Andrea Tarquini: “In fondo al ‘900”, la memoria e il bluegrass

Dove ci vediamo? Boh, dove ci sia un buon bicchiere di vino. Ho fatto presto a mettermi d’accordo con Andrea Tarquini, cantautore romano, classe 1972, di stanza a Milano. Così, puntuale all’appuntamento ci siamo incontrati in una vineria dall’aria parigina. Mi aspettava seduto a un tavolino nella piazzetta chiusa alle auto, strimpellando un mandolino americano. «Stiamo facendo conoscenza, ce l’ho da poco», mi saluta con un sorriso sornione.

Ed eccomi qua, davanti a una bottiglia di Barbera, accarezzato da un vento frizzantino di fine ottobre a farmi raccontare la vita in musica di Andrea accompagnato da splendide tartine al baccalà mantecato. Perché il suo terzo disco uscito nel giugno scorso parla proprio di questo. L’ha intitolato In Fondo al ‘900, ed è un lavoro dove nostalgia, realtà, ricordi, si confondono con melodie confortanti. Per chi, come me, ha vissuto il cantautorato anni Settanta, ascoltare il suo album è stato come entrare in una sorta di comfort zone dove melodie e parole mi hanno riportato a storie vissute, vangando ricordi, incontri, impegno, voglia di cambiare il mondo.

Già dal primo brano, Ufo robot, si capisce quanto i riferimenti di quegli anni siano stati importanti per Tarquini: ascoltatela: il riff del brano porta subito in fondo al ‘900 con un omaggio a Ventura Highway, uno dei successi più grandi degli America. Il pretesto per raccontare il periodo buio della Repubblica Italiana con l’assassinio di Moro e al contempo i passatempi dei ragazzi attaccati alla televisione con Goldrake, uno dei primi cartoni animati giapponesi che aprirono le porte dei Manga in Italia. Il tema è la memoria, che bisognerebbe coltivare con cura e non affidare a una singola giornata (olocausto, donne, musica, stragi di stato…), tanto per lavarsi la coscienza. Ricordi attivi, dunque, importanti per capire dove stiamo andando a parare.

Raccontami di te, la passione per la chitarra, il folk americano, il tuo inizio con Stefano Rosso…
«Ho sempre suonato la chitarra, fin da ragazzino. Poco più che ventenne, a Roma, ho iniziato a collaborare a Roma con Stefano Rosso. Sono stato per anni il suo chitarrista, una grande esperienza. Lasciata Roma e venuto a Milano, ho lavorato nella produzione televisiva ma la passione per la musica non mi lasciava, la sfogavo dando lezioni di chitarra… Un giorno, Luigi Grechi, il fratello maggiore di Francesco De Gregori, mi disse: “Perché non fai un disco con le canzoni di Stefano Rosso, chi meglio di te? Se non lo fai tu lo faccio io!”. Così decisi di incidere un cd, che produsse Paolo Giovenchi. Entrare in studio di registrazione con tanti professionisti è stato il mio battesimo del fuoco. Questo succedeva esattamente dieci anni fa, a quarant’anni. Grazie a un finanziatore, avevamo tutto al top, ufficio stampa, studio di registrazione, ecc.».

Ma con Rosso non avevi fatto prima queste esperienze?…
«Ho suonato più volte al Folkstudio, ti rendi conto dopo di quello che hai fatto, allora ero giovane, non capivo l’importanza… Stefano aveva delle capacità di genio vero, si fermava un centimetro prima di essere banale, era straordinario. Dopo quella storia, che mi resi conto doveva finire, a 25, 26 anni mi misi a frequentare quel groppone di musicisti romani che frequentavano i locali che facevano Blue Grass. Ed è lì che conobbi Luigi Grechi. Quella storia, tra musica e alcol, mi ha insegnato molto, lì ho imparato davvero. Una volta arrivato a Milano ho messo in piedi una band con Paolo Monesi, storico mandolinista milanese, facevamo repertorio di David Grisman, affascinantissimo e difficilissimo da suonare, un derivato jazz con strumenti bluegrass… abbiamo fatto due concerti e poi è finita lì».

Come vi chiamavate?
«Hot Dawg Acustic Band. Terminata questa parentesi, mi presi un periodo di ripensamento e me ne andai a Roma, quindi ritornai di nuovo a Milano e iniziò la mia carriera artistica. Era il 2012».

Con il il disco dedicato a Stefano Rosso sei arrivato finalista al premio Tenco…
«Una bella storia che mi ha spinto ad andare avanti… Dopo tre anni ho pubblicato Disco Rotto, fatto con dulireecinquanta, ma con grande professionalità e passione, artigianato vero. Lì ci sono alcune canzoni valide, c’era buona scrittura, era la prima volta che mi confrontavo con la parola..».

Come ti definisci?
«Un cantautore e un chitarrista…».

Anche cuoco, hai aggiunto sul tuo curriculum…
«Sì sì, cucina romana. Mio figlio a dieci anni mangia la trippa, l’altro giorno ho fatto la coda, stupenda…».

Come è finita con Disco Rotto?
«Era fatto bene, ma ha avuto poco promozione. Ed è quello che mi terrorizza. In questo mestiere, la gente deve sapere che esisti. L’altra cosa che ho imparato: non è vero che bisogna scrivere per il mainstream e abbassare le braghe per essere notati. C’è una via di mezzo. Ognuno deve fare quello che è, capire che ciò che tu sei può essere “tanta roba”, non sta scritto da nessuna parte che deve essere circoscritto alle tue esperienze».

Venendo al nuovo disco…
«Pur essendo rimasto nella comfort zone del mio mondo, il Blue Grass e il folk, ho voluto proporre un lavoro che avesse molto altro. Mi dicono che ho fatto un disco degregoriano, in realtà non lo è, Francesco avrebbe scritto in altro modo. C’è più di una citazione alla sua opera, perché il “capo” come lo chiamano i suoi musicisti, è il capo mica per niente! De Gregori ha lasciato una forte eredità nella cultura musicale italiana, ed è giusto omaggiarlo».

A proposito, in Ufo robot hai citato platealmente gli America.
«Sì, esatto! È stata una scelta di Paolo Giovenchi che ha arrangiato il brano. Una citazione quasi spudorata. La mia indicazione a Paolo era: l’importante è che siamo in America. Lui mi ha risposto: “non siamo in America ma agli America!”. È uno dei richiami che contribuiscono a costruire il senso di questo disco».

Perché un Cd  sugli ultimi anni del Novecento? La tua storia?
«Invece di sottolineare la nostra vecchiaia, ho pensato che fosse importante mantenere la memoria, esigenza brutale, lancinante oggi. Anziché sottolineare un fattore generazionale la nostra “vecchiarditudine”, volevo ribadire una cosa importante: è necessario tenere la memoria, dichiarare in modo chiaro che, per esempio io, a 50 anni, vivo in un posto di cui tutti sanno ma nessuno ricorda. È un approccio intellettuale, la memoria come conoscenza. Non ne so tante ma quelle poche che so, le so bene. Stefano Rosso diceva che se una canzone funziona con chitarra e voce funziona bene sempre».

Quindi, nel caso del tuo disco, chitarra e voce è un fatto culturale che va ricordato…
«Sì in Italia il nostro management discografico è fatto da persone che vivono con l’ossessione del risultato, questi guardano e investono solo sul mainstream. Perché in Francia, Spagna e Germania non si respira solo questa monotonia? È un principio di corto respiro che non ha nulla a che vedere con il mercato. In Francia, per esempio, c’è molta attenzione verso tutta l’espressione musicale. Qui no: prima hanno spremuto il mondo rap e trap, poi, visto che avevano saturato il mercato, hanno tirato fuori i Måneskin, che sono bravini, ma non i migliori che abbiamo in Italia. Inseguendo sempre il Mainstream in questo modo un po’ miope e forzato, se nascessero un nuovo Paolo Conte o un Pino Daniele passerebbero inosservati».

Le case discografiche non sono società di mutuo soccorso…
«Sono d’accordo, ma ci vuole la giusta misura per tutto. I miei insight di Spotify, per esempio, dicono che un bel 60 per cento che mi segue va dai 35 ai 65 anni, cosa vogliamo fare con questi ascoltatori, ignorarli? Ed è lo stesso per altri cantautori, come per esempio Federico Sirianni (ha collaborato con Andrea in Cantautori Indipendenti, ndr). Con lui voglio fare un concerto a due voci e due chitarre, prepararlo in modo perfetto, per raccontare che ci sono cose bellissime che la discografia non conosce».

Domandona: ma un cantautore riesce a portare a casa uno stipendio a fine mese?
«No, non riesce a campare. Ti devi ingegnare. Questo disco per me è un biglietto da visita. Essendo figlio di un produttore di fiction e avendoci lavorato, conosco le dinamiche, so leggere un copione dal punto di vista musicale… sto lavorando per comporre anche colonne sonore».

Quanto dedichi del tuo tempo alla musica?
«Tanto, però il problema è che ne dedico altrettanto alla promozione di me stesso che è una fatica infinita».

C’è un brano che hai dedicato a un tuo amico che se ne è andato…
«Sì, Uve al Sole. Lui si chiamava Umberto Venturini, lo chiamavamo Uve, un tumore al cervello se l’è portato via. Suonava molto bene la chitarra e aveva una serie di Martin vintage molto belle. Ho chiamato il sassofonista Luca Velotti in questo brano…».

Sembra una colonna sonora…
«L’ho composta proprio in quest’ottica».

Dove vendi?
«Spotify mi dice cose assurde, negli Stati Uniti e in Inghilterra, ma mi ascoltano anche dai Territori Occupati, una soddisfazione! Apple, invece, ti manda gli Shazam e vedi chi ti ha shazammato, magari via radio… La politica dovrebbe fare una cosa  simile a quello che ha fatto per il cinema: se fai determinate cose, puntando sulla qualità italiana, ecc. puoi avere accesso a fondi per la promozione e la divulgazione».

Perché la passione per il folk americano?
«Perché è una musica friendly, melodica, libertaria, evocativa di mondi…».

Chi ti ha accompagnato in quest’avventura?
«Al basso elettrico c’è Rino Garzia, il mio bassista da sempre, alla batteria Fabrizio Mele, poi tutta una serie di “altri”. Le chitarre  sono state suonate quasi tutte da me, tranne Paolo Giovenchi in Ufo robot. Su Cantautori Indipendenti la pedal steel è stata suonata da Smith Curry, il violino da Eamon McLoughlin, inglese che vive a Nashville, volevo il top del top. Il mandolino su L’Amore in Frigo è di un mio vecchio amico, John Frazier, che ha suonato con il grande John Cowan. Questi nomi non dicono niente a nessuno, ma, credimi!, sono grandi artisti!».

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