Vanessa Tagliabue Yorke, la notte, l’oscurantismo culturale e la musica liquida

Vanessa Tagliabue Yorke indossa il Cappello Di Perseo di Laura Cadelo Bertrand – Foto Roberto Cifarelli

Lo dico senza preamboli: Princess of the Night, l’ultimo disco di Vanessa Tagliabue Yorke, uscito poco più di un mese fa, è uno di quei lavori che ti rimane scolpito nel cuore e nella mente. Bello, emozionante, ricco, complesso nella sua costruzione, una musica che richiede più ascolti attenti e che, se accetti di partecipare, ti propone un viaggio ricco di riferimenti, armonie, contrattempi, arrangiamenti nel quale avventurarsi e perdersi. «È molto difficile oggi percepire un disco come un luogo emotivo che ti porta a fare un viaggio compiuto», mi racconta Vanessa parlando della musica liquida, dove ascolti senza cognizione, senza sapere cosa c’è dietro a quei brani, cosa l’artista voleva esprimere, quali i tasti toccati per accendere un’emozione…

Siamo nel jazz, musicalmente e significativamente. Sul palco non ci sono frontman ma comprimari, dove l’eguaglianza è uno dei presupposti per dialogare, un linguaggio schietto che non fa mai sconti, e la libertà è il fondamento dell’amicizia, dello stare insieme. Princess of the Night contiene tutto ciò con la solita eleganza e raffinatezza, “marchio di fabbrica” di Vanessa che nella vita è anche una pittrice e una scultrice.  

Per ripristinare questa necessità essenziale Vanessa ha inserito in più lingue una traccia come ultimo brano chiamata Riconoscimenti: 13 minuti di parlato dove, appunto, riconosce il lavoro di tutti coloro che hanno partecipato alla fattura dell’album, dai musicisti (Giulio Sacaramella al pianoforte, Mauro Ottolini al trombone e alle conchiglie del mare, Francesco Bearzatti al clarinetto, Eva Impellizzari alla viola e Salvatore Maiore al violoncello) al fonico che ha registrato il disco, Stefano Stefanoni, a Stefano Amerio di ArteSuono che l’ha mixato e masterizzato. Vi consiglio di ascoltare prima questo “brano”, per capire come è nato il lavoro, quali sono stati i richiami ad artisti cari a Vanessa, da Duke Ellington a Ernesto Laucona, del come questo si sia evoluto. Una volta acquisite le informazioni potete iniziare dalla prima traccia I Wish For The Cloth Of Heaven sino all’ultima, la dodicesima, I’ve Stolen A Dream, consapevoli di tutto ciò che ci sta dietro. E, se desiderate altre informazioni sulle composizioni e sui brani, Vanessa ha aperto una sezione del suo sito dove troverete, storie, appunti, carte pentagrammate. Un’assoluta trasparenza per far capire quanto mai oggi, in periodi di streaming, sia necessaria la consapevolezza e la cultura dell’ascolto.

Partiamo dal titolo, Princess Of The Night: la notte e l’oscurità sono due cose diverse…
«La prima ha un’accezione positiva perché è un momento di silenzio e di introspezione, di sogno, di riposo, di condensazione di pensieri che poi si trasformano in progetti. È qualcosa di cui hai bisogno. È fatta di intimità ma anche di solitudini, sei solo con te stesso in modo positivo, rigenerante. Mentre l’oscurità è la condizione in cui la notte avviene ed è una condizione che ho cercato a livello timbrico, scegliendo gli strumenti col timbro più grave, escludendo quelli più acuti, come la tromba o il violino. Scelta inevitabile, perché sono il riflesso di un periodo storico in cui mi trovo inserita. Questa oscurità coincide con il sonno della ragionevolezza in cui, mio malgrado, sono avvinta. Non ci vuole per forza la notte per riposare, ma una condizione privilegiata per poter rilassarsi, ripensare, creare. Quindi, una notte infastidita dagli incubi non è una notte in cui ci si riposa, il sonno della ragione genera gli incubi a cui stiamo assistendo continuamente da anni. Incubi che comprendono la guerra, il terrorismo, le politiche internazionali che non sono né ragionevoli né concilianti, le violenze. La notte culturale delle proposte che ascoltiamo ogni giorno, martellanti, vengono da ogni media e sopprimono le voci di quelli che hanno qualcosa di profondo da raccontare. Ho fatto un lavoro che, senza volerlo, è in realtà strutturato esattamente così».

La cover di Princess of the Night

Non abbiamo né rispetto, né cultura, né tantomeno amore per ciò che ci circonda?
«L’amore è incondizionato, quindi la cultura smette di svilupparsi attraverso l’amore quando fornisci un intrattenimento basato su logiche di profitto che possono essere di vantaggio reciproco, di scambio politico o economico. Lì non c’è più nessun amore…».

Nei Riconoscimenti sostieni: «Si finisce per reiterare lo stesso stato emotivo… L’uomo non sente la necessità di rielaborare quello che prova».
«Potrebbero esserci altre questioni connaturate o collegate, però temo che la reiterazione di uno stato emotivo e quella reattiva di uno stato fisico sia il modello da seguire. Per esempio accade in un rave party, dove uno saltella tutta la notte bombardato da bassi martellanti, assume sostanze stupefacenti rimanendo collegato a un loop senza fine, fino allo stordimento. Ho paura che oggi la proposta commerciale già bieca e maggiormente diffusa abbia addirittura consolidato un bpm, una tipologia di incastro ritmico, una tonalità e un giro armonico specifico, perfetto per ottenere il consenso commerciale. E ciò viene continuamente prodotto e riprodotto affinché continui a circolare sempre lo stesso stato psico-emozionale. Così facendo, ovviamente, si crea il consumo, che diventa una conditio sine qua non. Mentre ascoltare un disco dei Pink Floyd, in cui all’inizio senti un rumore che poi si sviluppa in un ritmo, quindi diventa un lamento e ancora una cosa che ti fa paura ma poi si scioglie in una melodia dolce e confortante, ti fa fare un bel viaggio. E questo l’uomo e la donna contemporanei, specialmente se ragazzi, non sentono più di volerlo fare. Nella loro fragilità hanno bisogno di essere continuamente rassicurati come bambini che nel buio cercano la mamma con la mano, tirandole i capelli per essere sicuri che sia ancora lì. In questo caso sono loro stessi ad aver paura di esserci! Quindi… ci troviamo in un baratro».

Quando parliamo di mainstream, la musica spesso non è musica ma sfruttamento di presunti artisti usati per il mero profitto…
«Infatti ci sono tanti artisti che sono stati sputati via dieci anni fa e che adesso cercano di entrare disperatamente in pratiche più commerciali a cui non sono adatti fisicamente o anagraficamente, tentano di infilarsi nei conservatori, cercano di cambiare la loro immagine o la loro musica. Magari entrando nel circuito jazz che sembra qualcosa di diverso, di aperto che possa accoglierli perché, se non altro, hanno un seguito televisivo più consolidato rispetto agli artisti che fanno jazz dove in televisione non ci andranno mai».

A proposito, il jazz oggi ha ancora le stesse valenze degli inizi?
«Secondo me il jazz è sempre la stessa cosa da quando è nato, e cioè l’espressione autentica e deliberata dell’individuo nella sua peculiarità attraverso una pratica che viene reinventata da ogni singola persona che la frequenta. Poi, anche lì c’è chi lo fa in modo più commerciale o meno, ma non importa perché il jazz, nella sua essenza, rimane l’unica forma d’arte che davvero ha come suo cuore la libertà».

E anche la condivisione del tuo suonare…
«Una condivisione paritaria tra il solista, l’esecutore e il compositore, tra il leader e il sideman, perché quando fai un vero concerto jazz non c’è davvero un sideman. Magari c’è un nome sul cartellone, ma quel nome si nutre della forza di chi ha attorno. Perché è un dialogo, mentre invece nel cantautorato è preminente l’aspetto della personalità, cioè di chi scrive i testi e ci mette la faccia. Tanti cantautori magari partono con dei gruppi pazzeschi dove ci sono dentro musicisti invidiabili e poi, per ragioni economiche, li lasciano a casa sostituendoli con altri un po’ più mediocri per poterli pagare meno. Nel jazz questo non succederà mai perché il dialogo è prevalente sulla qualità dello spettacolo».

Sempre nei tuoi Riconoscimenti parli dei brani che finiscono inghiottiti da anonime playlist digitali che finiscono per snaturare l’artista. D’altro canto l’utente è in balia dell’algoritmo, o hai una ferrea disciplina di ricerca o vieni sottomesso…
«Ti dirò una cosa ancora più radicale. In questo caso l’artista non viene penalizzato dall’algoritmo e dall’Intelligenza artificiale, bensì dalla mancanza di cultura e, dunque, anche di educazione alla ricerca che è diffusa ed è la base del sistema di educazione in cui siamo continuamente inseriti. Quindi la speranza, per quanto mi riguarda, visto che comunque il concetto della playlist, per quanto limitante sul piano della reiterazione emotiva, è comunque curioso visto che puoi imbatterti nel nuovo brano di Charles Lloyd e dire “Cavolo, è il più bello che ho mai sentito, vado a cercarmi il disco”, la speranza, dicevo, è che l’Intelligenza Artificiale diventi umana e che sia più intelligente di noi e ci rieduchi, magari individuando davvero quali sono i nostri gusti meglio di quanto non lo faccia adesso e meglio di quanto non lo possa fare una persona ignorante che probabilmente farebbe una playlist basata su una scarsa educazione all’ascolto e condizionata da ipotesi di profitto, amicizie, contratti e altre cose».

Veniamo al disco. Hai avuto un endorsement da Enrico Rava e un ritratto d’artista di Luigi Manfrin. Fatti anomali in un mondo così volatile, eppure così importanti  per l’ascoltatore…
«Sono importanti nella misura in cui un individuo è educato alla bellezza, alla ricerca, perché per me è davvero tanto frustrante aprire un disco di un qualsiasi tipo di compositore, cantautore o chi vuoi, e non riuscire a capire con chi stia suonando o di chi sia l’arrangiamento. Esempio: è uscito l’ultimo singolo di Norma Winstone, volevo sapere chi suonava il piano, ma non l’ho trovato. E per me è inaccettabile. Oltretutto, come ho spiegato sempre nella traccia 13, un’altra cosa che viene a mancare è proprio la storia. Quando ho comprato per la prima volta Lady in Satin (Billie Holiday, 1958, ndr) ho letto all’interno il commento di Ray Ellis, dove racconta che il disco all’inizio tutti lo consideravano un mezzo disastro. Però lui poi lo ha ascoltato meglio, rendendosi conto di quanto grande la Holiday sia stata in quel lavoro… Tutto ciò fa parte della storia del disco. Sono diventata molto più consapevole dei processi creativi, del significato di quel lavoro che è cantare, che vuol dire  anche, a volte, fare una determinata cosa e non essere capiti. Senza un libretto con le note di copertina di Enrico Rava piuttosto che di Luigi Manfrin o di Ray Ellis, non si può sapere se quel lavoro lo abbiamo mai davvero compreso. E quindi, che musicisti e canzoni verranno fuori? Probabilmente gente che, come criterio, è abituata a valutare solo in base agli ascolti su Spoify, senza un’analisi estetica che si sviluppa in una frequentazione, un approfondimento, una riflessione. Tutto ciò identifica un mondo che va in una direzione per la quale l’essere umano perde continuamente facoltà cognitive e, visto che non vengono utilizzate, a un certo punto avvizziscono».

La Conga de media noche è un brano intriso di poetica. Com’è nato?
«Lo ha scritto Ernesto Leucona ed è un pezzo scritto per pianoforte, molto complesso con delle politonalità e delle armonie che fanno pensare a Puccini. Mai nessuno, nemmeno il compositore, aveva concepito di cantarlo. Ho pensato a un testo che entra ed esce dal tema e poi l’ho proposto a Giulio Saramella».

E Berceuse, invece?
«Ha un titolo francese ma il brano è di un compositore italiano, Ettore Pozzoli».

Mi richiama le atmosfere della musica colta brasiliana…
«Ma dai, non ci avevo pensato, a me ricorda l’impressionismo francese, quel periodo impressionista di Pozzoli dove lui guarda al luccichio del mare. Ho sempre pensato che avesse qualcosa di simile alle contraddanze cubane».

Ti trovi in perfetta sintonia con Giulio Scaramella. Come l’hai scoperto?
«Mi sono trovata nella triste situazione di avere investito molto su un lavoro fatto con un collega precedente che mi ha lasciato improvvisamente a piedi. Ho avuto un attimo di grande difficoltà organizzativa e artistica… Quindi ho chiesto aiuto ai miei amici. Sono stati tutti fantasticamente solidali nel cercare di individuare una persona che fosse adatta alle mie caratteristiche estetiche. Mi sono completamente fidata di loro, l’amicizia è l’unico valore che non si può distruggere con le speculazioni commerciali, una conseguenza del jazz che ci porta a un dialogo autentico e a veri rapporti d’amicizia e rispetto. Sono grata a tutti quelli che mi hanno aiutata da Mauro Ottolini a Francesco Bearzatti a Glauco Venier che un giorno mi ha detto: “Vanessa secondo me il pianista più adatto a te è Giulio Scaramella”. Mi sono fidata di Glauco, ho chiamato Giulio e ora lavoriamo insieme, è assunto a tempo indeterminato!».

Hai unito un sestetto incredibile, con Bearzatti al clarinetto, strumento bellissimo, Ottolini al trombone e alle conchiglie, peraltro azzeccate nel mood del disco…
«Azzeccatissime! Le conchiglie ci aiutano a considerare l’ascolto come se avesse radici primordiali, a slanciare il lavoro che stavo facendo verso una dimensione immaginativa che comprende un’ottica evolutiva. Senti la presenza dell’antichità con la contemporaneità e cominci a farti più domande».