Luca Coi Baffi: Canto… basta sia fuori città

E se tornasse l’inverno/ Un fuoco scalderà le nostre mani/ Per mangiarsi, per toccarsi ancora un po’/ E se dovessi morire/ Domani o chissà quando non lo so/ Puoi nascondermi in giardino sotto le nuvole, basta sia fuori città (da Sotto le Nuvole)

«Mi devi perdonare, sono tornato dal lavoro, ho mangiato qualcosa e sono crollato». Perché che lavoro fai? «Faccio il corriere a Roma e abito in un paese a 40 chilometri dalla capitale». Luca Casentini, aka Luca Coi Baffi, classe ’97, è un giovane cantautore che ha un bel po’ di numeri nelle sue tasche. Dopo un primo Ep piuttosto elettrico, un indie-rock martellante dal titolo Devo parlarne con mio padre, il 9 gennaio scorso ha pubblicato Basta sia fuori città, sei brani di tutt’altro tenore, dove in mezzo alla crisi sul futuro di un giovane che fa un lavoro trafelato per poter suonare la sua musica, prevale la voglia di cercare la felicità nelle piccole cose di tutti i giorni. « Lo faccio per me», dice ed è una delle frasi che ripete di più durante la nostra telefonata. 

Figlio di un artista – suo padre è pittore e scultore – non recrimina nulla della sua scelta. Sa che la fatica sarà tripla, accetta, ma non passivamente, il suo lavoro attuale, e intanto scrive, lo fa da quando aveva sedici anni. «A metà marzo primi di aprile usciranno altri due singoli, sempre canzoni “vecchie” che stavano facendo la polvere e poi, di sicuro un album entro fine anno», anticipa. «Non so che direzione prenderò, sono tentato di avventurarmi da solo chitarra e voce, più intimo. Spero di farcela, devo comprarmi il computer nuovo perché il vecchio s’è rotto e al momento non posso registrare neanche le demo. Nessun problema, quando lo acquisterò mi metterò all’opera, vedremo cosa verrà fuori».

In lui, ed è stato questo a interessarmi, non c’è la voglia di prendere scorciatoie, per esempio di buttarsi sul pop mainstream, semmai il contrario, ha adottato una filosofia molto anni Settanta: ho qualcosa da dire, se mi ascoltate bene, altrimenti so che a me farà comunque bene per riuscire a navigare in questo mondo pieno di contraddizioni e senza punti di riferimento. «Canto e suono da quando facevo le elementari, dopo aver trovato una vecchia chitarra di mio padre nell’armadio. Appena ho sentito quel suono mi sono appassionato e non ho più smesso», racconta.  Il brano che meglio racconta questo giovane artista è Sotto le Nuvole, una canzone classicamente cantautorale, ricca di tensione e semplicità, che per certi versi ricorda l’incedere della scuola genovese.

Il tuo primo Ep, Devo parlarne con mio padre, uscito lo scorso anno, è ruvido nervoso… esattamente l’opposto di questo!
«Il primo disco è stato un po’, passami il termine, “forzato”. Quelle canzoni nate per chitarra e voce le ho volute vestire in un modo più conciliante con le mode di oggi. Sono andato oltre, e in realtà, suonate così non hanno il giusto credito. Quindi sono ritornato indietro e il risultato è un lavoro, come suono e produzione, molto più autentico. Mi piacerebbe definirmi un cantautore, anche se ho ancora tanto da lavorare».

Basta sia fuori città è il titolo dell’album ma sono anche le ultime parole che pronunci nell’ultima traccia dell’Ep, Sotto le Nuvole, una ballad dal sapore oserei deandreiano. Tutto voluto?
«Sì la scelta del titolo non è causale, ma neanche troppo pensata: è uscito in modo naturale. Anche perché queste canzoni non sono state scritte tutte nello stesso momento, non c’è stato un ragionamento a priori sui brani. Niente da fare è stata la prima che ho composto dieci anni fa quando avevo 17 anni, mentre Sotto le Nuvole è l’ultima. Però tra loro c’è un filo conduttore a livello di tematiche esistenziali. Si accetta il fatto che tutto abbia un inizio e una fine e che quindi noi non possiamo farci nulla. Un po’ quello che sosteneva Schopenhauer che vedeva nella vita un’oscillazione tra il dolore e la noia intervallata da gioie illusorie». 

Quindi tornando al titolo, la città è un piacere illusorio?
«Sì, ti porta via dall’essenza della vita». 

Il primo brano parte con un secco Non ci sto, è un atto di ribellione contro chi o cosa?
«Contro se stessi. Ogni tanto ci si odia per le “cavolate” che si commettono ma non vogliamo accettare il fatto che possiamo sbagliare, magari perché trattiamo male le persone che ci stanno accanto e anche noi stessi. Questa è la lettura del pezzo, poi magari chi lo sa, tra qualche anno cambierò opinione».

In Hiroshima, brano piuttosto duro parti, per contraltare con una melodia serena…
«Questa canzone l’ha scritta un mio caro amico ed ex chitarrista, Leonardo Passari. Me l’ha proposta e ho detto subito di “sì”. Parla di un dolore immenso che pensiamo sia solo il nostro, unico e gigantesco, invece è comune, condiviso». 

A 27 anni sei in controtendenza, hai scelto la strada del cantautorato. Come vedi la situazione attuale della musica italiana alla vigilia del festival di Sanremo? A proposito ci saresti andato all’Ariston se ti avessero scelto?
«No, non ci sarei andato! Se potessi, sparirei anche da qualunque social…».

Spiegati meglio…
«Mettono in secondo piano il contenuto, cioè la musica e il messaggio dell’artista. Come prima cosa si pensa a pubblicare un post fighetto su Instagram, piuttosto che comporre una canzone con un bel testo e una buona melodia. Non voglio fare il vecchio boomer, ma oggi conta più il contorno che il contenuto. Il problema, mi ci metto in mezzo anch’io, è la scarsità di linguaggio che usiamo, ci mancano le parole. Anni fa facevo un indie-pop semplice, sull’onda di questa musica più cotta e mangiata che ragionata. Non giudico nessuno: non mi reputo una persona super colta (non ho portato a termine gli studi per inseguire la musica), ed è come se… mi sentissi incompleto. Mi rendo conto che l’affanno del rimanere senza parole per una conoscenza superficiale della lingua italiana è un problema condiviso. Ascolto i cantautori degli anni Settanta e Ottanta: riuscivano a trasmettere grandi emozioni usando un linguaggio lineare, anche se difficile, che ti incanalava lungo un sentiero… Più parole generano più pensieri! Al momento ho il mio lavoro e il mio stipendio, quando posso vado a farmi qualche viaggetto, mi piace stare in mezzo alla natura, ho trovato il mio equilibrio. La musica è la mia passione, il mio sogno, la cosa che mi fa stare meglio al mondo, sarà per questo che non vado in ansia di ascolti. Non devo piacere a tutti. Lo faccio per me stesso!». 

Perché Luca Coi Baffi?
«Il nome nasce da una serie di vicende stupide. Quando avevo 16 anni sono stato uno dei primi ad avere i baffi della pubertà quindi ero diventato Luca, quello con i baffi, e poi perché sempre durante l’adolescenza ascoltavo un gruppo della scena punk pontina, i Godzilla & Le tre bambine coi baffi. Non poteva che essere questo il mio nome d’arte!».

Nonostante il tuo carattere schivo fai concerti?
«Sì e mi piacerebbe farne molti di più. Oltre a me ci sono Edoardo Paggi, alla chitarra e tastiere, Alessandro Tomassi al basso e Riccardo Cacciarella alla batteria. Riccardo è anche il produttore di quest’ultimo Ep. Se capita vado anche da solo, chitarra e voce, una dimensione molto più intima».