Marco Pacassoni, il vibrafono come stile di vita

Marco Pacassoni, John Patitucci e Antonio Sanchez – Foto Andrea Rotili

Marco Pacassoni, classe 1981, è uno dei più bravi e versatili vibrafonisti italiani. Un musicista completo, di quelli baciati dalla dea della musica. Vive a Fano, s’è laureato al conservatorio di Pesaro e quindi negli Stati Uniti alla mitica Berklee School of Jazz, in entrambe con lode. 

Al Berklee ha conosciuto e studiato con molti grandi vibrafonisti, a iniziare da Gary Burton ed Ed Saindon. Apro una piccola parentesi su Burton: oggi ottantenne, è uno dei maghi assoluti del vibrafono, artista che ha marcato il Novecento e il jazz. Il suo primo lavoro assieme a Keith Jarret risale al 1972. Porta come titolo il nome dei due artisti che in quell’album erano accompagnati dal chitarrista Sam Brown, il bassista Steve Swallow e il batterista Bill Goodwin ed è un brillante mix di generi (erano gli albori della fusion). Splendido anche Berliner Jazztage – questa volta Burton faceva coppia con Chick Corea, anzi, fu il primo concerto in duo insieme – il loro fu un lungo sodalizio di musica e amicizia – registrato dal vivo a Berlino il 4 novembre del 1972, rimasterizzato proprio all’inizio di quest’anno, di cui consiglio l’ascolto. «Con Burton ci sentiamo, è un mio punto di riferimento», mi racconta Marco.

Vi sto parlando di Pacassoni perché l’anno scorso ha pubblicato un disco che ha chiamato Life. Un progetto che racchiude otto brani da lui composti, suonati in trio, più due improvvisazioni che da sole, sviluppate, varrebbero un altro paio di dischi. Per Marco una doppia gioia: di vedere eseguita e apprezzata la sua musica e di averla fatta con due musicisti idoli del vibrafonista italiano: John Patitucci al contrabbasso e Antonio Sanchez alla batteria. 

E qui vien naturale riallacciarsi al concetto di vita, che poi è il titolo del disco. La vita è una continua sorpresa, ti porta a sognare, incontrare, amare, gioire, assorbire tristezza, incassare colpi inaspettati. E la vita di Marco è stata in questi ultimi anni un concentrato di tutto ciò. 

Un disco che si ascolta dall’inizio alla fine con la curiosità, come in un film, di vedere come va a finire. Jazz contemporaneo, per catalogarlo in un genere, dove l’aspetto melodico prevale, e i virtuosismi non risultano stucchevoli ma necessari nel dipanarsi della trama. In questo progredire con apici come Life, la bellissima Valse à Trois e la dolcissima Anita, dedicata alla figlia prendono posto due improvvisazioni, conversazioni, per essere esatti, che riaprono la narrazione, ampliandola. Come tre amici di lunga data, che si conoscono a fondo  discutono, ridono, chiacchierano. 

Marco, com’è nato Life?
«È un sogno partito da Fano. Avevo scritto gli otto brani per un trio percussivo, vibrafono, contrabbasso e batteria. Così ho mandato due mail, una a John Patitutcci e l’altra ad Antonio Sanchez, presentando il mio lavoro. Hanno risposto entusiasti di sì. Ero felicissimo, suonare con loro una soddisfazione immensa!».

Dove avete registrato? 
«A New York, il 7 e l’8 gennaio dello scorso anno, in un pomeriggio. Visto che avevamo lo studio pagato per due giorni, ci siamo detti: perché non suoniamo un po’, improvvisazioni. Così sono nate Conversation#1 e #2».

Le “conversazioni” sono notevoli!
«Per suonare così ci vuole ascolto, interplay, vivere con chi allacci rapporti, sintonia».

Insomma, prima non vi conoscevate, in due giorni avete chiuso il disco. Sembrate amici e colleghi di lungo corso…
«È venuto un bel lavoro perché ci siamo trovati bene anche a livello personale. Patitucci dopo aver registrato Anita mi ha detto: “finalmente un brano che respira!”. Sono un amante della melodia, della musica popolare. Mi piace lavorare su questi canoni. Collaboro da dodici anni con Bungaro, siamo reduci da 17 concerti in duo chitarra, voce e vibrafono».

Da quali autori e generi sei stato influenzato?
«Sono cresciuto a pane e Paul McCartney, a pop e rock, queste sono le mie origini, i miei gusti. Adoro, dunque, i Beatles, Debussy, Chopin, i Dream Theatre, Chick Corea, il trait d’union è il potere della melodia». 

Mi piace molto Valse à Trois!
«È stato il primo pezzo che abbiamo registrato, suonato dall’inizio alla fine. Sia Patitucci che Sanchez avevano studiato a fondo le composizioni, quindi è stato molto naturale, buona la prima! Il suono del contrabbasso di John è straordinario, sembrava che stessimo suonando insieme da vent’anni ed era appena un quarto d’ora».

Marco Pacassoni – Foto Andrea Rotili

E di Life, il brano che dà il titolo all’album, cosa mi racconti?
«Negli ultimi dieci anni ho avuto un concentrato di situazioni belle e brutte. È la vita, parola importantissima che racchiude molti significati, includo anche l’aver suonato con i miei due miti! Volevo volare con i piedi per terra, puntare in alto con la massima umiltà».

Certo che la Conversation#1 è incredibile…
«Michel Camilo (pianista jazz domenicano, con cui Pacassoni collabora, ndr), mi ha detto che avrei dovuto aprire il disco con questo brano. Forse aveva ragione, ma volevo tenere la narrazione delle composizioni. Le Conversation, entrambe di otto minuti, sono state una bella sorpresa, ci siamo incontrati come vecchi amici, quando si suona con musicisti che non conosci il rischio di dissonanze è alto».

E i tuoi compagni “di conversazione” cos’hanno detto?
«Erano entusiasti. Hanno visto il potenziale della marimba e del vibrafono, dove c’è ritmica, melodia, è tutto acustico, creatività al servizio dell’ascolto!».

Sei anche un insegnate felice. Cosa pensi del rapporto con la musica degli adolescenti in tempi digitali?
«Insegno percussioni al liceo musicale di Pesaro. Ci sono due tipi di allievi: chi ha voglia di scoprire, conoscere, interessarsi alla musica partendo dalla tradizione e chi è fissato con i social, le visualizzazioni, gli studi di tecnica esagerata per stupire nei post. Ma per cosa? Cerco di indirizzare i miei studenti alla curiosità, il cercare il proprio tipo di suono, quello che ci fa stare bene, il crearsi una propria via. Essere musicista non vuol dire diventare per forza famoso. Io sono felice, mi sento realizzato, perché suono i miei brani. È questo il messaggio che cerco di trasmettere ai ragazzi».

Perché hai scelto come strumento il vibrafono?
«Perché è ritmico ma anche melodico, è completo. Come il pianoforte, sono strumenti percussivi da cui esce una melodia. Il vibrafono è parte di me. Nel 2021 ho pubblicato un disco con Enzo Bocciero, solo pianoforte e vibrafono/marimba, l’abbiamo intitolato Hands & Mallets, mani e bacchette, entrambe percuotono un tasto o una barra, da cui esce melodia e ritmo».

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