Bono imbarazzato? Sì, ma soprattutto “frainteso”…

La locandina di Awards Chatter, andato on line domenica scorsa, con Bono e The Edge

Ci mancava pure la polemica sulle ultime dichiarazioni di Bono. Il frontman degli U2 è stato giudicato, attaccato, se mi permettete, manipolato, anche da bravi colleghi di casa nostra per certe affermazioni estrapolate durante una bella e divertente chiacchierata fatta in un podcast piuttosto famoso negli Usa, gli Awards Chatter del The Hollywood Reporter. Bono era ospite assieme a The Edge, al secolo David Howell Evans, il chitarrista inglese della band. Un bel podcast che vi consiglio; se avete voglia di ascoltarlo andate a questo link. Da quella bella chiacchierata a tre, chissà perché sono state estrapolate – e stravolte – un paio di dichiarazioni, tanto che i titoli sui giornali di oggi risultano pressoché tutti  uguali: «Bono imbarazzato per la sua voce», «Bono non sopporta il nome della band». «Bono…».

Una delle band più importanti nella storia del Rock, dirimente e influente, che ha venduto quasi 160 milioni di dischi, sbancato i botteghini con il suo U2 360°, il tour più proficuo di sempre, circa 737 milioni di dollari di incassi (2009/2011) che ha vinto palate di Grammy e due Golden Globe che viene così sputtanata dal suo frontman? Sembra strano. Per Bono un clamoroso effetto Tafazzi? Ripensamenti dopo aver superato i sessanta? Sarà mica bipolare? 

Niente di tutto ciò, tranquilli. Il frontman ha sì ammesso di sentirsi in imbarazzo per la sua voce, ma parlando del primo disco della band, Boy. Ha confessato di essere arrossito di vergogna quando, mentre guidava, gli è capitato di ascoltare in radio una canzone di quel disco. Aggiungendo anche che gli U2, all’inizio, facevano musica per suonare nei locali e non per essere registrata, dunque, il suo modo di cantare era eccessivo, non “amalgamato” con la musica di una band, che per sua stessa ammissione, suonava già straordinariamente bene.

Quanto al nome dato al gruppo, vien da sorridere: per i due intervistati U2 era quello meno peggio a disposizione, in una lunga scelta di nomi improbabili. Quindi, frontman e chitarrista si sono lanciati in una divertente confessione-ricordo sul perché fossero nati i loro appellativi, Bono e The Edge, cercando di ricordare quelli degli altri due membri, Adam Clayton e Larry Mullen… Aneddoti che rendono ancor più leggendaria la band irlandese e accativante il podcast.

Davvero non capisco questa alzata di scudi. Qual è la notizia? Che Bono si imbarazza a riascoltare la sua voce degli esordi? È stato sincero, ammettendo pure che, allora, non aveva tutte le nozioni tecniche necessarie per affrontare una registrazione il più possibile perfetta, mancavano dei dettagli fondamentali, s’è spinto a dire. In fin dei conti alla fine dei Settanta, come molti altri gruppi in quell’incredibile decennio, erano soltanto dei ragazzi che avevano un sogno, fare musica, e molto da raccontare («quello che avevamo in testa e nel cuore», come sostiene il frontman), oltre a una grande creatività e determinazione.

Gli U2 sono una delle vittorie e degli orgogli del Rock, patrimonio “untouchable” della musica del Novecento. Suvvia, siamo seri! Se poi si vuol approfittare della Mega Wave Bono e surfare sulla cresta del gossip per sentito dire, beh questo è un altro discorso…

Ramy Essam, il suo rock di denuncia e il premio Tenco

Ramy Essam – screenshot video

Ritorno su un tema che avevo aperto qualche mese fa: il rapporto tra arte e regimi. Lo avevo fatto con un post pubblicato in agosto prendendo spunto dalla rielezione a premier della Bielorussia, del “democratico” Aleksandr G. Lukashenko, al potere da 26 anni consecutivi.

Oggi il rapporto tra arte, conoscenza e regimi è quanto mai in primo piano. Anzi, ci scuote da vicino, ed è il titolo di apertura di uno dei principali quotidiani in edicola, oltre che di news dei maggiori notiziari televisivi e web, a partire da Tgcom24.it. Lo stavamo aspettando da quel 3 febbraio del 2016 quando fu trovato senza vita  in un fossato sulla strada Cairo-Alessandria, massacrato e torturato, il corpo del giovane ricercatore friulano Giulio Regeni. Da allora il governo egiziano ha preso tempo e preso per i fondelli, ha negato, assicurato e deviato… Però, forse, se non giustizia, almeno verità (quella chiesta a gran voce da migliaia di italiani) sugli autori dell’omicidio sta venendo fuori, inoppugnabile, grazie a dei giudici testardi e inflessibili.

E mi riallaccio alla musica, non vi preoccupate, non siete sul blog sbagliato! Uno dei fattori di forte preoccupazione del regime egiziano è Ramy Essam, 33 anni, rocker che ha acceso la rivolta di piazza Tahir nel 2011 con il suo entusiasmo e le sue performance, e che per questo e per altre canzoni di denuncia, una per tutte Balaha scritta contro al Sisi, ha dovuto lasciare l’Egitto altrimenti sarebbe stato arrestato, con tutti gli annessi e connessi del caso. 

Vive e lavora in esilio, in Europa, molti suoi amici e collaboratori sono stati messi in carcere, il videomaker di Balaha, Shady Habash, «dopo 800 giorni di carcere è morto, ucciso per negligenze mediche» come ha ricordato lo stesso artista ieri sera durante l’intervista che Diego Zoro Bianchi gli ha fatto su Propaganda Live. L’arte fa paura, che sia espressa sotto forma di musica, pittura, teatro, cinema… «Abbiamo bisogno di arte in politica e di arte politica», ha sostenuto Ramy, sempre ieri sera. 

Per il suo impegno s’è aggiudicato una delle targhe del “Tenco” 2020, grazie a un nuovo premio istituito quest’anno con il chiaro scopo di sensibilizzare il più possibile sugli artisti perseguitati dalle dittature, dedicato alla band turca Grup Yorum. Il regime di Erdogan ha usato il pugno di ferro contro di loro, impedendogli di esibirsi, incarcerandone alcuni, tre membri sono morti facendo lo sciopero della fame per chiedere democrazia e libertà, parole che Erdogan, Al Sisi e tanti altri loro simili con cui facciamo ogni giorno affari, hanno cancellato dai loro vocabolari.

Freemuse, ong indipendente che si batte per la libertà d’espressione artistica e la diversità culturale, nel suo report annuale The State of Artistic Freedom, pubblicato il 15 aprile scorso in concomitanza con la Giornata Mondiale dell’Arte, ha registrato 711 atti di violazione della libertà artistica nel 2019 in 93 Paesi. La percentuale maggiore di “attacchi” alla libertà d’espressione è rivolta ai musicisti (32 per cento).

Il problema sta proprio qui, senza rischiare di cadere nel retorico. Uomini potenti, che schiacciano vite senza porsi troppi problemi, hanno paura di note e versi, hanno il terrore della non violenza perché le parole, le denunce, le note, i pennelli e i colori, la pietra scolpita e il cinema sono un terreno per la maggior parte di loro praticamente ignoto, a parte cercare di piegarlo – malamente – ai loro interessi. L’arte, la musica, sono passaporti per la libertà di pensiero, e per questo, armi letali per questi personaggi. Sostiene Ramy sul suo sito Internet: «La musica è l’arma pacifica più potente del mondo».

La storia finora ci ha insegnato che è una lotta persa, che dittature, più o meno ammantate di democrazia, esisteranno sempre perché questa è la natura umana e perché queste si intrecciano a interessi maggiori, quelli che noi poveri umani, semplici sognatori, non ci meritiamo nemmeno di conoscere e condividere. Ci vorrebbero più cultura e meno populismo, più informazione e meno fake news, più onestà intellettuale e meno settarismo, più musica e bellezza. Ci vorrebbero…