15 aprile, un giorno a caso. Oggi è un mercoledì. Pasqua è appena passata. Continuiamo le nostre quarantene. Inizia il caldo e il verde s’accende di variazioni: bello e confortante per lo spirito e la vista. Insomma, una giornata paradossalmente normale. Ma se iniziassimo a giocare con gli anni, retrocedendo al 15 aprile addirittura di qualche secolo o decennio fa, almeno per la musica, scopriremmo alcune piccole, interessanti affinità. Siete pronti per un viaggio nel tempo in 5 fermate targate 15 aprile?
Partiamo dal 15 aprile 1738. Era un martedì, a Londra, sotto il regno di Giorgio II Augusto di Hannover. Al King’s Theatre il tedesco George Frideric Händel presenta la sua opera in tre atti Serse. Tra gli artisti, sul palco anche Gaetano Majorano di Bitonto, detto il Caffarelli, uno dei più grandi cantanti d’opera del tempo, un soprano. Per diventarlo fu castrato, a fini musicali, un’operazione che veniva fatta prima della pubertà, visto che le donne, per quelle volontà “dissonanti” della Chiesa cattolica, in suolo sacro non potevano cantare: mulieres in ecclesia taceant, diceva San Paolo – sublime voce soprano (era nota la sua rara estensione vocale, oltre che la sua propensione alle avventure amorose per le quali, pare, rischiò pure la vita). Qui un estratto con la contralto veneziana Sara Mingardo. Ebbene, per Händel quello fu un martedì nero, perché pubblico e critica stroncarono il lavoro del compositore. Così diverso rispetto agli altri dello stesso artista, atti troppo brevi, un solo movimento, inserimenti buffi in un’opera considerata seria (narrava le gesta di Serse I re di Persia). Un fallimento: probabilmente Händel era stato influenzato da nuove “aperture” musicali, dalla coscienza che nell’aria volteggiava qualcosa di nuovo. Gli artisti hanno quella sensibilità, chiamatela creatività o propensione alla genialità, a riprova che la musica, come le altre arti, non è un atto statico ma fluido, un fiume che scorre a volte lento a volte impetuoso, cambia letto, trasforma paesaggi, si insinua dove spesso nulla potrebbe arrivare.
Sempre il 15 aprile ma di 228 anni più tardi, e sempre a Londra, i Rolling Stones pubblicano Aftermath, album caratterizzato dall’introduzione di strumenti “esotici” come il sitar o antichi come il dulcimer (alla stregua degli amici/nemici Beatles), voluta da un vezzoso Brian Jones, e dal fatto che tutte e 14 le canzoni dell’album edizione inglese (uscì anche la versione americana con cover e brani diversi, 11) furono firmati Jagger/Richards. Anche in questo caso, l’album non fu preso bene. Soprattutto per un brano, Going Home che aveva l’ardire di andare avanti per 11 minuti e 14 secondi, non proprio in linea con la media delle canzoni, che duravano al massimo poco più di 3 minuti, meglio se 2 minuti e mezzo. Quell’album contiene alcuni brani diventati poi immortali, vedi Lady Jane, Under My Thumb o Paint It Black (nella versione americana, dove Jones usò il sitar). Anche Serse, poi, ebbe il suo posto nell’Olimpo della musica.
Andiamo avanti, retrocedendo di sei anni dall’uscita di Afetrmath. Questa volta dirigiamoci a Raleigh, North Carolina, Stati Uniti. Il trentaduenne Guy Carawan, attivista, cantante folk morto a 88 anni nel 2015, canta un brano dal titolo We Shall Overcome, davanti al Comitato di Coordinamento Non Violento degli Studenti di Raleigh, il suo contributo per difendere i diritti civili degli afroamericani. Il brano, probabilmente un gospel d’inizi Novecento, profondamente rivisto da Pete Seeger e preso da Guy come canzone di protesta diventa così, uno degli inni più famosi e forti della storia americana. We shall overcome, We shall overcome, We shall overcome, some day. Riusciremo a superarlo, riusciremo a superarlo, riusciremo a superarlo un giorno… cantava quel 15 aprile Guy con trasporto. Cinque anni più tardi, il 7 marzo, ci sarà la marcia di Selma, uno degli atti marcanti del cammino verso la conquista dei diritti civili, il cui cinquantesimo fu ricordato con un bellissimo discorso da Barak Obama quando era presidente nel 2015. We Shall Overcome divenne un cavallo di battaglia di Joan Baez, anche Bruce Springsteen ne ha fatto una versione molto bella alla sua maniera.
Sempre un 15 aprile e sempre negli States, questa volta l’anno è il 2012, il mondo scopre che anche un artista assassinato 16 anni prima a Las Vegas, sto parlando di Tupac Shakur, riesce a rivivere attraverso un ologramma in 3D su un palco e a cantare insieme a Snoop Dogg, al festival Coachella. La tecnologia ha camminato, il ricordo pure – la sensazione di cui parlavo in un post di qualche giorno fa – i tuoi artisti preferiti, anche se non ci sono più, vivono nelle loro canzoni, nei loro video, nei loro dischi e ti sembra di averli sempre accanto. Ma qui, in più, Tupac c’era veramente, si vedeva, cantava. La presenza fisica azzera il tempo, l’emozione concretizza l’evento, lo rende reale, possibile. Il mondo dei vivi che interagisce con quello dei morti. Dopo di lui lo showbiz non si ferma e sul palco risaliranno Elvis Presley, Michael Jackson, Freddie Mercury… Operazioni dubbie per far soldi, grandi artisti, riposino in pace, trasformati in fenomeni da baraccone…
E siamo all’ultimo 15 aprile, quello dello scorso anno, quando la divina Aretha Franklin – e qui non possiamo non ascoltarla in Think dal film The Blues Brothers di John Landis – morta il 16 agosto del 2018, riceve una Special Citation dal prestigioso premio Pulitzer, prima donna ad avere questo onore post mortem, «per il suo indelebile contributo alla musica e alla cultura americana per oltre 50 anni». Amen, anche Aretha ha avuto la sua onorificenza. Forse avrebbe gradito di più averla “dal vivo” come avrebbe filosofeggiato Massimo Catalano, trombettista e pensatore, sodale di Renzo Arbore in Quelli della Notte. Cose che accadono in un 15 aprile qualsiasi…