Blind. So What? La vita e la musica secondo Ciara Moser

Bastano 38 secondi e tre parole, Blind. So What?, ripetute in tante lingue che, in un crescendo, si fondono e diventano ossessive. In sequenza diretta parte il rullante, secco, veloce, perentorio, seguito da un basso caldo, forte, fluido. Un inizio che dichiara da subito e senza mezzi termini, chi è Ciara Moser: una bassista di 27 anni, cieca dalla nascita, nata per suonare. La musica è la sua passione, la sua vita, la sua luce. Nel progredire delle 12 tracce interamente frutto della sua creatività, un’ora e 6 minuti di ascolto, Ciara dichiara al mondo, in uno stile che potremmo definire Modern Jazz Fusion, il suo punto di vista di donna cieca e di musicista prodigiosa. 

Ho visto Ciara Moser suonare l’anno scorso a Bologna. Era la bassista del pianista Danilo Perez nel tour europeo dove presentava il suo ultimo disco, Crisalida. Con Danilo c’era, la moglie Patricia Zarate Pérez al sax, Francesca Remigi alla batteria (altro talento!) e Ciara al basso, un Fodera sei corde. Mi aveva stupito il modo in cui padroneggiava lo strumento, la semplicità con cui eseguiva passaggi complicatissimi, la naturalezza con cui seguiva le improvvisazioni del maestro Perez, professore al prestigioso Berklee Global Jazz Institute di Boston, sia di Francesca che di Ciara. «Sono davvero brave», mi disse allora Danilo nel retropalco a fine concerto…

Torniamo a Blind. So what?. Uscito il 20 ottobre scorso, è un lavoro di grande impatto, con un groove trascinante, che richiede una conoscenza dello strumento assoluta. Sentiremo parlare molto di questa musicista, virtuosa e passionale. La sua bravura sta proprio nel calibrare, nel non far prevalere il virtuosismo sull’emozione. Ci siamo sentiti e qui vi ripropongo la “chiacchierata”.

Ciara, è un disco con un titolo che suona come una sfida…
«Crescere da cieca ed essere inserita esclusivamente in contesti educativi inclusivi mi ha fatto capire che c’era molto da fare per sensibilizzare le persone con disabilità. I miei genitori mi hanno fatto ascoltare e suonare tanta musica fin da piccolissima, quindi l’essere musicista e cieca sono state la parte fondamentale della mia vita. Quando ho iniziato i miei studi ho notato che dovevo affrontare sfide importanti, innanzitutto scalfire gli stereotipi e le idee sbagliate che le persone nutrivano nei miei confronti nel mondo della musica professionale. Sono un’ottimista di natura, quindi ho cercato un modo per far convivere la mia cecità e la mia abilità di musicista per migliorare la vita ed esprimermi come artista».

Dove sei nata?
«A Dublino, quindi i miei si sono trasferiti in Austria quando avevo 4 anni. Mia madre è irlandese e mio padre austriaco. Si sono conosciuti sulle navi da crociera dove lavoravano come cuoco e cameriera».

Sei cresciuta nella musica…
«I miei genitori non sono musicisti, ma persone appassionate di musica e di cultura. So che da entrambi i lati della famiglia le mie nonne erano molto “musicali”, una di loro era addirittura una musicista professionista che suonava regolarmente nelle orchestre. I miei genitori considerano la musica come parte determinante dell’educazione e, anche se io e mio fratello più piccolo non fossimo nati ciechi (ora lui studia giurisprudenza e canto jazz), ci avrebbero comunque spinti nelle braccia della musica».

Frequentare la Berklee ti ha aiutata molto in questo senso?
«Durante il Master sono stata profondamente ispirata dal tema della musica come veicolo di cambiamento sociale, ho migliorato le mie capacità sia come musicista sia come compositrice. E questo mi ha convinta a condividere il mio messaggio attraverso la musica sotto forma di quest’album di debutto, focalizzato sul mio viaggio nella cecità».

Nel disco si sente che hai lavorato molto sul suono…
«Il mio obiettivo principale in questo progetto è mostrare le mie capacità di esecutrice, compositrice, arrangiatrice e produttrice, di far sentire la mia “voce unica” di musicista in un corpo di lavoro in cui tutto si tiene. Un ulteriore obiettivo era quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla cecità, affrontando gli stereotipi e le idee sbagliate di cui è vittima la comunità dei non vedenti. In definitiva, mettendo in mostra il mio talento musicale e affrontando il tema di come la cecità influisca sulla mia vita, cerco di offrire una motivazione per tutte le persone con disabilità».

Hai un naturale senso dell’interplay tra musicisti. Come fai?
«Essere cieco mi permette di percepire il mondo in modi diversi rispetto alle persone vedenti. Uno di questi è che non sono distratta dalla vista quando suono, posso concentrarmi al cento per cento sulla musica. La connessione con il pubblico assume un significato completamente diverso. Non posso vedere le persone ma le sento, percepisco le loro reazioni e l’atmosfera che si respira. Questo vale anche per l’interplay con i membri della mia band. Non sono in grado di vedere ciò che accade mentre suono, quindi i musicisti con cui collaboro sono portati a trovare altri modi di comunicare con me, musicalmente e acusticamente».

Perché hai scelto il basso come strumento?
«Ho iniziato a suonare il violino a 2 anni e mezzo, perché i miei genitori consideravano dirimente utilizzare la musica per la mia cecità perché sviluppa il senso dell’udito, ma anche perché suonare uno strumento serve alla coordinazione, a prendere consapevolezza del proprio corpo, a formare tutte quelle “abilità sociali” necessarie per condurre una vita normale. Nella mia infanzia ho preso lezioni di pianoforte, percussioni, viola. A 13 anni, con i miei due fratelli minori e alcuni amici di famiglia abbiamo formato una band chiamata Blind Brats, scoprendo che ogni gruppo che si rispetti non poteva fare a meno di un bassista. Così mio fratello, che era il chitarrista del gruppo, e io ci alternavamo al basso. Poiché la chitarra era determinante per tutte la nostra musica, ho finito per assumere io il ruolo della bassista. Da lì sono partita!».

Raccontami di più!
«Poco tempo dopo aver iniziato a suonare il basso, sono entrata al Pop Borg Linz Honauerstraße, una scuola specializzata in musica popolare. È l’unica scuola superiore in Austria che offre una specializzazione in musica pop. Oltre a suonare cover rock e blues e, successivamente, samba, salsa e jazz, gli studenti si concentrano molto sulla scrittura di canzoni e sulla produzione musicale. Alla fine dei quattro anni registrano un disco. Per accedere alla scuola è obbligatoria una conoscenza di base dello strumento principale. Un anno dopo essere entrata in quella scuola mi sono unita al gruppo funk Round Corners, la prima band in cui ho suonato e che si è esibita in contesti professionali. Il loro chitarrista, Andreas Erd, mi aveva scoperto al concerto finale del primo anno. Dopo aver suonato per qualche tempo con loro, Andreas mi chiese di unirmi al suo trio. È stato allora che ho iniziato a dedicarmi a musiche più complesse come la fusion e il jazz rock. Eseguivamo brani di Scott Henderson, Greg Howe, Guthrie Govan e Lettuce. Suonare con quel trio mi ha  stimolato ad ascoltare e suonare musica più complessa, ad approfondire il jazz e altri generi. Durante quel periodo ho frequentato seminari di jazz e big band, dove ho studiato altre aree del jazz. Infine, dopo aver iniziato i miei studi all’Ipop (Istituto di musica popolare dell’Università di musica e arti dello spettacolo) di Vienna, ho continuato a studiare la fusion, la world music e stili più contemporanei».

Quali sono i tuoi progetti?
«Continuare a sviluppare la mia “voce” come artista e attivista per il cambiamento nel campo dell’abilismo. Nei prossimi anni continuerò a pubblicare musica con il mio nome e cercherò di fare tournée e festival presentando questo lavoro. Collaborerò in progetti di altri musicisti e continuerò a svilupparne altri per lavorare all’inclusione della disabilità nel campo della musica. Per esempio, con la creazione di programmi di mentorship per musicisti disabili, l’insegnamento di masterclass in università e college, la creazione di concetti didattici che coinvolgano il mio punto di vista di musicista non vedente e forniscano un risultato educativo, affinché altri musicisti possano vivere la musica in un modo nuovo».

 

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