Gianni Savelli Media Res: «Con il sax vi racconto dove mi hanno portato gli Alisei»

Riprendo il 2025 parlandovi di Gianni Savelli e del suo ultimo lavoro uscito lo scorso anno per AlphaMusic dal titolo Alisei. Savelli, classe 1961, è un sassofonista eclettico, docente di Tecniche di Improvvisazione Musicale nel Conservatorio Luisa D’Annunzio di Pescara, un musicista che ha calcato molto palchi nazionali e internazionali, in orchestre e collaborazioni prestigiose, dalla PMJO, la Parco della Musica Jazz Orchestra – che ora, ahinoi!, non esiste più -, a Natalie Cole, Javier Girotto, Ornella Vanoni, Riccardo Cocciante, Renato Zero, Venditti, Barbarossa, Marina Rei… 

Gianni Savelli Media Res è il quintetto con cui questo artista si esprime, composto, oltre che da lui stesso, al sax tenore, da Fulvio Sigurtà alla tromba, Enrico Zanisi al piano, Luca Pirozzi al basso e Alessandro Marzi alla batteria e percussioni.

Alisei è il quarto album di Gianni “Media Res”. «Pubblico solo quando sento la necessità di trasmettere qualcosa a chi mi ascolta», mi racconta. Magellano, il penultimo disco (che vi consiglio di ascoltare se non lo avete ancora fatto), è uscito nel luglio del 2015. «Alisei è il suo seguito, dove ritornano i temi trattati in quell’album, il viaggio, le profondità oceaniche, l’avventura, il continuo cercare, innato nell’uomo…». Questa volta, però, con una riflessione più profonda e mirata. 

Media Res richiama l’espressione coniata da Orazio nella sua Ars poetica per spiegare una tecnica di scrittura in cui l’autore inizia una storia nel mezzo degli avvenimenti che si vogliono narrare. Per Gianni è qualcosa legato sì a questo concetto letterario e, dunque, per estensione, anche musicale, ma che lui ha allargato includendo il “suo” senso dello “stare nel mezzo” della musica, della società, della politica, del territorio. Ecco, dunque, che prende valore la Mediterraneità: la musica è un territorio senza frontiere, aperto alle contaminazioni, all’inclusione, alle culture. Segue, semplicemente, il migrare dell’uomo.

Alisei arriva a dieci anni di distanza dall’ultimo tuo lavoro…
«È la continuazione di un progetto che ho da parecchio tempo. Non ho fatto tanti dischi perché non mi va di buttare via la musica se non trovo motivazioni forti. Però ho già voglia di fare un nuovo disco, sai, si va avanti con l’età, mi devo muovere! Ho la fortuna di fare questo mestiere da tanto tempo, da quando avevo 19 anni. Sono stato fortunato perché ho vissuto in un’epoca che ti permetteva di vivere questa professione in modo molto… largo, eclettico, continuo, l’esatto opposto di quello che  sta succedendo oggi. Da insegnante al Conservatorio vedo i ragazzi che hanno prospettive completamente diverse rispetto a quelle in cui mi affacciavo io nei primi anni Ottanta. Ho suonato di tutto, per fortuna tante di queste cose le ho fatte in “Serie A”, ma non ho mai avuto preclusioni per nulla. Certo, suonando il sassofono, il jazz era la via più naturale. Arrivato ai 40 anni mi sono posto le classiche domande: cosa voglio fare, chi voglio essere? Quindi sono andato in cerca di quello che c’era di più profondo in me, in base alle tante esperienze fatte. È stato un percorso di esplorazione nel mio vissuto, nelle mie passioni. Da ragazzo avevo la predisposizione per scrivere musica, ho studiato composizione jazz, mi piace l’orchestrazione…

È un lavoro che hai fatto tenendo il timone verso l’ignoto!
«Fa il paio con Magellano. Allora, per scriverlo, lessi tante cose sull’esploratore, il diario di Antonio Pigafetta, che sopravvisse all’impresa. In quell’epoca c’era il boom di navigatori-esploratori, sai quanti ne son  partiti e quanti pochi ne son tornati. Magellano lo conosciamo perché c’è stata una testimonianza. Ecco, la nostra vita è così: nasciamo, non sappiamo nulla di noi, cresciamo esplorando, facendo nuove esperienze. Questo anelito umano della scoperta, la caratteristica più importante dell’homo sapiens, idealmente mi affascina. Da ragazzo ero appassionato dei libri di Salgari, li ho letti e riletti tutti, e quando ho scoperto che questo tizio non aveva mai messo piede su una nave, sono rimasto sconvolto dalle descrizioni così dettagliate dei paesi, delle giungle, dei luoghi, dalla sua conoscenza e creatività».

Mi piace molto Melodia Sottomarina
«Le primissime battute mi erano uscite un sacco di tempo fa, poi le avevo lasciate nel cassetto, non sapevo come continuare il brano, nonostante molte prove. Poi c’è stato un periodo in cui mi sono appassionato a Roberto Rossellini. Il suo primo cortometraggio l’ha girato nella casetta di famiglia a Ladispoli. Si chiama Fantasia Sottomarina (1940, ndr) ed è stato girato in un acquario che aveva in casa. Racconta la storia d’amore di due saraghi e le lotte per la sopravvivenza nelle profondità del mare. Quest’idea di uno spaccato sottomarino, della vita, dell’acqua, del buio, mi ha fatto riprendere quel pezzo. Nel processo compositivo – che io vivo come un tarlo, una vita d’inferno – mi faccio dei veri e propri film dove ci sono personaggi, visioni, che mi aiutano ad andare avanti nella narrazione musicale».

Ascoltando i tuoi lavori si capisce che ti affascina molto l’orchestrazione!
«Adoro la musica a cavallo tra Ottocento e Novecento, Ravel, Debussy, Stravinskij, Bartók… Schönberg mi fa impazzire. Quello dell’orchestra è un mondo pieno di colori, di timbri, di sensazioni, è il mio mondo preferito. È vero che c’è anche l’elettronica, ma il modo in cui parlano tra loro gli strumenti acustici è inarrivabile dall’elettronica. Tanta parte della mia vita professionale è stata in orchestra, con PMJO (Parco della Musica Jazz Orchestra), abbiamo girato il mondo, anche se poi è finita per motivi di vario genere… Purtroppo quando c’entrano la politica, i bilanci e via dicendo queste iniziative sono destinate a fallire. Eppure, per salvarla sarebbero bastate un po’ di idee su come equilibrare una necessaria attività commerciale con l’esigenza di mantenere un’attività così prestigiosa. Tra noi musicisti c’era una affiatamento eccezionale, facevamo due, tre repertori al mese diversi, moltissimi concerti erano di altissimo livello, con noi hanno suonato Mike Stern, Bob Brookmeyer, Maria Schneider, Kenny Wheeler. Avevamo raggiunto un livello di solidità, di valore come organico di qualità, che lo puoi creare soltanto attraverso un lavoro continuo. Un patrimonio buttato alle ortiche con grande dispiacere di tutti quanti. Ti racconto questo perché, oltre a piacermi l’orchestra, ci ho suonato tantissimo. La musica è un linguaggio che ci trova sempre d’accordo, è veramente meravigliosa perché tocca degli aspetti della propria vita che sono profondi. Nella musica se tu ricerchi una finezza, questa può toccare chiunque, da quello più acculturato al profano. La musica va oltre…».

Foto Fabio Ciminiera

Perché hai scelto il sax?
«Mi sono avvicinato alla musica crescendo. Da ragazzino alle medie ho iniziato a suonare il flauto dolce, da adolescente mi sono avvicinato inevitabilmente al Rock. Ricordo che il primo disco ho comprato è stato Welcome dei Santana (lavoro sperimentale uscito nel novembre del 1973, che seguiva il mitico Caravanserai del1972, ndr). Il pezzo che dà il titolo all’album è di John Coltrane. In quello stesso album ha suonato anche la moglie di John, Alice Coltrane. Credo che sia stato proprio Coltrane a farmi innamorare del sassofono. C’era un amico che collezionava la collana di vinili della Fabbri I Grandi del Jazz e mi passava le cassette da 90 minuti per cui ci stavano due ellepi: piano piano ho iniziato ad ascoltare jazz e oltre a Coltrane credo che l’altra folgorazione siano stati gli Weather Report. Ho una passione smodata, ovvio, per il mio strumento, però per mia formazione ho sempre ascoltato qualsiasi cosa. Wayne Shorter diceva del sassofono che, rispetto ad altri, è uno strumento che puoi immaginare di farlo suonare come un violino, un flauto, una percussione, una tromba, un violoncello… Devo dirti la verità, forse è proprio questo che mi ha catturato del sassofono. Se prendi il clarinetto, hai tre o quattro modalità di suono, il sax, quello tenore in particolare, se lo ascolti suonato da Coltrane, Stan Getz, Sonny Rollins o James Senese sembra uno strumento diverso ogni volta. Il suono e l’approccio sono completamente differenti. È proprio questo essere camaleontico che vado ricercando in questo strumento». 

Quest’avventura che tu racconti, questo tuo vagar per mare applicato alla musica attuale che si ascolta tutti i giorni cosa ti fa pensare?
«La domanda è, dove sta andando l’uomo? Noi abbiamo la fortuna di vivere in Occidente in un posto dove puoi muoverti, dire quello che ti pare, sì, puoi venire criticato, ma chi se ne importa! Ci sono invece tanti altri paesi dove non è possibile fare nulla di tutto ciò. Quello che mi fa pensare è che noi, che abbiamo tutta questa libertà di pensiero e movimento, abbiamo un forte richiamo all’uomo forte che ci governi, che ci limiti nelle nostre libertà… perché vogliamo rinunciare a questo privilegio?».

La musica va di conseguenza?
«Sì, sembra che dobbiamo essere tutti uguali, dire e ascoltare le stesse cose, è terribile. È tutto un usa e getta. Speriamo che piano piano ci si renda conto che mangiare al fast food le stesse cose tutti i giorni a un certo punto diventa insopportabile e che un buon piatto di tagliatelle possa fare la differenza!».

Infatti, ci sono un sacco di bravi musicisti in Italia!
«Hai voglia! Insegno al Conservatorio vedo i ragazzi di vent’anni che si affacciano al mondo della musica e mi si stringe il cuore. Penso: poveri, ma quale futuro hanno? A 19 anni sono arrivato a Roma e, nell’arco di poco tempo, mi sono inserito velocemente in un ambiente vivace, ti chiamavano in studio di registrazione, uno, due, tre volte, alla quinta eri già un veterano! Oggi sei da solo, non c’è nemmeno il rapporto con chi ti paga, la sfida di riuscire a superare se stessi… C’è una finta velocità, senza effetti. Alla loro età correvo davvero perché ti lasciavano correre».

In questa situazione, ha senso il tuo essere controcorrente?
«Per me lo ha, ovvio! Non te lo so dire per gli altri. Ho l’esigenza imprescindibile di esprimermi, di dare qualche cosa in cambio della fortuna che mi è capitata facendo il musicista. Lo faccio per dare qualcosa di me? Anche, ma dare implica che un altro possa ricevere e ritrovarsi. Se hai avuto la fortuna di vedere che per qualcuno ha avuto un senso quello che tu hai fatto, beh… allora non c’è nulla di più bello! Vuol dire che ho davvero dato qualche cosa e che qualcosa di me continuerà a esistere nella vita di un’altra persona».