Dona Flor et ses voyages extraordinaires…

Settimana scorsa, parlando con Riccardo Ruggeri, sono usciti più volte i concetti di musica come condivisione, che lui declina nel busking e nel teatro canzone. La strada non è come il palco, la strada unisce, calàmita emozioni reciproche. Oggi facciamo un ulteriore passo avanti, restando sempre su questi ragionamenti, parlando di musica nomade. Condivisione non solo di emozioni ma anche di culture. Che non è contaminazione, quella classica della World Music, bensì il cercare e trovare, attraverso una ricerca di logica armonica e melodica, un punto d’incontro fra tradizioni popolari.

Ho avuto modo di ascoltare una band che viene, come Ruggeri, dalla provincia, questa volta lombarda, dove tutti e quattro i componenti vivono e lavorano. Si chiama Dona Flor, sì, come il famoso personaggio nato dalla fantasia tropicale di Jorge Amado, scrittore bahiano che ha rappresentato la sua terra, mix di razze, culture e religioni, in memorabili libri.

Mi hanno incuriosito anche per il titolo del disco che hanno pubblicato il 7 maggio scorso per Maremmano Records, Les Voyages Extraordinaires, viaggi straordinari che fanno venire in mente avventure d’altri tempi, una sorta di Phileas Fogg del pentagramma, o uno dei racconti tra santi sincretici, credenze popolari e sudate storie d’amore alla Jorge Amado. Così mi sono messo ad ascoltarlo: malinconia, allegria, tocchi andini, tristezze capoverdiane, ricordi caraibici, suoni dell’Est europeo, accenni jazz, echi nordafricani, puzzle ricomposti a creare un lussureggiante ed esuberante giardino armonico. Accompagnato da una costante: la musica e la poesia di Lhasa de Sela, una meteora della musica “nomade” che una giornalista argentina definì La melanconica errante.

Apro un breve parentesi su Lhasa: nata da genitori hippie, padre messicano, Alejandro Sela, professore e scrittore, madre americana, la fotografa Alexandra Karam, Lhasa abitò con i genitori e le tre sorelle in un autobus adibito anche a scuola, viaggiando tra Messico e Stati Uniti. A 19 anni si trasferì a Montreal, dove si esibì nei locali e club presentando le sue canzoni, che poi costituirono l’ossatura del primo disco La Llorona (consiglio l’ascolto). Incise altri due lavori, The Living Road nel 2003 e Llhasa nel 2009. Quest’ultimo fu visto come un testamento: morì per un tumore a 37 anni, nel 2010. 

Lhasa con quella sua musica che coglieva dalle sue esperienze centro e sudamericane, dalle ballad, dai ritmi klezmer e dalle influenze europee – visse anche in Francia, a Marsiglia, dove si trasferì nel 1999 per lavorare con le sorelle in un circo-compagnia teatrale chiamato Pocheros, creò un mix tutto suo, molto suggestivo e profondo.

Dona Flor – Cecilia Fumanelli

Tutto quello che vi ho raccontato è determinante per capire la formazione dei Dona Flor. Nel loro pantheon musicale Lhasa è sulla vetta, poi viene il resto, ad esempio, una sentita riedizione di Veinte Años, di Maria Teresa Vera – vi ricordate la strepitosa versione dei Buena Vista Social Club? – l’unico brano non firmato dalla band meratese. Cecilia Fumanelli, cuore dei Dona Flor, gestisce un circo-centro teatrale, chiamato Spazio Bizzarro, dove lavora con bimbi e adulti. È anche musicoterapeuta, oltre che musicista con una solida esperienza di canto. Ama contaminare, e con lei anche gli altri tre ottimi musicisti, Simone Riva (chitarra e charango), Max Confalonieri (basso e contrabbasso) e Max Malavasi (batteria, percussioni). Nel disco compaiono anche Raffaele Kholer alla tromba, perfetto in Llanto Y Ardor, brano che apre il disco, Giulia Larghi al violino e Miriam Valvassori all’arpa.

Dodici brani che corrono veloci, coinvolgono, invitano a una una sorta di giro del mondo giocoso in poco meno di 40 minuti. Ho incontrato i Dona Flor in streaming un paio di settimane fa…

Come siete nati?
Cecilia: «Sentivo l’urgenza interiore di realizzare un progetto musicale e ho cercato dei musicisti che credessero alla mia storia, una condivisione di intenti e di interesse. Ho incontrato Max Confalonieri e quindi Simone. Cercavo un percussionista e ho trovato Max Malavasi, che abita a un chilometro da casa mia…».
Max Malavasi: «E non ci eravamo mai incontrati!».
Simone: «In realtà ai tempi cantavo nel coro che aveva organizzato la Ceci, lei sapeva che ero un chitarrista. Abbiamo fatto una sorta di prova. Quello che ci ha unito subito è stato l’interesse comune per Lhasa de Sela».

Siete tutti comunque appassionati degli stessi generi musicali?
Simone: «No, in realtà siamo arrivati tutti da strade diverse, poi abbiamo creato una via più larga dove ci stiamo dentro tutti».

Simone, tu da dove arrivi?
Simone: «Classico percorso con chitarra elettrica, nel mio caso con gruppi cover dei Pink Floyd. Poi ho frequentato la Scuola civica di jazz di Franco Cerri, la stessa che ha fatto Max (Malavasi, ndr). Il jazz è presente nel disco, per esempio in Mírame La Cara c’è quel metro proposto da Max che cambia nel frattempo o Evora. La musica modale applicata alle tradizioni mi ha sempre intrigato».

Massimiliano qual è la tua strada?
Max Malavasi: «Da zona piazza Greco, a Milano, perché sono nato là! Scherzo… Ho qualche anno in più rispetto a loro. La mia formazione, ciò che mi ha condizionato di più, è il periodo degli anni Settanta. Sono cresciuto ascoltando le prime radio private. La mia passione era sintonizzarmi sul canale che trasmetteva la musica che mi piaceva: disco music e Motown. La mia influenza nasce dal groove. Ho uno zio famoso, Enrico Maria Papes (fondatore e batterista de I Giganti, ndr)… Per combinazione lo zio di Cecilia aveva suonato nei Giganti col mio, l’abbiamo scoperto quando ci siamo conosciuti! Accompagnavo la radio battendo sulle pentole. La musica per me doveva essere gioia, il groove è gioia, ti fa ballare. Ho seguito sempre quell’idea di musica, anche se mi son trovato a percorrere tanti cammini diversi: dal rock’n’roll son passato alla musica brasiliana. Seguendo l’idea della musica come medicina, quest’ultima era un’iniezione di gioia. Ho iniziato con Daniela Mercury per poi arrivare a Marisa Monte. Quindi, ho iniziato a interessarmi di danze popolari con Il Paese delle Mille Danze, ensemble di Pier Paolo Perazzini, abbandonando l’idea del mainstream e prendendo direzioni diverse…».

Dona Flor – Max Confalonieri

Siete musicisti di professione?
Max Malavasi: «Simone, Cecilia e io sì»
Cecilia: «La musica come medicina, salvezza, ci accomuna».
Max: «Freud diceva che tutti gli artisti in realtà rappresentano una psicosi e noi siamo la conferma!».

Torniamo al disco: qual è stato il motore creativo di questo album così… denso?
Simone: «Abbiamo lavorato sempre a più mani, strutturando i pezzi, poi i dettagli li abbiamo fatti in studio. Avendo una formazione base, io stesso ho fatto varie sovraincisioni. In realtà questi brani hanno visto in studio una nuova vita. C’era sempre uno spunto nuovo che ci spingeva a migliorare».

Mi piace perché trasmette gioia!
Cecilia: «Ci diciamo spesso, invece, che i nostri brani finiscono per essere sempre in minore, dando un’atmosfera vissuta. Non si possono fare generalizzazioni, ovviamente! Non sei il primo che lo sostiene, e sentirlo dire mi commuove. È vitale per noi».
Max Malavasi: «Il concetto maggiore/minore è occidentale. La gioia ha diverse forme, può essere raccontata anche suonando in minore. In Giappone, brani così non sono necessariamente pezzi tristi, addirittura vengono usati per celebrare l’imperatore».
Cecilia: «Il fil rouge del disco è una tavolozza di emozioni!».
Max Malavasi: «Faccio un paragone culinario, uno ha la pasta, l’altro il basilico, un altro l’olio pugliese, l’altro ancora i pomodorini dell’orto appena raccolti. Da soli sono ottimi prodotti, insieme fanno un gustoso piatto di pasta. Noi siamo così, Cecilia è una trovatrice di melodie incredibili, io butto lì una cosa e Simone crea un mondo sonoro fantastico, Max, il contrabbassista, fa lo stesso…».

Quando suonate dal vivo usate basi?
Max Malavasi: «No facciamo tutto noi».

Dona Flor – Simone Riva

Il titolo dell’album è più che azzeccato…
Cecilia: «L’abbiamo cercato per sei mesi, e questo è stato uno dei motivi delle nostre discussioni!».
Simone: «Abbiamo letto anche libri esoterici, lanciando un sacco di proposte, ma…».
Cecilia: «In Internet avevo trovato Nadia Radic, artista argentina che fa collage molto belli. L’ho contattata e lei ha fatto un lavoro fantastico, senza conoscerci, dall’altra parte del mondo. Le avevo suggerito alcune parole chiave ma senza il titolo, perché non si trovava. È stata lei a proporre Les Voyages Extraordinaires. Abbiamo molto dibattuto, per me era un po’ difficile da pronunciare…  ma alla fine l’abbiamo scelto!».
Max: «Nadia è riuscita a sintetizzare bene questo nostro lungo viaggio».
Cecilia: «Per noi, comporlo è stato davvero un viaggio straordinario, scritto anche durante il lockdown».

Oltre al fil rouge delle emozioni, c’è anche quello delle percussioni…
Cecilia: «Hanno un ruolo fondamentale (Simone annuisce, ndr)…»

Max che percussioni hai usato?
Max Malavasi: «A parte il drum set, con cautela, le percussioni più caratteristiche sono state la darabouka magrebina, che c’è in più pezzi, e il daf turco come in Bonjour Soleil. Mi piace mettere più mondi a confronto».

Tra le varie culture musicali a cui avete attinto quale vi ispira di più?
Cecilia: «Bella domanda! Probabilmente quella sudamericana. Ma non è poi così. C’è anche la parte mediterranea e qualcosa di più nordico. L’ultimo brano, Wild Wind, è una suggestione, un gioco di suoni, un’immagine magica ma non ha una tradizione sua a cui è legato. Così come Utopia…».
Simone: «Cecilia ti ha raccontato la storia pazzesca di Utopia?».

No…
Simone: «Ho scritto la melodia, l’ho mandata e Cecilia, ne era entusiasta: “Mi piacerebbe fosse dedicata a Mario Benedetti, poeta uruguaiano», mi disse. Ci manda la bozza della voce e anche una poesia letta dallo stesso Benedetti, sembrava uscita da una radio anni Settanta. Era alla stessa velocità del brano, spaccata, perfetta, sembrava fatta apposta. Prima di inserirla abbiamo chiesto l’autorizzazione in Uruguay, ma ce l’hanno negata…».

Vi sentite completi o sul palco avvertite l’esigenza di qualche altro strumento?
Simone: «Dipende dai pezzi che suoniamo. Llanto y Ardor come fai a farlo senza tromba? Altri brani funzionano benissimo con noi quattro…».
Cecilia: «Quando possiamo e loro pure suoniamo con Raffaele Kholer e Giulia Larghi. Alla presentazione del disco c’eravamo tutti ed è stato fantastico. Abbiamo questa idea vecchio stile che più si è meglio è, però questa cosa non collima col mercato».

Avete date fissate per l’estate?
Cecilia: «Sì, qualcosa, adesso ci piacerebbe trovare un booking serio. È stancante fare tutto, montare strumenti, fare il sound check, smontare».

A quale festival vi piacerebbe essere invitati?
Max Malavasi: «Amo molto il Montreaux Jazz Festival. Ho suonato tanto e abitato per anni in quelle zone, mi piacerebbe tornare».
Cecilia: «Il premio Andrea Parodi a Cagliari, spazio per la World Music rivisitata».

Nel frattempo si materializza l’altro Max, Confalonieri…
«Eccomi qui sto guidando! Ce l’ho fatta a essere con voi stasera, perché, con Cecilia, sono stato uni dei fondatori dei Dona Flor. Sono felicissimo di fare parte di questo gruppo…».

Ragazzi, ma a Milano ci arrivate o no?
Cecilia: «Prima dobbiamo uscire dalla Brianza! Saremo in Svizzera sabato prossimo….».
Max: «A Milano c’è traffico!»

Dona Flor – Max Malavasi

Quanto ha influito nella vostra musica l’essere nati e vivere in provincia, a parte i due Max, milanesi doc?
Cecilia: «Sono una brianzola verace, la mancanza di stimoli che c’è qui ti obbliga a cercare, e questo è un pregio».
Simone: «Sono cresciuto in campagna, rastrellando l’erba tagliata per ore ore e ore, è una tecnica zen. Ricordo i pomeriggi a sgusciare piselli o a preparare il prezzemolo… Piccole cose che, anche nella musica, vivono grazie a una forte connessione con la Natura. Sono sempre stato così. C’è un’energia che arriva da qualcosa di atavico, sono sensazioni che avvertiamo tutti, un richiamo ancestrale, legato alla terra».
Max Confalonieri: «Ho vissuto a Milano fino a 32 anni, le opportunità per suonare erano moltissime. Mio figlio in Brianza fa un po’ fatica, qui ci si muove solo se hai la macchina o il motorino. Le relazioni sono più complicate, ma c’è un grande fermento».
Max Malavasi: «Ho lasciato Milano e non mi è dispiaciuto. Sono stato anni in giro per il mondo a suonare, in Europa, negli Stati Uniti, ho conosciuto un sacco di culture, ho arricchito il mio modo di essere musicista. Fondersi con altre culture è fondamentale!».
Cecilia: «Mi sembra che Milano sia un po’ autoreferenziale, un luogo difficile dove poter entrare se vieni dalla provincia. Andrei, invece, a suonare in Francia domani!».

Prima di lasciarvi, allora: che genere di musica fate?
Cecilia: «Prendo la definizione data a un disco di Lhasa de Sera: nomadismo musicale. Ecco, è questo che ci sentiamo. Più che una definizione è dare un colore alla nostra musica».
Simone: «Per i miei vicini di casa, una coppia di ottantenni, facciamo latino americano!».
Max Confalonieri: «Secondo me è World Music».
Max Malavasi: «Portando i miei figli a scuola ho notato che alcuni genitori che di solito ascoltavano in auto musica commerciale, avevano iniziato a mettere il nostro disco. Mi ha confortato, perché quello di cui si ha bisogno nella vita è avere alternative, la possibilità di conoscere altro…».