La Triennale di Milano il 31 ottobre festeggerà la sua Halloween Night con una serata ricca di musica nell’alveo di JazzMi. Un modo per nulla banale, consono al luogo e a quello che rappresenta per la cultura milanese.
Ad aprire la festa con un doppio appuntamento sarà un giovane pianista jazz bolognese di appena 20 anni, Francesco Cavestri, oltre al caleidoscopio ritmico di Don Karate, moniker di Stefano Tamborrino, bravo batterista fiorentino, la Sun Ra Archestra, jazz band attiva fin dagli anni Cinquanta – fu fondata dal mitico musicista americano morto trent’anni fa – e ancora in attività. La notte chiuderà con un dj set di Populous, al secolo Andrea Mangia, producer e dj salentino.
Oggi mi interessa presentarvi Cavestri, per molti motivi tra questi, la sua bravura e la sua visione della musica, del jazz in particolare. Un giovane uomo ricco di talento con il quale è bello discutere di arte e musica, dotato di una solida cultura, appassionato quanto curioso. Francesco sarà in Triennale con un doppio ruolo, di “insegnante” in una lezione-concerto dal titolo Jazz e Hip-Hop due generi fratelli e con un concerto con il recente trio che ha costituito assieme a due giovani e richiesti musicisti, il bassista Riccardo Oliva e il batterista Joe Allotta.
I brani che il Francesco Cavestri Trio proporrà sono tutti opera del pianista bolognese tratti dal suo disco uscito nel marzo dello scorso anno Early17 e da quello che pubblicherà nei primi mesi del 2024. L’interesse per le contaminazione e per come queste forme si sviluppano inevitabilmente al di là dei confini, delle guerre e della politica gridata è il fulcro di questo incontro. Jazz e Hip-Hop sono fratelli, figli degli stessi padri e madri, di un fermento nato tra la povertà e le leggi razziali, musica di unione, di provocazione, di comunità. «Chi ascolta oggi rap e trap dovrebbe conoscere da dove proviene, la storia insegna molto, la curiosità è fondamentale», mi spiega Francesco con il suo modo veloce e preciso di parlare.
Jazz e Hip-hop le tue passioni racchiuse in una lezione?
«È una lezione-concerto, in cui tra le altre cose racconto come per il jazz anche l’Hip-Hop abbia avuto le sue origini dai ghetti, principalmente da persone afroamericane che si trovavano in crisi totale nel Bronx di fine anni Sessanta e dei primi anni Settanta. Come per il Jazz anche l’Hip-Hop è un genere che nasce dall’incontro di più stili e più riti e che discende direttamente dal primo. Così come il Jazz ha influenzato molto altre forme artistiche come il cinema e la letteratura, così anche l’Hip-Hop si è espresso attraverso i graffiti, lo stile, il modo di vestire. Generi con le stesse origini sociali, politiche e musicali che hanno avuto questa capacità di andare a intaccare più forme d’arte ed espressione».
Come ti sei appassionato al jazz?
«Ho iniziato a suonare a quattro anni, ho fatto, dunque, tanti anni di pianoforte classico. Ti dico ciò per spiegarti che il Jazz – come la musica elettronica – non è un genere che decidi di suonare. Per suonare Jazz è necessario saper dominare lo strumento, e per fare questo devi passare inevitabilmente dagli studi classici. Io ci sono arrivato alla fine delle scuole medie ed è stato un incontro fulminante. Ricordo di aver ascoltato Kind of Blue di Miles Davis e il pianismo di Bill Evans che mi hanno aperto le strade a questo genere fantastico. Poi è stato un susseguirsi di scoperte. Prima il jazz tradizionale – che poi tradizionale non era proprio, visto che tanti musicisti hanno portato evoluzioni epocali al genere – quindi sono arrivato a un pianismo più contemporaneo con Herbie Hancock e Chick Corea, per giungere infine a quella che forse è stata la vera propulsione per il mio linguaggio artistico, ovvero l’incontro del Jazz con altri generi come l’Hip-Hop, che si incarnavano in Robert Glasper, Jay Dilla, di nuovo Herbie Hancock e quello del jazz con la musica elettronica, attraverso sempre Glasper, Kamal Williams, i Floating Points (collettivo di dj che lavora molto sul suono jazz e il rap), Four Tet – ultimamente mi sono molto appassionato alla musica inglese».
Hai 20 anni, i tuoi coetanei ascoltano un mainstream poverello non trovi?
«C’è una forte normalizzazione e poco pluralismo in generale».
Perché secondo te?
«Siamo poco abituati a guardarci indietro, il che è paradossale per un Paese che è culla della cultura occidentale. La musica trap, per esempio, non è altro che uno dei sottogeneri dell’Hip-Hop e l’Hip-Hop da dove deriva? Dal Jazz. Se tu ascolti la Trap, va benissimo, ha la sua estetica del tutto rispettabile come tutti i generi, però, mi chiedo: come fai ad ascoltarla se non conosci tutto quello che c’è stato prima, non dico arrivare a Bach e Stravinskij, ma agli artisti l’hanno generata direttamente. Mi capita sempre di più nei concerti, soprattutto in quei luoghi, come la Triennale, che hanno una frequentazione generazionale trasversale, che vengano da me giovani, miei coetanei che mi ringraziano di avergli fatto conoscere una musica che è piaciuta tantissimo, dalla quale si sono sentiti attratti. I miei brani hanno presa perché, di fondo, c’è un linguaggio a loro più familiare. Per esempio uso un pezzo di Kendrik Lamar, rapper molto seguito, reinterpretato unendoci un brano dei Radiohead o uno di Ennio Morricone. Un arrangiamento che propongo sempre nei miei concerti è Naima di John Coltrane: la unisco a un brano dei Radiohead e aggiungo anche uno di Ennio Morricone o di Ryūichi Sakamoto. Secondo me il trucco è sempre guardarsi indietro. Capire da dove deriva ciò che ascoltiamo è indispensabile. Vale per la musica ma anche per il cinema, arte che mi appassiona particolarmente. Per questo il 31 in Triennale suonerò un tributo a Federico Fellini visto che, proprio quel giorno, ricorre il trentennale della sua scomparsa. È un brano che ho scritto intorno un monologo tratto da La Dolce Vita».
Questo è un momento di passaggio per la musica, nonostante tutto quello che sta succedendo nel mondo?
«Secondo me sì, per due ragioni. La prima è che in anni di grandi crisi o successivi ad anni di grandi crisi la cultura ha sempre reagito facendo da via di fuga e da chiave di soluzione per problemi che sembravano insormontabili e che purtroppo la politica, per i suoi limiti, non riesce a risolvere. La seconda è che l’incontro di più culture può favorire l’unico mezzo civile, pacifico per parlare lingue diverse. Se scendiamo nello specifico del panorama italiano c’è possibilità di raccontare una storia, una musica diversa. In Italia ci sono produttori straordinari come Mace (Simone Benussi, ndr), bravissimo, il livello è molto alto, ma l’offerta è spesso omologata, c’è poca varietà. C’è anche l’esigenza di provare qualcosa di diverso e di farlo arrivare a un pubblico ampio. Lo spazio e la possibilità di portare un vento fresco, dunque, c’è. Abbiamo esempi straordinari, prendi Ennio Morricone, musicista di formazione classica che s’è contaminato con la musica leggera diventando leggenda».
Suonerai in trio con Riccardo Oliva e Joe Allotta, giusto?
«Riccardo al basso e Joe alla batteria sono entrambi siciliani, quella regione si conferma una fucina di talenti come del resto lo sono la Puglia e la Sardegna. Entrambi fanno parte delle eccellenze: Riccardo Oliva è uno dei bassisti più richiesti a livello europeo, ha 25 anni, è un ragazzo che lavora moltissimo sugli incroci tra Jazz e musica elettronica. Joe ha 26 anni ed è un punto di riferimento riconosciuto nella contaminazione tra Jazz e Hip-Hop, è il batterista di Davide Shorty. Sono due musicisti che ho scelto per la loro versatilità e per come viaggiano tra generi che amo moltissimo e che voglio unire sempre di più».
Che programma presenterete in Triennale?
«Faremo alcuni brani contenuti nel mio album Early17 e altri che sono previsti nel mio nuovo album in uscita il prossimo anno, dove c’è anche la collaborazione di Paolo Fresu in un brano».
Cosa mi puoi dire del nuovo disco?
«Uscirà all’inizio del 2024, è stato prodotto “in solo”, tracce in cui resta centrale la composizione originale. In alcuni brani, come ho fatto nel primo disco, cito elementi contenuti in lavori di artisti che mi hanno influenzato, come Teardrop dei Massive Attak, o in un altro brano che porto in live da po’ e che ho deciso di registrare, ed è quello che suonerò in Triennale di cui ti parlavo prima, Naima di John Coltrane fuso con Everything in its Right Place dei Radiohead, con un arrangiamento che lo fa diventare un brano inedito. E poi il pezzo in cui suona Fresu: ci tengo particolarmente sia per la presenza di Paolo ma anche per come è stato costruito, per come l’ho composto, una prima parte morriconiana, molto melodica, dedicata al maestro, e una seconda più elettronica, che apre con il campionamento di una frase pronunciata da Miles Davis durante un’intervista. Il brano chiuderà il disco e darà il titolo anche all’album».