Non so quanti di voi abbiano visto al cinema Giorni Felici, il film di Simone Petralia con Franco Nero e Anna Galiena uscito l’11 dicembre scorso. La colonna sonora di questo dramma fatto di silenzi eloquenti girato tra le pareti di un’unica casa l’ha firmata una giovane musicista genovese di stanza a Roma, Ginevra Nervi, 29 anni. Ginevra è una musicista che si dedica all’esplorazione della voce, che filtra, trasforma, studia, elabora grazie alle sue “macchinette”, come chiama gli strumenti che usa per esprimere la sua arte.
Il suo genere è la musica elettronica che, detta così, è tutto e niente. Fare arte attraverso impulsi elettroacustici può sembrare un ossimoro. Nel caso di Ginevra è un mondo onirico e fantastico che riesce a risucchiarti tra morbidi prati sonori e l’uso di pochi strumenti, una chitarra, l’amato basso a quattro corde, un vecchio organo Farfisa, un violoncello. Ho fatto una lunga chiacchierata con lei, dove abbiamo parlato della sua musica ma anche di soundtrack e palchi….
Hai iniziato suonando il basso in gruppi punk rock…come sei arrivata alla musica elettronica?
«Come puoi vedere, il basso a quattro corde è sempre qui accanto a me, lo uso ancora, è la mia valvola di sfogo! L’essermi avvicinata all’elettronica è stata una lenta presa di consapevolezza rispetto a quello che volevo fare. Da ragazzina, prima ancora che dal punk e dal rock, sono stata catturata dal cantautorato: il mio vero sogno era cantare. Mi sono avvicinata al “mondo tecnologico” per un’esigenza tecnica, scrivevo le mie canzoni e volevo metterle su un supporto che per me, nata nel 1994, era l’Mp3. Sono figlia della musica digitale, volevo costruirmi una postazione studio domestica, ma non avevo la più pallida idea di come fare. Un amico fonico mi ha aiutata: “Devi avere una scheda audio, un microfono e un computer”. Così mi sono avvicinata al mondo della registrazione, mi registravo, mi sovraincidevo, facevo esperimenti, pasticciavo con effetti senza avere la più pallida idea di quello che stavo facendo, ero un’autodidatta totale!».
Quindi hai sentito la necessità di approfondire…
«Come musicista acustica mi ha sempre affascinato cercare tutte le potenzialità di uno strumento acustico, registrarlo e settarlo in modi diversi, tirando fuori da quel timbro più colori possibili e immaginabili. Solo molti anni dopo, quando mi sono iscritta al conservatorio, ho iniziato a studiare musica elettronica. L’accademia da questo punto di vista è sempre super ben accetta. Mi sono scontrata con lo studio della programmazione informatica musicale, dell’acustica, dell’elettroacustica, e della storia della musica elettronica. Forse il bello che mi porto ancora oggi degli studi di conservatorio è proprio la storia della musica elettroacustica. E poi, studiando, mi sono resa conto che tante cose le facevo già da prima, mi è servito per ricostruire i pezzi di quello che era ed è il mio percorso».
Che cosa ti affascina della musica elettronica? Il tuo creare parte tutto dalla voce…
«Musica elettronica è una definizione vaga, esistono centomila sottocategorie di questo genere. La matrice della mia musica elettronica arriva dalla voce, è generata da me stessa, ed è lo zoccolo duro del lavoro che cerco di portare sui palchi e nella composizione per immagini. Per me è molto affascinante perché è il timbro primordiale che in qualche modo accomuna tutto il genere umano ed è affascinante ricercarne le sfumature, usandole in forme diverse, ad esempio come percussione. Mi affascina l’utilizzo delle voci nel mondo, nelle culture tribali, utilizzate in diversi momenti e contesti, mi piace indagare la voce dal punto di vista sonoro».
Quando componi da quale strumento parti?
«Parto sempre dalla voce, la prima cosa che faccio è canticchiarmi delle melodie e anche dei ritmi. Dopodiché perfeziono attraverso suoni che genero elettricamente utilizzando synth che sono sul mio sul banco di lavoro da anni oppure attraverso strumenti acustici come basso o chitarra, o ancora utilizzando vastissime librerie di suoni virtuali che ho collezionato nel corso degli anni. Quello che mi piace fare quasi sempre è andare cercare campioni di strumenti, registrazioni ambientali, manipolarli, lavorarci sopra, creando quasi sempre dei paesaggi. Mi piace molto lavorare in prima battuta sullo sfondo. Poi dipende, se sto lavorando su un film o su musica a se stante».
Voce e vista: come sei arrivata ai film?
«Il cinema ha fatto parte della mia educazione fin da piccolissima. I miei genitori portavano me e mio fratello a vedere un film tutte le settimane. Eravamo appassionatissimi di fantascienza, ma soprattutto, una volta a casa, riascoltavamo sempre le colonne sonore, passione che è rimasta a entrambi, anzi, mio fratello è un vero cultore. Quando ho iniziato a fare musica, però, non ho pensato al cinema, forse perché vedevo il mestiere del compositore di colonne sonore come prettamente maschile. Per me è stata un’opportunità, un’occasione: mi ha contatta una regista romana chiedendomi di scrivere la soundtrack di un suo documentario. In conservatorio avevo già fatto esperienze tra cinema e suono. È un’ulteriore sfida, uno step in più che si aggiunge alla composizione pura, fine a se stessa. Credo che un compositore oggi non possa esimersi dal non considerare musica e immagini».
Te lo chiede uno cresciuto negli anni Settanta a pane e rock: non credi che oggi la musica sia un po’ troppo banale?
«Condivido, nonostante siamo di generazioni diverse! Il prodotto artistico di cui fruiamo oggi è uno specchio di quello che è la realtà in cui viviamo. La comunicazione allora neglki anni Settanta era diversa così come lo erano le esigenze comunicative degli artisti. Oggi non ho la più pallida idea di che epoca storica sto vivendo, c’è troppo, c’è tutto. È un magma densissimo di cose connesse e non connesse, dove una si confonde nell’altra, è una “non forma”. Una fase di poche certezze e tantissima confusione. Venendo alla musica: che si sia semplificato il processo di ricerca, indagine e creazione è vero. Oggi con i mezzi di cui disponiamo possiamo fare tutto. A livello comunitario, socialmente parlando, come fa un pubblico assuefatto da questa modalità a distinguere cosa è cosa e chi è chi? È questa la grande sfida per un artista, ed è un atto politico. La verità è che siamo sordi, ciechi, i nostri sensi sono totalmente assuefatti, abbiamo paura di dire in pubblico questo mi piace e questo no».
The Disorder of Appearance, il tuo album uscito nel giugno del 2022, è un disco densissimo, di sostanza. Può piacere o meno – io lo trovo interessantissimo – ma c’è un percorso di creatività…
«Creazione e sperimentazione vanno sempre di pari passo. Il problema, per me, è il tempo: mi chiamano dalla casa discografica dicendomi che serve il disco nuovo. Ma non ho nessun interesse a produrre per produrre. Siamo convinti di avere il tempo troppo corto perché abbiamo deciso di fare tantissimo nelle nostre vite. Siamo dei pazzi! Dobbiamo incominciare a riappropriarci dei nostri spazi, anche banalmente quelli domestici, e del tempo per fare le cose, così finisce che non ti lasci dietro nulla ma nemmeno lascerai qualcosa per chi verrà dopo. Riguardo alle avanguardie italiane nel panorama elettronico ci sono tanti artisti, tanti creativi che fanno un lavoro serio. Non sono conosciuti a livello “comunitario” perché la comunicazione va in un’altra direzione, di un mondo dove devo avere tantissima scelta di prodotti da acquistare. È musica per vendere delle cose, non per spingere un modello di vita, è il consumismo più sfrenato. Forse alla fine succederà qualche cosa, un gigantesco black out dove perderemo tutti i dati della nostra cultura di quest’epoca… resterà la stele di Rosetta, lì da millenni, ma non rimarranno le hit delle top List di Spotify! Per fortuna, forse…».
Già, le piattaforme streaming hanno una bella responsabilità su questo…
«Alla fine non le demonizzerei più di tanto. Ci vuole sempre un equilibrio, sono assolutamente utili per divulgare la musica oggi, perché questo è il modo di farla conoscere, poi uno può decidere di stampare su cd o su vinile. Sta sempre all’utente, se ha la voglia di cercare, indirizzare il suo gusto, selezionare, allora c’è un utilizzo sensato della piattaforma e di conseguenza gli algoritmi cambiano. Se invece ti affidi alla musica suggerita, con una fruizione passiva, allora non ci siamo proprio».
Come vivi il rapporto creativo tra te, musicista, il regista, il montatore?
«Dipende, a volte hai la fortuna di collaborare con persone dove il bilanciamento dei ruoli è perfetto, altre no. Quest’anno sono riuscita a placare il mio spirito un po’ punk che prendeva il sopravvento. In teoria dovrebbe andare così: io produttore o regista contatto uno scenografo perché so che mi darà quella cosa, così come un musicista perché mi proporrà quel genere di colonna sonora. Invece succede che ti ritrovi su un progetto dove capisci che tu non c’entri niente… Il rapporto con il regista è fondamentale, così come lo sono gli scontri positivi, gli scambi di idee e creatività. Il problema esiste quando dall’altra parte c’è una linea piatta, continua. Su Giorni felici abbiamo lavorato molto bene. Sono arrivata a lavorazione avanzata su un premontato già bello corposo. Il produttore Giampietro Preziosa mi ha contattato, lui già mi conosceva, ha fatto ascoltare al regista le mie composizioni, ci siamo scambiati opinioni su reference musicali che potevano aiutare il film, integrarlo con un altro linguaggio, e abbiamo trovato una direzione, la più funzionale, per quello che il film vuole raccontare. Il cinema è fatto di relazione, di scambi».
L’ambientazione di Giorni felici è quasi claustrofobica, il film è stato girato in un unico interno…E poi c’è corrispondenza tra la musica del film e quella del trailer di presentazione!
«Sì, la scelta della musica sui trailer ha stupito anche me, spesso si utilizzano brani che non fanno parte della colonna sonora originale. Invece rappresenta esattamente quello che c’è nel film. In questa pellicola ci sono tanti silenzi, volevamo rispettarli in quanto scelta del regista, e i due attori (Neri-Galiena, ndr) lo hanno saputo esprimere molto bene. Ho cercato di lavorare su un umanesimo estremo, facendo suonare le stanze di quella casa».
Infatti si tratta di suoni più che di tappeti sonori…
«Sì, è una colonna sonora d’ambiente, molto essenziale, ci sono pochi strumenti che suonano, un violoncello, il theremin, un Farfisa vecchissimo. Tutto molto acquoso».
Veniamo al “palco”: meglio quello italiano o europeo?
«Dipende. Tutte le volte che mi è capitato di suonare fuori dall’Italia ho percepito comunque un senso di libertà maggiore, come se io stessa avessi a volte un pregiudizio sul pubblico italiano, sbagliando. L’esterofilia non sempre porta a un granché di buono. Però una cosa che mi ha colpito molto recentemente è l’incisività da parte di alcuni festival nei confronti del pubblico e delle line-up. Ho suonato al Granda Geopark Lights in Spagna e poi allo Sveta Baar di Tallin, in Estonia. Entrambi avevano una line-up che a tratti poteva sembrare rave, in realtà c’erano famiglie che si godevano la loro vita con i figli, bimbi con le cuffie antirumore che ballavano divertiti sotto la cassa dritta del palco. Momenti di pura gioia che mi hanno fatto riflettere: quello che questi giovani genitori passano ai loro bambini è un messaggio bellissimo e cioè che essere genitori non vuol dire rinunciare alle proprie passioni ma vivere felicemente momenti conviviali assieme ai figli. Ne ho parlato anche con mia madre: insegnare ai bimbi che essere genitori è sacrificio è assurdo. Il condividere con i figli un festival è straordinario. La grande differenza sta dunque nel voler essere inclusivi. Per quanto riguarda il feedback del pubblico: all’estero sono meno timorosi di noi, abituati a considerare l’artista sul palco come un qualcosa di irraggiungibile. Dal palco, comunque, ho sempre visto cose positive anche negli angoli più remoti del nostro Paese. L’unico palco respingente per me – e resterà un mistero – è Genova. Te lo dico da genovese, la mia Regione sta vivendo un momento culturale molto difficile. Genova è una piazza difficile perché c’è un pubblico pigro. Per una città così ricca a livello di substrato culturale è triste vedere un pubblico scoraggiato. Eppure il materiale umano c’è, e anche quello musicale. Non ci sono gli output ed è estremamente complesso dialogare con le istituzioni che non hanno la più pallida idea di cosa voglia dire costruire l’industria dell’arte».
Sul palco sei da sola?
«Per ora sì, io e le mie macchinette! Non escludo che un domani potrò avere condividerlo con qualcun altro. È una cosa che ricerco».