Emanuele Sartoris e Roberto Cifarelli, ovvero la pratica del transfert artistico

Nelle ultime uscite di fine marzo c’è un disco che non potevo farmi sfuggire per proporvelo in questo blog “not mainstream”. Si tratta di un lavoro eseguito rigorosamente a quattro mani, un progetto multimediale, dal titolo Inquadratura di composizioni. Porta le firme di un solido compositore e pianista piemontese nato il 13 dicembre dell’86, Emanuele Sartoris, e di un fotografo lombardo, di gran fama nel mondo del jazz, Roberto Cifarelli, nato il 13 agosto del ’64. 

A unirli, oltre allo stesso giorno di nascita, quel 13 che rientra nella “numerologia” di uno dei brani del disco, Tredici note di colore, una visione uguale e parallela della musica. «Sono un fan di Alexander Skrjabin (compositore russo, autore del Prometeo, ndr), e del suo interminabile lavoro volto a mettere l’ascoltatore al centro di un’esperienza artistica a tutto tondo», mi racconta Emanuele. «Sono un attivatore di cose strane e questo e un progetto di ricerca in cui tutti e due abbiamo “fatto ricerca” uno sull’altro» gli fa eco Roberto, che definisce in maniera lapidaria e convinta il ruolo del fotografo ritrattista: «Per me la cosa più bella è che un musicista si riconosca nella foto, ma con il tuo stile».

Quando ho letto il nome di Roberto sulla cover del disco pubblicato per la collana Tǔk Art, sezione della Tǔk Music dedicata alle forme del figurativo, ho pensato quello che hanno pensato tutti: ma Roberto s’è messo a suonare? Sartoris e Cifarelli, in una sorta di transfert artistico che li ha portato a scattare con i tasti del pianoforte e suonare con le foto, hanno invertito le loro peculiarità artistiche con lo scopo di portare l’ascoltatore a un livello superiore di emozioni. 

Ho visto la presentazione del lavoro dal vivo un paio di settimane fa all’Atmysphere, lo studio-garage-laboratorio di Roberto, a Voghera. E la compenetrazione tra pianoforte e macchina fotografica (non ci sono aggiustamenti in postproduzione, è stato tutto “fissato” in quell’attimo, fotografato e restituito alla realtà di ciascuno di noi) è talmente forte che si ha la sensazione emotiva di entrare nei tanti mondi proposti dalle dieci composizioni, siano i “mossi” di Immobile, o la nascita di una statua in Archè, a opera dello scultore Vitaliano Marchetto, unendo così in una sorta di “matrioska d’arte”, scultura, fotografia e musica.

Impro 2, dietro lo sguardo

Da sempre le arti comunicano, si contaminano, qui si tratta di una una faccenda diversa…
Roberto Cifarelli: «Il progetto è nato da un’idea di Emanuele. Ci siamo incontrati al Blue note, poi ci siamo trovati nel mio studio ed Emanuele ha scoperto che oltre a fare foto di jazz avevo anche altri progetti di ricerca. Avevo già collaborato con Stefano Bollani, Enrico Rava e Rita Marcotulli. Con Rita avevo fatto un’operazione simile a Inquadratura di composizioni, lei mi aveva spiegato cosa voleva suonare e io avevo prodotto un lavoro fotografico, immagini che scorrevano mentre lei suonava. Questa volta è stato uno studio diverso: ho proposto quattro progetti fotografici a Emanuele perché ci scrivesse sopra delle musiche e lui ha fatto altrettanto consegnandomi quattro composizioni inedite per costruirci sopra un progetto. È stato divertente perché alcune  immagini sembrano fotomontaggi e invece sono foto reali e in altre realistiche ho usato l’Intelligenza Artificiale, come nel brano Il Tempo. Ho montato tutti i video con le musiche eccetto una, Blue Solitudo, Notturno Op.5 Nr.1, perché il processo compositivo non mi convince ancora del tutto, ci sto lavorando..
Emanuele: “Nello studio ho scoperto il Roberto artista contemporaneo, sono rimasto sconvolto nel vedere i suoi autoritratti costruiti con i più svariati oggetti. Conosco Roberto da quando avevo 16 anni, quando frequentavo il Blue Note e lo vedevo scattare. Compravo le riviste jazz e le foto di copertina erano quasi sempre le sue! Però ci ci siamo dati la mano soltanto poco tempo fa, grazie a un amico comune, il presentatore televisivo Massimo Bernardini. Aggiungo una annotazione: mi interessava che il progetto fosse solido, compenetrato dalle due arti, musica e fotografia. Per questo Roberto è sempre presente in tutte le tracce con la sua personalità: lo si sente parlare, si ascoltano il suo battito cardiaco e i suoi passi, registrati con pazienza da Stefano Amerio nello studio Artesuono…».
Roberto: «A parte che non so recitare per cui si sente l’imbarazzo quando parlo, però, mi è piaciuto. Sono un estroso fuori ma anche un timido dentro, per cui non mi dispiace che si percepisca la mia timidezza entrare nella musica».

Riflessioni sonore

Vi siete dati questi compiti, ma qual è stato il processo creativo per arrivare a un certo tipo di musica e a un determinato modo di fotografare?
Emanuele: «Lui ha iniziato a mandarmi le immagini e io a pensare cosa si potesse comporre su quelle foto. La prima è stata Riflessioni sonore. Roberto racconta tu la foto, visto che sei l’autore!».
Roberto: «Era un periodo che non stavo bene, non potevo andare in giro perché ricoverato in ospedale. Naturalmente, visto come sono fatto, non riuscivo a star fermo così mi son fatto portare computer e tanti libri… Mi era venuta l’idea di rispecchiare quattro volte degli strumenti musicali o degli oggetti sul palco. La cosa affascinante di questo progetto è che dentro queste immagini con la fantasia uno se vuole vede altre cose, facce di extraterrestri, oggetti, in una c’è un cane lupo…».
Emanuele: «Sembrano un po’ i disegni ambigui dei test di Rorshack! Con questo tipo di immagini mi è subito venuto in mente di lavorare su una musica di tipo bachiano, più moderna, su tempi composti, 5/4, e far passare il tutto attraverso lo specchio: quello che riflette, viene visto ribaltato. Così tutto ciò che sembrava più aperto diventava più cupo, più strano: in musica iniziavano a comparire le stesse immagini della foto. È sempre un viaggio che porta l’ascoltare a ragionare con se stesso. Noi serviamo sul vassoio quello che abbiamo osservato ma lasciamo aperta l’interpretazione alle emozioni di chi ci sta ascoltando in quel momento. Al contrario, quando ho iniziato io a pensare alle cose da dare a Roberto, mi sono balenate in testa cose assurde, impossibili da fotografare, l’anima, il tempo, il vento… Poi mi son dato una calmata e l’ultima composizione era su Wayne Shorter, di cui Roberto ha molte immagini. Entrambi siamo molto legati a Shorter e alla sua musica».

Archè

Altre cose in comune tra voi?
Roberto: «Siamo nati entrambi il giorno 13. Mi affascina questo numero. Ho pensato che ci sono 13 note, le 12 canoniche più la pausa di silenzio che è a tutti gli effetti una nota. Quindi abbiamo concepito anche una serie di immagini in cui ho diminuito i colori portandoli a 13. È stato un gioco affascinante, e queste cose nascono sempre insieme».
Emanuele: «Roberto aveva ben chiara anche la musica che voleva ottenere. Lui, al di là dei concerti che ha visto in veste di fotografo, è un prezioso ascoltatore…».
Roberto: «Mi piace molto il jazz europeo, il jazz nordico».
Emanuele: «Conseguenza per cui mi ha fatto una serie di richieste sui brani, per esempio che fossero minimalisti. È stato proprio un gioco doppio. Una stupidaggine, ma dietro la stampa di ogni foto allegata al vinile c’era il pensiero di avere un oggetto tattile, bello da possedere…».
Roberto: «Sai come abbiamo presentato il vinile? L’idea è nata mentre eravamo a tavola con Paolo Fresu: abbiamo messo il disco in una confezione di pizza da asporto, è la stessa carta, poi ci abbiamo stampato le etichette e dentro, oltre al vinile, ci sono dieci foto, una per ogni brano, con dietro la partitura in modo che nelle immagini fosse presente sempre anche Emanuele. Ne abbiamo fatte 250 copie».
Emanuele: «Se vai a vedere le partiture che mi ha commissionato Roberto sono firmate da entrambi: l’idea era quella di avere un lavoro che fosse veramente realizzato a quattro mani. Roberto, come se fosse in un brano del mondo di John Cage, partecipa con la sua persona, con la voce, con i rumori, la risata. Per chi lo conosce, e in questo mondo di musicisti lo conoscono in tantissimi, nel disco si sente la sua presenza».

Perché avete pubblicato per la Tǔk di Paolo Fresu?
Roberto: «Con Paolo ci conosciamo da 36 anni. Lui all’inizio non sembrava interessato al progetto, detta proprio sinceramente! Poi, mano a mano che si sviluppava, gliel’abbiamo fatto vedere dicendogli: “Se sei interessato usciamo con la tua etichetta, altrimenti abbiamo alternative, non farti problemi”. Quando lo ha visto ci ha fatto la proposta di uscire per la collana Tǔk Art, perfetta per noi. Alla fine gli è piaciuto, ogni volta che ci incontravamo buttava lì un’idea. Musicalmente conosceva Emanuele, gli piace come pianista».

A bruciapelo: cos’è per voi il jazz?
Roberto: «Per me è, tra virgolette, una fonte di sfogo. Quando lo ascolto mi dà benessere. L’ho sempre detto, non sono un fotografo ma un ascoltatore, cerco sempre di esprimere con le mie foto quello che ascolto. Per scelta da anni non lavoro più con nessuna redazione, vado a sentire solo ciò che mi piace e mi interessa, per cui per me il jazz è la vita. Non penso ci sia qualcuno che abbia ascoltato tanti concerti dal vivo quanti ne ho sentiti io. Sono un amante della musica dal vivo, cosa che non è così diffusa, basta chiedere a qualcuno di andare ad ascoltare un concerto a 80 km di distanza e nessuno si muove! Il fatto che prima lo vedevo da fuori e adesso sono amico di tanti musicisti è ancora più affascinante. Quando ero giovane i miei idoli erano gli Yellowjackets, gli Weather Report, gli Uzeb, i dischi della GRP, che riascoltati adesso mi piacciono di meno, quasi preferisco di più gli Earth Wind & Fire, e trovarmi dentro, magari essere amico di Bob Mintzer, ancora oggi mi fa un certo effetto, perché in fondo nella vita questi artisti mi hanno regalato tante emozioni, a molti concerti piango ancora… Ecco, per me il jazz è emozione».
Emanuele: «Da musicista è l’opportunità di essere sincero, di poter raccontare una storia con la mia voce, con il mio suono, e poterlo fare attraverso l’improvvisazione, dunque con sincerità, essere onesto verso il pubblico. Cerco di epurare qualsiasi sovrastruttura, soprattutto nella musica improvvisata con cui abbiamo aperto e chiuso il lavoro discografico. Forse ciò che più mi rappresenta in questo momento storico, è essere riuscito a dar voce al mio suono in totale libertà, il suonare senza preconcetti. Il jazz è sicuramente la libertà di poter essere sinceri».

Zefiro

Cos’è per voi il contemporary jazz, di cui oggi si fa un gran parlare?
Emanuele (ride, ndr): «Non si può fare a meno di essere contemporanei, essendo noi qui, oggi! Noi siamo frutto, l’ha detto Roberto, dei nostri ascolti, della musica che abbiamo amato. Detto ciò, non mi piace etichettarmi. Preferisco citare un grande come Giorgio Gaslini che parlava di “musica totale”: è quella in cui ci rivediamo. Ovvero l’idea di essere contemporanei senza un’etichetta ben precisa. Anche questo è un cenno di libertà».
Roberto: «Penso sempre che poi, alla fine, tutti i generi d’arte non siano niente altro che un’evoluzione di tutto quello che c’è stato prima. Adesso sto facendo dei mossi, delle doppie esposizioni, ma queste esistono dal 1956, non ho creato niente di nuovo, ho cercato di metterci la mia personalità. Devo ringraziare mio padre, appassionato d’arte e pittore, che mi ha portato fin da piccolo nei musei europei a farmi vedere opere d’arte moderna. Questo ha influenzato la mia forma di ricerca nella musica. Perché se all’inizio guardi e non capisci niente, poi cominci ad assorbirle e le ributti fuori con la tua espressione. Poi, farlo bene o farlo male, sarà il tempo che lo dirà».
Emanuele: «Quindi, non sappiamo cosa sia il contemporary jazz, lo vedremo tra cinquant’anni!».

Ve l’ho chiesto perché, in tutta la musica vedo spesso tanta bravura tecnica, ma poca emozione…
Roberto: «Alla fine, lo sappiamo bene, l’arte rappresenta quello che è la società in quel determinato momento, è sempre stato così. Ora siamo in un periodo di forte transizione, molto più del ’68 e degli anni di piombo, quando siamo cresciuti noi. A mio parere dovuto al forte sviluppo tecnologico (IA, social). C’è tanta superficialità, basta che tu vada su Tik Tok, è difficile vedere anche solo un breve video culturale. Questa banalità è riportata inevitabilmente nella musica e nell’arte in generale. Sono sempre fiducioso, perché l’arte ha sempre lasciato in ogni epoca cose interessanti… a parte l’edilizia degli anni Settanta!».
Emanuele: «Sono d’accordo, nella musica di consumo bisogna setacciare per cercare di trovare qualcosa di buono. Perché è tutto rapido, il video su Tik Tok, i Real di Instagram sono fatti per essere consumistici. Quello che manca è un’idea, un progetto, una ricerca diversa per far sì che l’ascoltatore possa trovare qualcosa di nuovo. In questo rientra il nostro progetto».