Ritorno dopo la pausa ferragostana per parlarvi di jazz e territorialità. Un discorso che avevo affrontato nel novembre dello scorso anno con Paolo Fresu e che torna di nuovo su questo blog grazie a Guido Coraddu, 50 anni, pianista cagliaritano di grande raffinatezza e studio. In questi anni di Musicabile ho conosciuto e incontrato tanti artisti e un buon numero di questi, soprattutto jazzisti, viene dalla Sardegna o dalla Sicilia. Perché? Un motivo antropologico ci sarà di sicuro, possiamo invocare semplicemente il “fattore isola”, territorio per forza di cose a sé, ma anche il mare che le circonda, che ha aperto la via a popoli, culture, tradizioni diverse che poi si sono fuse in un mix unico, dando vita a una propria e definita carta di identità.
Guido Coraddu ha pubblicato il 20 maggio scorso Miele Amaro, lavoro di grande spessore; musicale, innanzitutto, perché ha riscritto per pianoforte, il suo strumento, partiture composte per molti altri strumenti… Ma anche culturale: il fatto di aver raccolto 13 titoli (l’ultimo, Pensamentos, è una sua composizione), di jazzisti sardi che, in in oltre quarant’anni, hanno scritto la storia musicale dell’isola. Non solo dal punto di vista strettamente jazzistico, ma anche storico, dove si intendono strati di cultura e tradizioni ancestrali, quelle, appunto, che rendono unico il sound sardo.
Un lavoro certosino, che gli ha creato non pochi problemi nella scelta degli artisti, in quella dei brani, nella riscrittura, nello scontrarsi inevitabilmente con le critiche che più o meno apertamente gli sono piovute addosso. Tutto previsto e gestito al meglio, dopo l’ascolto di Miele Amaro, disco che, volutamente, porta lo stesso nome di un libro importante per chi è nato sull’isola, scritto dallo scrittore e giornalista Salvatore Cambosu, cugino di Grazia Deledda, nel 1954.
Un album, dunque, che racchiude una narrazione su più piani, sociale, storico, emozionale, etnografico, non ambizioso piuttosto, esegetico. Non è da tutti raccontare con un solo strumento musicale, per quanto affascinante come il pianoforte, l’estro di un Paolo Fresu (Another road to Timbuktu), l’esuberanza eclettica di Antonello Salis (Hola), l’espansione sonora della chitarra preparata di Paolo Angeli (Linee di fuga), l’incisività emozionale di Gavino Murgia (Pane Pintau )…
Un consiglio per chi non conoscesse i brani scelti da Coraddu: dedicatevi a un doppio ascolto, la versione originale e quella riscritta del pianista cagliaritano, solo così si avrà accesso a quel mondo che Cambosu aveva sintetizzato in quelle due sole parole, Miele Amaro.
Prima di incontrare Guido, un’ultima annotazione: la cover richiama direttamente a un altro famoso figlio di questa terra, lo scultore Costantino Nivola. Modernismo e arte nuragica, studi all’avanguardia e storia, utili a comporre un’identità sarda. Tutto si tiene…
Le isole maggiori italiane sono una fucina di musicisti…
«La Sicilia ha 5 milioni di abitanti, la Sardegna appena un milione e mezzo. Il fattore numerico pesa a nostro sfavore, tranne che per una cosa, il jazz. Probabilmente perché in Sardegna da molti anni si tengono tanti festival importanti. Sono cresciuto ascoltando i più grandi maestri arrivati qui da tutto il mondo…».
Il jazz è diventato un’identità sarda?
«Se dovessi analizzare la questione da un punto di vista stilistico, la poliformità è tale che è davvero difficile trovare qualcosa che indichi un peculiare jazz sardo. La musica jazz si basa improvvisazione, esprime il bagaglio personale di ciascun musicista. Prendi Paolo Fresu: nel suo scrivere musica non fa molto ricorso alla sua matrice culturale. Così anche Antonello Salis, la sardità emerge dal loro essere. A mia volta, anch’io sono un jazzista sardo ma non ho trovato un genere, in definitiva, non l’ha trovato nessuno. Enzo Favata (è uno degli artisti presenti nell’album di Coraddu con Contami unu Contu, assieme a Marcello Peghin, ndr) mi ha detto che è un lavoro incoerente, ma questa è la nostra peculiarità!».
Sempre sull’identità, il titolo Miele Amaro e il richiamo voluto a Cambosu cosa rappresentano per te?
«Salvatore Cambosu ha tentato di costruire una cultura sarda, il suo Miele Amaro è un insieme coerente di lavori. Il corpus di elementi rappresenta l’essere sardo. Un libro scritto soprattutto per i sardi. Con il disco volevo dimostrare come la musica, in questo caso il jazz, rappresenti all’interno dell’isola stessa un insieme coerente di quel genere, che, come dicevo prima, non si rifà solo alla musica tradizionale, è una delle tante strade, ma che bene rappresenta uno degli aspetti culturali della Sardegna oggi».
I jazzisti che hai scelto sono di varia estrazione…
«Lavorando nei canoni del jazz entrano in gioco microvalutazioni. Ognuno degli artisti che ho scelto ha la sua storia che viene da lontano. Per esempio, Marcello Melis ha alle spalle un lavoro sperimentale di compenetrazione tra jazz e musica sarda, così come Riccardo Lay il cui lavoro ha trovato diverse soluzioni. Invece Massimo Ferra nel suo trio vive la sardità non richiamando suggestioni ma confrontandosi per esempio con una persona (La Strana Storia di Teddy Luck, ndr), perché qui, sull’isola, guardi e ti confronti con la gente che incontri)…».
Non deve essere stato facile scegliere i brani…
«È stata una delle scelte più complicate. Per ogni autore ho deciso di non attingere dall’ultima fase artistica ma di preferire pezzi d’inizio carriera che avessero lasciato qualcosa nel tempo. Un altro aspetto non trascurabile è stato trascriverli per pianoforte solo: ho usato le mie conoscenze di pianismo fino in fondo».
Che ritorno hai avuto dagli autori?
«Qualcuno era un po’ perplesso, perché avrebbe preferito che trascrivessi qualcosa di più contemporaneo, attuale. Avrebbe però perso il senso dell’operazione che stava alla base del disco. È il mio primo album di piano solo, ho lavorato per due anni, durante i lockdown».
Le improvvisazioni?
«Ho stabilito gli elementi generativi, sono libere ma comunque guidate: il controllo degli elementi tematici è sempre presente, uso momenti di tensione e rilascio, elementi ritmici e armonici… La definirei un’improvvisazione fortemente razionale».
C’è un brano tra quelli scelti la cui trascrizione non ti ha soddisfatto fino in fondo?
«È stata un’operazione molto complessa. C’è quello di Paolo Angeli: lui suona con la chitarra modificata, due set di corde sui quali ha montato dei motori: è veramente difficile. Non lo sento consolidato, è un pezzo che continua a evolvere».
Cosa stai ascoltando in questo momento?
«Molto Brad Mehldau, è un punto di riferimento; c’è un altro musicista che mi piace ed è un pianista spagnolo, Moisés Sánchez. Sono anche un appassionato storico di Frank Zappa. Il mio repertorio classico, invece, va da Šostakóvič a Debussy, Bartók, Berio…».