Monique Chao: il Subconscious Trio e le forme dell’acqua

Oggi vi racconto una bella storia. Di musica e amicizia, Tre giovani musiciste che si sono conosciute al conservatorio di Milano e che non si sono più lasciate. Una la conoscete già, ve ne ho parlato spesso, si chiama Francesca Remigi, batterista talentuosa che dopo un perfezionamento alla Berklee School of Jazz di Boston ha deciso di vivere negli States, a New York. L’altra è una ragazza bulgara, Victoria Kirilova: il suo strumento è il contrabbasso che suona meravigliosamente, vive e lavora a Vienna. Last but not least, una cantante e pianista taiwanese, Monique Chao, che ha scelto Milano come casa.

Esperienze, culture diverse, passione per la musica, soprattutto per il jazz, le hanno portate a costituire, ormai sette anni fa, ancora studentesse, il Subconscious Trio, formazione che ha dato alla luce il suo primo lavoro in uscita proprio oggi, che porta un titolo, Water Shapes, le forme dell’acqua, perfetto, oserei, autobiografico.

Il trio proprio in questi giorni è impegnato in una serie di concerti che le porterà dall’Austria in Italia, al Gezmataz Festival di Genova e al Lucca Jazz Donna Festival.

Mi ha incuriosito molto Monique. L’ho vista suonare con Francesca all’Après Coup di Milano assieme al contrabbassista Giacomo Marzi. Il suo modo di cantare, la sua voce profonda, il suo approcciarsi al pianoforte, un dialogo continuo, mi hanno incuriosito non poco. Così, come faccio ormai da tempo, l’ho contattata per farmi raccontare la sua storia.

Diplomata in canto a Taiwan, arrivata in Italia per amore, ha scoperto il jazz: s’è iscritta al conservatorio di Milano, s’è laureata in piano jazz e con lode in composizione, scrive partiture per Orchestra e per Big Band, una delle sue grandi passioni, e guarda al mondo con un sorriso contagioso.

Monique, innanzitutto perché proprio Milano, l’Italia?
«Sono arrivata per amore, un ragazzo calabrese. Devo però ringraziare il vostro Paese perché mi ha fatto innamorare anche del jazz. Rispetto a Taiwan, l’ambito jazzistico italiano è molto più sviluppato. Musicalmente veniamo formati ancora con una rigida educazione classica, su questo siamo bravissimi. Nel jazz siamo ancora “freschi”, ci sono pochissime università con un dipartimento jazz, un paio, tre al massimo».

È un problema culturale?
«In realtà è strano, perché noi taiwanesi siamo sempre stati affascinati dalla cultura musicale europea. Per esempio, ci sono tantissimi appassionati d’Opera lirica, viene accettata più facilmente perché si pensa sia la via più tradizionale, corretta. Il jazz, soprattutto come studio, è stato più difficile da accogliere. Negli anni Settanta e Ottanta era visto come una novità. Ora, grazie a una nuova generazione di musicisti trentenni, come me, è stato sdoganato. In Italia credo di essere l’unica jazzista taiwanese, mentre ci sono tantissimi colleghi che, dopo aver studiato in Europa sono tornati a casa, portando una ventata d’aria fresca, importando un jazz classico, tradizionale, degli anni Venti del Novecento, ma anche quello contemporaneo».

Stanno educando il Paese…
«Sì, negli ultimi sei, sette anni c’è stato un forte interesse da parte degli studenti del Conservatorio per il jazz. Gli insegnanti sono miei giovani colleghi, molto appassionati nello sviluppare un nuovo linguaggio musicale. I corsi stanno crescendo a una velocità incredibile. Una volta a settimana anch’io insegno in streaming in una scuola jazz».

Da musicista cosa vedi nel jazz?
«Una creazione, l’esposizione di un linguaggio molto personale. Per me sarebbe più facile suonare e avere seguito nel canto e nella musica classica. Con un limite: canti e suoni musica di altri, mentre nel jazz puoi presentare una tua musica. Trovo interessante che questo genere ti permetta di creare un linguaggio individuale, identificativo e creativo. È un modo per mostrami al pubblico attraverso il mio carattere, comunicare quello che sento, anziché diventare una virtuosa che cerca una anonima perfezione».

Il tuo modo di cantare è unico, risente dei tuoi studi classici e del tuo imprinting orientale, dunque frutto di una fusione più complessa, con un’escursione vocale che parte da bassi profondi ad acuti sottili…
«È vero! Posso sempre dire che non trovo qualcuno con la voce simile alla mia. In questo sono unica! Ho tanti interessi: il canto, lo studio del pianoforte, la composizione, sia per orchestra sia per big band. Quando insegno, soprattutto canto, non mi stanco mai di ripetere ai miei allievi che se qualcuno ti dice che sembri Billy Holiday o Ella Fitzgerald, non lo devi considerare un complimento, vuol dire che non sei riuscito a tirare fuori quello che hai veramente dentro. Se un giorno qualcuno, sentendo i miei album, riuscirà a distinguere il mio stile, la mia voce, vorrà dire che sono sulla strada giusta».

Corretta osservazione…
«Mi dà quasi fastidio se mi dicono che canto come qualcun altro. Non è lo spirito del Jazz. Ecco perché mi trovo bene con il Subconscious Trio: con Francesca e Victoria siamo soprattutto grandi amiche».

Dove vi siete incontrate?
«Ci siamo conosciute a Milano, al Conservatorio. Francesca e Victoria sono più giovani di me, siamo diventate amiche così, spontaneamente, abbiamo legato subito. Così mi son detta: “Caspita, io sono una pianista, Victoria una contrabbassista e Francesca una batterista. Siamo un trio perfetto!».

Siete tutte compositrici, con passioni diverse: Francesca è votata al jazz contemporaneo, Victoria è in cerca di strade sempre nuove, tu vieni da una matrice classica…
«Abbiamo iniziato a suonare fin dal 2015: eravamo alle prime armi, non sapevamo come far dialogare gli strumenti in modo efficace. Dalla nostra avevamo una solida amicizia. Poi, credo molto nel destino. Insieme siamo molto creative, anche se non ci vediamo spesso perché Francesca abita negli Stati Uniti e Victoria a Vienna, ognuna di noi continua a comporre per il trio e quando ci vediamo “fondiamo” i nostri lavori».

Il Subconscious Trio: da sinistra Victoria Kirilova, Francesca Remigi, Monique Chao – Foto Arianna Ciattini

Il jazz è per lo più un ambiente maschile. Solo da pochi anni si vedono musiciste protagoniste…
«È un’osservazione che voi giornalisti mi fate spesso. Seguita da altre, del genere: sei una musicista femminista? Prima di questa generazione tantissimi brani jazz sono stati scritti da musiciste, che spesso non apparivano. Oggi è diverso, sono contenta che ci siano compositrici, artiste, musiciste. Alla fine, però, per chi cerca musica di qualità, non importa il genere. Se tutti la pensassero così sarebbe un mondo perfetto».

…E bellissimo!
«Quando abbiamo iniziato eravamo insicure, ancora “scarse” quanto a tecnica. Ci stava che chi ci ascoltava non apprezzasse. Capita a tutti i musicisti, noi ci sentivamo molto frustrate per questo. Ma abbiamo insistito. Mi sono resa conto di essere diventata brava, abbiamo preso consapevolezza della nostra preparazione. E ho pensato che nei musicisti c’è una bravura, a prescindere dal sesso. Solo così la gente ti porta rispetto e ti ammira e ha voglia di ascoltare la tua musica, perché questa viene dal cuore. È la dignità del musicista».

A Taiwan ti sei diplomata al conservatorio in canto. Poi sei venuta a Milano e ti sei iscritta a pianoforte jazz, una bella forza di volontà!
«Sono passata dal canto e dalla musica classica allo studio del pianoforte jazz. Sono stata molto criticata per questo. Però sono andata avanti, sentivo che era la strada giusta. Solo due persone mi hanno sempre sostenuta: Francesca e Victoria. “Noi crediamo in te”, mi dicevano. Ne ho tratto un insegnamento che ora trasmetto ai miei allievi. Se ci credi sei come un seme che diventa una piantina e dopo si fortifica e si trasforma in albero. Ho creduto e voluto diventare una pianista, e ci sono riuscita. Se hai dubbi su te stesso e sulle tue capacità non andrai mai lontano».

Raccontami di Water Shapes, il vostro album fresco di giornata!
«Abbiamo iniziato a pensarlo un anno prima della pandemia. Poi ho avuto gravi lutti in famiglia, e si è sommato il primo lockdown. Così ho iniziato a comporre. L’anno scorso Francesca è arrivata dagli States. Ci siamo incontrate nonostante il lockdown, dovevamo vederci, parlare di musica, confrontarci! Con Victoria in videochat da Vienna ci siamo dette: “andiamo avanti, abbiamo tutte dei brani composti, facciamo il disco!”».

Componi da poco, quindi?
«Sì, da circa tre anni. Con tutto quello che mi era successo in famiglia, poi il lockdown ho scritto la mia composizione jazz da presentare al Conservatorio. Pino Iodice, il mio severo maestro di composizione, che considero un padre, mi ha fatto i complimenti perché ascoltandolo ha visto una luce in quel periodo di chiusura e pandemia. Se sei capace di comporre puoi portare gioia e speranza per gli altri, mi ha detto».

Quindi Water Shapes racchiude tutti i vostri sentimenti in questi anni difficili…
«Sì, è così! È un disco democratico dove ci sono le fantasie, i sogni, le pazzie, le esperienze di tre donne. È il frutto di una grande amicizia. Qui dentro ci siamo noi, la sensibilità di Francesca, il coraggio di Victoria, le mie esperienze. Poi, essendo tutte e tre lontane, mi sono presa carico del mixaggio, lavorando per mesi con un bravo ingegnere del suono di Taiwan, Jason Huang. Ammetto, sono una rompipalle, ho impiegato quasi un anno a fare un master…».

Tour?
«Ora siamo a Vienna per una serie di concerti in Austria. Poi saremo in Italia, a Genova al Gezmataz Festival e al Lucca Jazz Donna Festival. Ad agosto andrò a suonare a Taiwan, dove proporrò mie composizioni».

Cosa preferisci fra trio, orchestra e big band?
«Il trio, è più immediato. Scrivere per orchestra e dirigere, però, è bellissimo».

Ti piace la direzione d’orchestra?
«Molto, però non è facile! Davanti a te hai dei professionisti di grande qualità e questo spaventa. Ma poi quando sali sul palco hai in mano questa bacchetta magica che ti fa passare tutte le paure! Dirigere musicisti che suonano tuoi pezzi è straordinario».

Monique, i tuoi ascolti?
«Sempre musica classica, adoro Puccini, lo ascolto tutti i giorni. Poi mi piace il pop, Bruno Mars, il jazz nordeuropeo, la musica indiana, giapponese e taiwanese…Ah, anche l’hip hop!».