The Fermi Paradox, il disco tra scienza e musica con David Rhodes e Giovanni Amighetti

David Rhodes – Foto di York Tillyer

Il nove maggio scorso è uscito per Arvmusic The Fermi Paradox, disco firmato da David Rhodes, Giovanni Amighetti e dagli E-Wired Empathy. Un lavoro molto particolare, è bene dirlo subito, che si svela mano a mano che lo si ascolta. Dentro c’è un concetto profondo, lo spazio come lo concepisce l’uomo, la sua conquista, il suo studio, la curiosità di entrare in contatto con altre civiltà distanti milioni, miliardi, di anni luce. 

Non si tratta di fantascienza, nonostante tanti scrittori, basti citare Isaac Asimov, Arthur C. Clarke, Philip K. Dick, Ursula K. Le Guin, Frank Herbert, Kurt Vonnegut abbiano dedicato la loro fantasia, creatività e studi in una narrazione del futuro creando un filone letterario e cinematografico che continua a vivere grandi momenti. Piuttosto qui parliamo di un lavoro corale, registrato in momenti e luoghi diversi, nel corso di dieci anni, nato da un colloquio tra due parmensi doc, Giovanni Amighetti e Michele Vallisneri, il primo una vecchia conoscenza di Musicabile, musicista eclettico, producer, il secondo professore ordinario di Fisica Gravitazionale presso il Dipartimento di Fisica del Politecnico federale di Zurigo con anni passati a lavorare per la Nasa. 

“La sua ricerca si concentra sull’analisi statistica e computazionale dei dati relativi alle onde gravitazionali, contribuendo allo sviluppo di strumenti software avanzati per la simulazione e l’interpretazione dei segnali”, ho letto da qualche parte mentre mi preparavo all’intervista con Giovanni e David Rhodes. Proprio per questi suoi studi Vallisneri ha contattato una decina di anni fa Amighetti. All’inizio il musicista doveva essere parte di uno studio alquanto complesso, far suonare queste onde per usarle come una sorta di linguaggio di trasmissione, invece questo incontro telefonico ha fruttato nella creatività di Giovanni e di David Rhodes, coinvolto da Giovanni, la possibilità di usare gli stessi argomenti per comporre un disco che avesse come tema lo spazio.

Nulla di iper sperimentale, ma un complesso sistema di note molto terrene, suonate da strumenti, software e synth. Un punto di vista umano sui mondi là fuori nel buio dell’universo. Il nucleo artistico del progetto, oltre a David Rhodes (voce e chitarra elettrica) e a  Giovanni Amighetti (sintetizzatori), era composto dal chitarrista Sami Roger Ludvigsen e dal batterista Paolo Vinaccia, morto nel 2019. A loro si sono uniti, nel corso del tempo: Pier Bernardi (basso), Jeff Coffin (sax), Faris Amine (chitarra e voce), Sidiki Camara (percussioni), Wu Fei (voce), Gabin Dabiré (voce, anche lui mancato nel 2023), Roberto Gualdi (batteria), Valerio Combass Bruno (basso) e Moreno Conficconi (clarinetto) e Stefano Riccò, il fonico che registrava e che ha anche mixato il disco.

Ho avuto la fortuna – e il privilegio – di fare la parte del pubblico alle prove del concerto. Ci siamo trovati al CPM Institute, istituto di Musica fondato da Franco Mussida, il 7 maggio scorso, David, Giovanni e gli E-Wired Empathy con Luca Nobis, Stefania Morciano, Moreno Conficconi e il giovane bassista Giulio Molteni, allievo del CPM, dovevano preparare i due concerti di presentazione del disco a Parma e a Lodi. Avevo già ascoltato l’album e risentirlo dal vivo, con una formazione diversa, a parte David e Giovanni, è stata una grande bella sorpresa. «È un progetto giovane che si presta a essere interpretato da tanti musicisti, anzi si arricchisce ogni volta», mi dice David. Un lavoro composto da nove tracce per 51 minuti di ascolto dove si dipana, in una sorta di viaggio senza spazi, confini e limitazioni, una storia raccontata attraverso la musica. 

L’improvvisazione è stata fin dall’inizio il motivo trainante del progetto, dalle chitarre usate per “narrare” lo spazio siderale, alle voci, quella metallica e inconfondibile di David, non a caso chitarrista della storica formazione di Peter Gabriel – gli altri erano Tony Levin, Manu Katché e David Sancious – quella calda di Gabin Dabiré, o blues di Faris Amine, o armoniosa di Wu Fei. 

Com’è nato The Fermi Paradox?
Giovanni: «Sono passati molti anni! Ricordo che Michele Vallisneri, allora al Jet Propulsory Laboratory (JPL) di Pasadena mi aveva contattato per fare un lavoro con la forma delle onde gravitazionali per creare suoni, una cosa piuttosto complicata. Al JPL mi spiegarono che avevano scoperto il suono delle onde gravitazionali, che all’epoca volevano usare per misurare un qualcosa di cui non ti so assolutamente spiegare (ride, ndr). Quindi, all’inizio ho declinato ma poi ho iniziato a riflettere con Vallisneri e altri scienziati del gruppo su come poter collaborare insieme. Un giorno ero al cinema con mia figlia per vedere il film del concerto di Peter Gabriel (Back To Front) e lì finalmente ho sentito la chitarra di David, che di solito, soprattutto nei dischi, è sempre molto bassa perché amalgamata con gli altri strumenti, uscire potente. Ho pensato: “è un suono fantastico per questo tipo di progetto”, così ho contattato David».

E tu David, ovviamente hai accettato subito?
David: «Sì, ci siamo trovati a Correggio al   in uno studio di registrazione assieme a Roger (Ludvigsen, ndr) e un percussionista, invitati da Giovanni per sperimentare e improvvisare intorno alle idee di “spazi”. Giovanni ci dava una frase e diceva: “Questa deve riguardare, la gravità oppure la distanza, insomma cose del genere. Erano idee piuttosto che una ricerca scientifica, ma ci servivano solo per esprimerci, giusto Giovanni?».
Giovanni: «Quel giorno avevo la febbre, di solito quando lavoro a un progetto chiamo un gruppo di musicisti, invece non avevo portato nessuno, tranne noi quattro. Abbiamo parlato con Michele in videochiamata, solo per avere un’idea del percorso generale, del concetto. Quindi abbiamo cominciato, ricordo che non abbiamo usato nemmeno il click per stabilire un Bpm. David e Roger hanno semplicemente iniziato a suonare…».

Avete improvvisato?
David: «Abbiamo più o meno scelto un tempo, Giovanni ci ha dato lo spunto, il soggetto, e poi abbiamo iniziato a comporre. Roger è un ottimo musicista, il nostro modo di suonare è molto simile per aree e per suoni, ma ci prendevamo ruoli diversi in momenti diversi. A volte io ero più ritmico e lui più melodico e viceversa. È stata una bella interazione, abbiamo cercato di costruire delle forme nel lavoro, ma credo ci sia stato molto editing dopo per rendere i pezzi più coerenti».
Giovanni: Non ne sono così sicuro, voglio dire, abbiamo editato alcune parti ma poi abbiamo deciso di non aggiungere troppo. C’è molto editing soltanto in un brano, ma per gli altri abbiamo fatto una scelta del registrato per dare loro una forma e contenerli in un tempo d’esecuzione».

David come hai preparato il suono della tua chitarra per The Fermi Paradox?
David: «Quando ci siamo trovati a Correggio al Dudemusic ero già in giro per lavoro, con me avevo solo una piccola scheda digitale Guitar Rig (software che emula amplificatori ed effetti per chitarra, ndr). Abbiamo noleggiato un paio di amplificatori Roland Jazz Chorus. Non è importante quello che hai a disposizione, ma come ti approcci a quello che hai in quel momento tra le mani. Credo capiti a chiunque suoni abbastanza. Con me non avevo la mia pedaliera analogica perché viaggiavo leggero, stavo usando quel sistema digitale per fare comunque alcuni spettacoli dal vivo, mi bastava e mi sentivo a mio agio. Voglio dire, non lo userei ora, ma se dovessi, lo rifarei. In fin dei conti sono solo strumenti, e qualsiasi strumento usi, ti serve per arrivare dove vuoi arrivare».

Da sinistra, Moreno Conficconi, Giovanni Amighetti, Stefania Morciano, Giulio Molteni, David Rhodes, Roberto Gualdi, Luca Nobis – Foto di Gloria Cavasino

L’album inizia con un suono molto… psichedelico per poi passare a uno più “materiale” nelle ultime canzoni. L’avete pensato come un viaggio nello spazio?
Giovanni: «L’idea iniziale del progetto riguarda lo spazio e il paradosso di Fermi, ma anche come noi percepiamo lo spazio, lo sentiamo. Quindi, si tratta di una sensazione molto umana. Possiamo pensare a tutte queste cose incredibili, ai viaggi spaziali o alle possibilità di vita o altro, ma in realtà viviamo nei nostri piccoli mondi. Il disco è composto da nove brani: dal vivo abbiamo deciso di suonarne solo sette per poter aggiungere il concetto del Paradosso di Fermi ricorrendo a un approccio ancora più… umano. Ecco dunque il ricorso a Stefania Morciano per andare sui temi della Notte della Taranta, o di Moreno Conficconi. La loro versione del Fermi Paradox è stata molto buona. Sono molto diverse, entrambe interessanti».

Quali sono le differenze?
Giovanni: «La prima è che non c’è Roger, mentre la maggior parte dei suoni sono stati fatti proprio da David e Roger, con l’aggiunta anche dei miei sintetizzatori, ma il suono base che senti sul disco è fatto dalle loro chitarre».
David: «Sono d’accordo con Giovanni. Per il resto credo che abbiamo mantenuto il concetto ed è stato bello avere questi musicisti con cui lavoriamo già dal 14 settembre scorso, quando ho suonato con loro a Gatteo a Mare. Quindi è stato semplice per noi dire: “ok, abbiamo una band dal vivo che può fare questo tipo di cose”. Alcuni di questi musicisti hanno suonato anche nel disco. Va bene cambiare la formazione, cambiare l’approccio, è un progetto ancora molto giovane, francamente non credo ci si debba aspettare che rimanga lo stesso o che debba essere una versione precisa del disco. Siamo persone che cercano di lavorare insieme, improvvisiamo parecchio e cerchiamo di capire un modo per farlo bene».