Su:ggestiva: musica e spazio a Roma. Ne parla Enrico Gabrielli

Musica e spazio. Il rapporto è stretto, quasi vincolato, lo spazio può contenere la musica, la musica può armonizzare lo spazio. Per scendere più nel particolare: se lo spazio è inteso come un’opera architettonica, un antichissimo manufatto o una rovina archeologica la valenza emozionale tra questi e la musica assume connotati ancora più profondi.

Su:ggestiva, arrivata alla sesta edizione, nei finesettimana fino al 23 ottobre, è una rassegna pensata proprio per esaltare questa relazione intima tra musica e spazio. La manifestazione di definisce multisensoriale, perché a entrare in gioco non è solo l’udito ma sono anche altri sensi, innanzitutto la vista e il tatto. Il luogo è il Parco archeologico dell’Appia Antica a Roma. Per essere più precisi il Ninfeo della Villa dei Quintili. Famoso e affascinante, palco ideale per ospitare un mix di suoni dove il rock degli I Hate My Village si fonde con la musica contemporanea del pianista mascherato Lambert o del violoncellista e compositore albanese Redi Hasa.

Enrico Gabrielli e Sebastiano De Gennaro – Foto Fabio Rosseti

Luogo e suono diventano dunque i protagonisti, le pareti fisiche ed emozionali dove ascoltare con orecchie, occhi e mani. Chi è convinto di questo rapporto stretto è Enrico Gabrielli, polistrumentista, musicista che passa dal rock alla classica al prog con l’idea che esista la musica in quanto tale, i generi sono un dettaglio. Sia Gabrielli sia Fabio Rondanini sono membri dei mitici Calibro 35. Il primo ha suonato ieri sera, aprendo la manifestazione, con Sebastiano De Gennaro, il secondo si esibirà nel gruppo che ha fondato assieme al chitarrista Adriano Viterbini, I Hate My Village, il 16 i il 17 prossimi.

Gabrielli l’avevo intervistato in occasione della sua suite sul tema di Bella Ciao eseguita al Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile dello scorso anno, celebrato in lockdown. L’ho richiamato perché è un artista profondo e le sue riflessioni non sono mai banali.

Il rapporto luogo/musica è fondamentale…
«Sono uno strenuo e convinto difensore di ciò. Ho una lunga carriera alle spalle, ho suonato ovunque in posti belli e in posti improbabili, anche nei parcheggi, e credimi, esibirsi in un parcheggio non è affatto un bel suonare. La differenza c’è, eccome. La musica deve avere il luogo giusto dove essere suonata».

La suggestione, infatti, non è cosa da poco…
«La musica, essendo arte del tempo – nel quadro dimensionale in cui viviamo – aiuta l’ascoltatore a percepire lo spazio, non solo a livello fonico. Un quartetto d’archi che suona in un centro sociale occupato stride, come mettere in una sala concerti o in un grande tempio della lirica una band punk. Il senso che l’ascoltatore proverebbe in entrambi i casi sarebbe quello di un disagio».

Sono già stati fatti questi esperimenti!
«Certo, ma bisogna contestualizzare i luoghi e lo puoi fare quando sei cosciente di quello che stai cercando di trasmettere».

Come il mitico concerto di Johnny Cash alla Folsom State Prison davanti a duemila detenuti…
«Esatto, esempio perfetto: quel concerto ha acquistato un potere comunicazionale ed emozionale fortissimo. Ma ti posso citare anche il violoncellista Mario Brunello che diletta gli ascoltatori con Bach in cima a una vetta delle Dolomiti. Poi ci sono, soprattutto nella musica contemporanea, pretese del silenzio assoluto, difficili da controllare e che richiedono inevitabilmente un luogo adatto».

Ieri sera tu e Sebastiano De Giovanni, avete eseguito al Ninfeo un vostro progetto molto interessante, Mircocosmica
«È un lavoro che abbiamo pensato per i bimbi ma è rivolto soprattutto agli adulti. Abbiamo scelto alcuni brani di autori del Novecento, da Stravinskij a Debussy a Copland. Li proponiamo volutamente minimal: io suono il clarinetto mentre Sebastiano il vibrafono, molto semplice, strettamente acustico, ideale per l’ambientazione al Ninfeo, un luogo affascinante».

Cosa sta succedendo alla musica, soprattutto a quella mainstream? Si tende a una banalizzazione imbarazzante, sempre uguale a se stessa…
«Domanda interessante e difficile: la musica è andata sempre per comparti generazionali, ma negli ultimi anni c’è stata un’accelerazione: le generazioni musicali non corrispondono a quelle temporali. Si cambia in fretta, d’altronde la tecnologia ci ha portati a questo punto, i confronti generazionali si fanno sempre più serrati, settari, si va a decenni, spesso anche meno, a una manciata di anni. Una volta c’era una diversificazione, la musica banale di facile presa era difficile da scalfire proprio perché passava attraverso più generazioni e quell’altra impegnata. Con l’attuale segmentazione abbiamo una speranza: da una roccia difficile da scalfire si sta passando a uno sgretolamento in piccoli sassi, più facili da ridurre in polvere».

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