Cos’è la musica? È una domanda che mi pongo spesso. Credo sia uno dei quesiti più difficili a cui dare una risposta. Un po’ come interrogarsi sul perché sia nato il mondo o quale sia il mio ruolo nel tutto, ammesso che ogni cosa si tenga, seppure apparentemente in modo più anarchico che ortodosso. Sul ruolo della musica nella mia vita potrei scrivere per ore, perché la musica è sangue che fluisce, cuore che accelera, anima che danza… emozione.
Nella mia personale ricerca su cosa sia la musica, mi sono imbattuto in Franco Mussida. Il mitico ex-chitarrista della PFM e presidente-fondatore del CPM Music Institute (il ministero dell’Istruzione l’ha riconosciuto come Istituto di Alta Formazione) ha più di una risposta alla mia domanda. Ha passato una vita a cercare ragioni fisiche, semantiche, psicologiche, “religiose” nel senso più laico del termine del suono e della musica. Che fa parte di noi come la parola, uno spazio fisico e mentale illimitato, un universo di sensazioni che si decodificano in emozioni.
L’evento di domenica prossima, 24 luglio, Canzoni per renderci migliori, al Castello Sforzesco di Milano (ore 20:45, prenotazione obbligatoria qui) – ve lo raccomando – è già una delle risposte a questa mia domanda. Sul palco ci saranno un centinaio di allievi del CPM, che eseguiranno brani significativi della musica popolare italiana e anche pezzi non italiani di risvolto più sociale dai Pink Floyd a Michael Jackson. Il loro desiderio di trasmettere conoscenza viene riportato in circolo, offerto agli spettatori, è così che l’emozione si diffonde, che la musica vive.
Franco mi aveva incuriosito non poco il 21 giugno scorso con un convegno organizzato nel Teatro CPM dal titolo Ruolo del Suono e della Musica nella Società Contemporanea: L’energia della Musica nella sua capacità di costruire socialità e moralità. Un tema bello denso. Sono andato ad ascoltarlo con molte aspettative, perché lì sicuramente avrei potuto trovare un po’ di risposte alla mia domanda di partenza. Assieme a Franco Mussida c’erano, con contributi video o in presenza, Pietro Buffa (Provveditore della Lombardia e Docente presso l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari), Livio De Santoli (Prorettore alla Sostenibilità dell’Università degli studi di Roma La Sapienza e Presidente di FREE, il Coordinamento Fonti Rinnovabili ed Efficienza Energetica), Flavio Antonio Ceravolo (Professore associato di sociologia all’Università degli studi di Pavia, Responsabile del corso di laurea magistrale in Comunicazione Digitale), Augusto Sarti (Professore ordinario del Dipartimento di Elettronica e Informazione e Bioingegneria al Politecnico di Milano e Coordinatore della Laurea Magistrale in Music and Acoustic Engineering, direttore del PoliMI Musical Acoustics Lab) e, come rappresentanti del Movimento Beni Comuni, Andrea Rapaccini (presidente di Music Innovation Hub), Johnny Dotti (pedagogista e imprenditore sociale) e Mauro Magatti (sociologo ed economista, professore ordinario all’Università Cattolica di Milano).
Sono state quasi tre ore di dialoghi, interventi, inframmezzati da sofisticati ricami sonori di allievi della scuola. La musica è stata la protagonista diretta e indiretta di questo prezioso tempo dove Franco ha collegato tutti i punti, a formarne una figura precisa, che è fatta di energia, spazio, tecnologia, futuro, la costruzione greca delle muse, sorelle tutte indispensabili come descritte nella Teogonia esiodea. Una visione plastica che, in un coup de théâtre, ha trovato forma in un’allieva che ha cantato senza microfono (c’era stato un blackout elettrico, e per fortuna!): Selam, giovane donna con un timbro di voce raro. In quei minuti di canto puro, non filtrato, ho trovato riassunte tre ore di conferenza. «La prima volta che l’ho ascoltata cantare ho pianto», mi dice Franco.
Musica = alfabetizzazione emotiva, mi sono annotato quel giorno sul taccuino.
Raggiungo Mussida nella sede della CPM. Lo trovo intento al computer a preparare i testi e rivedere le fasi del concerto che si terrà domenica prossima. Come poltrona una fitball, finestre aperte, una stanza luminosa.
Ho seguito con piacere il convegno di giugno, molto molto interessante…
«Vero? Vedilo anche come una provocazione, ancora aperta».
Mi ha colpito l’intervento di Livio Santoli sull’energia. La musica è energia…
«Lo scorso anno ha pubblicato un libro molto interessante, Energia per la gente. Il futuro di un bene comune (Castelvecchi, pp. 175, 16 euro, ndr), dove alla fine di ogni capitolo consigliava un brano, a formare una vera e propria playlist per ribadire che il ruolo della comunicazione vale sempre di più se viene da chi ha una sensibilità artistica forte».
Il tema dell’energia è fondamentale in questo momento…
«L’energia è importante nel creare una società migliore. Ma non è solo l’energia fisica, quella che l’uomo ricava da tutto ciò che può, c’è anche un’altra energia, quella che l’uomo porta dentro di sé e che molto spesso non consideriamo quasi mai. La mia intenzione, in quel convegno, era di andare a fondo sul perché l’opera degli artisti sia una forma di energia».
L’energia interiore viene usata molto poco.
«Perché non c’è l’obiettivo di lavorarci, di orientarla al meglio. Soprattutto in questo periodo dopo quello che è successo negli ultimi due anni. Si fa fatica a far convivere la scienza, di fatto, oggi, la nuova religione, con l’arte, che non è solo una bella opportunità per fermarsi a riflettere, ma lei sì dovrebbe essere la religione dei laici, il ponte che ci permette di andare oltre la scienza nel rispetto di quest’ultima».
E la musica, tra le arti, è quella che aiuterebbe di più in questa ricerca dell’energia interiore?
«Sì, soprattutto in territorio educativo. La musica, dopo il corpo, è la cosa più pesante che abbiamo e noi esseri umani ce l’abbiamo in dote. A differenza degli animali, noi uomini viviamo di pulsioni e non di istinto, quindi, possiamo scegliere. Il leone o il castoro resteranno quelli per tutta la vita uno farà il predatore l’altro costruirà le dighe, noi, invece, possiamo incidere, cambiare».
Mi puoi dare una definizione di musica?
«La musica è vita vibrante, amore vibrante, parte costitutiva della nostra emotività. È uno strumento di comunicazione».
E i musicisti cosa sono?
«Gli psicologi degli psicologi! La musica offre pure intenzioni emotive e il musicista le vive, le sente, le trasmette. Sono 35 anni che studio, lavoro e faccio ricerca sull’ascolto emotivo consapevole. Ho iniziato nelle case di detenzione, a San Vittore e nel carcere di San Patrignano e poi in tante altre realtà. Siamo ancora in questi posti, è un lavoro che dà ottimi risultati».
La musica, dunque, ha anche un potere terapeutico? Ritorno al rapporto scienza e arte…
«Certo, la musica incide sulla tua rabbia, sulla tua emotività, aiuta, cura. Abbiamo affidato tutto alla scienza perché ci è più comodo. Penso, invece, che un po’ di buon senso non faccia male, non puoi uccidere la storia, il nostro passato. Lo sforzo educativo dovrebbe essere triplo rispetto a quello messo in campo dalla tecnologia. Credo che più tu dai per supposte delle libertà più devi educare alla libertà».
Cioè dobbiamo ascoltare più noi stessi, le nostre pulsioni e intuizioni, imparare a conoscerci meglio senza demandare ad altri il conoscerci…
«Se ci pensi bene noi siamo fatti di musica, nel senso che vibriamo, siamo essere fisico, intellettuale, emotivo. Crediamo che la sorgente prima della nostra percezione sia il cervello…».
Invece?
«Invece abbiamo due strade, la conquista fisica e quella spirituale dell’universo e del mondo che io traduco in coscienza del tutto. Una non può esserci senza l’altra e questa unione ha un nome: armonia. Ovvero l’equilibrio tra gli opposti».
Che la musica spiega e traduce alla perfezione!
«In una triade maggiore vibrano tre intervalli, il fondamentale, la terza e la quinta giusta… Non sono avvertite singolarmente, ma vibrano insieme. Noi esseri umani abbiamo una laringe sola, siamo monofonici, per vibrare insieme, comporre un accordo, abbiamo bisogno di altre persone…».
La musica è, in sostanza, la vita stessa dell’uomo, essere con pulsioni che stanno fuori dagli schemi dell’istinto?
«Sì, questo è un momento complicatissimo, dove si deve provare a unire e non dividere. Ognuno di noi deve prendersi le proprie responsabilità. Noi siamo una generazione che se l’è goduta alla grande e che ha dato poco alle generazioni che sono venute dopo. Dobbiamo rimediare. Dividere non ha mai fatto bene a nessuno. La musica come essenza non separa ma unisce. Poi, sui testi che ci puoi mettere sopra è un altro discorso, ognuno si assume le proprie responsabilità».
Stai parlando di qualsiasi tipo di musica?
«La forma musicale è relativa, la cosa importante per me è trovare un’identità non solo per come si suona ma per quello che proponi. Con la Pfm avevamo un vasto seguito perché comunicavamo qualcosa al di là delle capacità tecniche. Ho notato che più siamo cresciuti nella parte tecnica – un passo obbligato per chi fa il musicista – più il pubblico si è allontanato… Dunque, abbiamo bisogno di empatia. Il nostro lavoro qui a scuola è quello di far innamorare i ragazzi della musica. Prendi Selam, quando l’ho ascoltata – incontro singolarmente tutti gli allievi un paio di volte l’anno – ho pianto, mi ha toccato profondamente».
Non tutti i musicisti risultano empatici…
«Se un musicista non ha una visione di ciò che vuole comunicare non lo puoi definire un artista. Può possedere una tecnica eccellente ma, senza questa visione, resta solo un bravo esecutore. L’artista, invece, crea un ponte, dev’essere un visionario, avere due occhi che guardano il presente e due occhi nascosti, i più importanti. Franco Battiato era un artista, un visionario che raccontava le sue visioni!».
Cosa pensi della musica attuale, quella mainstream in ascolto nelle radio?
«Penso che ogni generazione sia figlia delle opportunità sonore e culturali del momento. La tecnologia oggi ha una parte importante nella musica. I ragazzi la usano senza però conoscere, perché non l’hanno vissuta, tutta la parte analogica del suono. Non è colpa loro, semmai nostra che non siamo riusciti a spiegare la differenza tra digitale e analogico. Dunque, non possiamo prendercela con loro. Semmai dobbiamo chiederci come possiamo aiutarli: per ogni passo avanti nella tecnologia bisognerebbe farne tre in più nella formazione».