Domani sera al Teatro di Fiesole, Firenze, organizzato da Toscana Produzione Musica, si potrà ascoltare un concerto davvero interessante, basato sull’improvvisazione pura. Sul palco il pianista umbro Giovanni Guidi e l’inglese Matthew Herbert, musicista, Dj, esperto di musica elettronica. Giovanni è artista e compositore molto coinvolgente; di lui mi ha appassionato quel bellissimo lavoro uscito nel 2021 intitolato Remiscenze, in duo con Daniele di Bonaventura. È figlio del grande Mario Guidi, mancato nel dicembre del 2019, pioniere del jazz italiano e manager di grandi musicisti come Enrico Rava e Paolo Fresu. 

È un da un bel po’ di anni che i due musicisti si frequentano e suonano insieme. Nel 2020 hanno pubblicato un album in trio con Enrico Rava dedicato proprio al padre di Giovanni, intitolato For Mario. Il progetto che presenteranno domani, come vi accennavo all’inizio, si basa dunque sull’improvvisazione pura. È il secondo di questo tipo che propongono. Si sono esibiti al Dancity Festival di Foligno, città natale di Giovanni, nel 2023. Uno al pianoforte e l’altro a rielaborare in diretta il suono dello strumento grazie a un complesso sistema di microfoni che coinvolge l’intero piano, dal legno, alle corde, al battere del piede, persino allo scricchiolio dello sgabello su cui è seduto Giovanni.

Guidi lo definisce un “iperpiano”, un pianoforte potenziato all’ennesima potenza, che trova la sintesi tra strumento meccanico ed effetti digitali, grazie alla rielaborazione dei suoni. «Partirò con un tema e Matthew mi verrà dietro. Sarà tutto rigorosamente improvvisato», spiega Giovanni. Ed è questa la bellezza e l’aspettativa dell’appuntamento fiesolano.

Dunque Giovanni, jazz applicato dell’elettronica e viceversa. Come è nata questa “fusion” fra te e Matthew?
«Alla base di tutto c’è il valore dell’improvvisazione, quel tipo di esperienza dell’imprevisto e di ricerca continua, seppure su materiali diversi, che siano composizioni originali, brani di altri, improvvisazioni radicali o, appunto, collaborazioni con l’elettronica. Mi tiene vivo come musicista e anche come performer. In questo caso, con Matthew Herbert, tutto quello che ci sarà di elettronica, proverrà interamente dai suoni acustici del pianoforte. Lui li campionerà in diretta, dal vivo». 

È la tua definizione di “iperpiano”?
«Sì, si tratta proprio di un pianoforte all’ennesima potenza, dove tutti questi substrati e substrati di pianoforti si sviluppano uno sopra l’altro fino a costruire un mondo immaginario, irreale perché sono suoni prodotti in miliardi di equazioni diverse, ma che hanno sempre origine dal piano acustico, dalle note o dalle corde, dal legno, da qualsiasi cosa, anche da uno sgabello».

Il piano è interamente microfonato?
«Sì, Matthew da lì prende, anche casualmente, quello che vuole e lo ritrasforma in diretta in altri suoni. Diventa così un dialogo: io inizio a suonare da solo in modo da dare a lui il tempo di farsi i suoi campionamenti e, da quel momento parte una nuova storia».

Matthew Herbert – Foto Roberta Paolucci

Come hai conosciuto Matthew?
«In occasione del primo concerto fatto con Enrico Rava, una produzione di un festival che si chiama Jazz ReFound, parliamo di 10-15 anni fa. Abbiamo fatto molti concerti in trio poi è uscito For Mario e con il lockdown sono cambiate tante cose… L’anno scorso a Foligno, la mia città, un festival di musica elettronica ci ha proposto di fare una cosa in duo ed è stato un evento così, un “one shot”. Toscana Produzione e Musica, centro di produzione fondamentale per la scena della musica jazz italiana, mi ha proposto di dare una piega un po’ più solida a questo progetto, partendo proprio dal concerto di domani a Fiesole».

Qual è il tuo modo di suonare ideale? In piano solo, in trio, in duo…
«Mi piace tutto, dal classico trio con contrabbasso batteria, al duo come quello con Matthew, nei gruppi più numerosi vedi i concerti con Enrico Rava. Amo tantissimo suonare in piano solo, sembra un po’ banale dirlo per un pianista, ma suonare da soli è una seduta di psicoanalisi dal vivo sempre bella, quando c’è improvvisazione va messo in conto che a volte funziona altre volte no, ma è proprio questo il punto, una magia unica e irripetibile!».

Perché hai scelto il pianoforte?
«È una storia carina. Nonostante la musica, come puoi immaginare, sia sempre stata una costante a casa dei miei, da ragazzino avevo un amico che di tutto si occupa tranne che di musica. Lui possedeva una tastiera giocattolo, una Casio, avevamo 7-8 anni, che stava gettando nell’immondizia perché non ne voleva sapere di suonarla. Gliel’ho presa io proprio un secondo prima che lo facesse e l’ho portata a casa. Avendo una famiglia predisposta all’amore per la musica, la settimana dopo mi sono ritrovato a casa un pianoforte, che è diventato find a subito la mia ossessione».

Amore a prima vista! E il jazz?
«Casa mia, grazie a mio padre, è stata da sempre frequentata da musicisti, soprattutto jazzisti, è stato inevitabile!».

Raccontami di Enrico Rava…
«A Enrico devo tutto ciò che ho avuto nella mia vita artistica. Il fatto di aver potuto suonare insieme, incidere per la prestigiosa etichetta ECM di Monaco, sono state tappe fondamentali della mia vita raggiunte grazie a Enrico. Lui mi ha introdotto a tutto, mi ha portato a suonare in tutto il mondo, mi ha fatto fare tutte le cose più belle che potessi immaginare».

Fra tuo padre ed Enrico c’era un’amicizia solida…
«Sì, poi s’è sviluppato anche un altro rapporto bellissimo tra me ed Enrico, che ovviamente  ancora dura, anche se è già qualche anno che facciamo cose diverse».

Il progetto che hai con Matthew Herbert ha le gambe per andare avanti?. Volete portarlo in giro in maniera più strutturata?
«Sì, dobbiamo farlo assolutamente, è il nostro obiettivo e sarà così!».

Guidi ed Herbert in concerto a Foligno – Foto Roberta Paolucci

Passiamo all’elettronica, esiste dagli anni 40, non è una novità. In rapporto al jazz, come la vedi?
«L’elettronica è un po’ strana, perché è sia un mezzo che anche un linguaggio. Quando è nata la musica jazz, questa si è avvalsa di mezzi e linguaggi diversi. Con l’elettronica arrivano entrambe le cose, sia un strumento ma anche un linguaggio che poi si è sviluppato e si sviluppa ogni giorno. Ci sono tanti gruppi che suonano musica acustica, ma che sono profondamente influenzati dal linguaggio dell’elettronica nata con il mezzo musica elettronica. Quindi, la vedo tutto molto semplice: qualsiasi cosa che con convinzione si porta dentro che siano linguaggi, mezzi, strumenti, aiutano il jazz a sopravvivere, anzi, il jazz non morirà mai fino a che continuerà a vivere dell’incontro, dello scontro, della ricerca».

Il jazz è qualcosa di enormemente democratico, nel senso che tutti hanno la possibilità di esprimersi, di “parlare” quel linguaggio… Socialmente è un bel fenomeno!
«Sì, tutti possono “parlare” ma anche stare zitti, ognuno lo può scegliere. Lo dice spesso Enrico Rava: è una delle massime espressioni della democrazia e, quando tutto funziona, c’è chi ascolta e chi parla, quando invece non funziona diventa solo un meccanismo fine a se stesso… inutile».