The BlueBeaters, 30 anni tra Ska e Reggae con la voglia di cambiare

Trent’anni insieme non sono pochi. Le nozze d’argento sono passate da un bel pezzo, ma i  BlueBeaters sono ancora saldamente insieme a festeggiare una lunga storia fatta di palchi, concerti, amicizia, ska, reggae e intese. «La vita media di una band, facendo le dovute eccezioni, è di cinque anni, come per i matrimoni», scherza Ferdinando Masi, in arte Count Ferdi, il batterista del gruppo milanese. 

«Dopo tutto questo tempo abbiamo sentito l’esigenza di andare oltre senza però snaturare quello che siamo: vogliamo aprire un nuovo capitolo della nostra storia», continua Count Ferdi. Dallo ska e dal reggae-roots stanno passando alla musica alternativa degli anni Ottanta e Novanta diventata poi parte di quel pop mainstream a cui molti artisti continuano ad attingere. 

La band, ovvero Pat Cosmo (Patrick Benifei) alla voce, Cato Senatore alla chitarra, De Angelo Parpaglione al sax e flauto, Henry Allavena al trombone, Danilo Scuccimarra al piano e organo, Tonino Chiodo al basso e Count Ferdi alla batteria, ha pubblicato un singolo, Mantra, che annuncia nuovi orizzonti nel suo percorso artistico. A marzo 2025 uscirà il loro “album della svolta”, cantato in italiano, senza cover solo con canzoni autorali. È dal 2020 che preparano il loro pubblico, basta ascoltare l’album Shock! che contiene Mamma perdonami (con Coez) o Ancora un giorno (con Willie Peyote).

Cosa vi ha portato a imboccare una nuova strada dopo tre decadi nella stessa direzione?
«Mantra è un singolo che riporta alla musica degli anni Ottanta, più funk, di derivazione Specials, Two Tone, Clash, per intenderci. Siamo cresciuti con quella musica lì. Abbiamo iniziato a fare Ska Original Classico anni Sessanta prima con Giuliano Palma per 18 anni e poi per altri 11 con Patrick Benifei. Siamo arrivati a un bel numero tondo e abbiamo sentito l’esigenza di cambiare. Il nuovo disco sta nascendo per l’urgenza di dire cose che non siano sempre di altri. È vero che le cover le abbiamo sempre scelte in base ai contenuti oltre che alla parte melodica. Quando Giuliano ha deciso di prendere la via solista ci siamo dovuti riorganizzare per poter continuare a suonare dal vivo; nel 2015 abbiamo pubblicato Everybody Knows, ultimo nostro disco di cover. Con il passare del tempo abbiamo iniziato a scrivere brani nostri. Patrick è un cantante talentuoso ed è molto bravo nella scrittura dei testi. Questo singolo cambia leggermente anche i riferimenti musicali, pur rimanendo in una musica jamaicana, nera. Con lui sono stato nei Casino Royal, questa roba qua ce l’abbiamo dentro…».

Il disco doveva veder gli scaffali quest’anno…
«Lo abbiamo spostato a marzo 2025. Volevamo farlo uscire lo scorso ottobre, ma i realtà non è stato ancora completato. Viviamo tutti in città diverse, per lavorarci dobbiamo essere fisicamente presenti e così finisce che ci troviamo solo nei fine settimana… Un disco nuovo, non più di cover, con un entusiasmo rinnovato nel fare pezzi autorali, richiede molto lavoro e attenzione. Soprattutto oggi, sommersi da migliaia di uscite giornaliere. Così ci siamo fermati cercando di portare a termine un lavoro da “band normale” in tutti i sensi, anche a livello promozionale. Il disco, dunque, lo consegneremo a dicembre con i tempi discografici nella norma».

Parliamo del mercato musicale attuale: chi vuol fare l’artista e avere successo in gran parte dei casi è preso in carico dalle label, creato, masticato e sputato… Aspettativa di vita artistica, un anno a farla grande.
«Un ragazzino che ha delle potenzialità e capisce che può avere un contratto con una casa discografica che giustamente non regala niente, è normale che si affidi. Per le label sei un investimento, costi (e molto), per cui ti spremono fin quando non hai più niente da dare. Così a 20, 25 anni, magari con un po’ di fama raggiunta, non hai più la testa per scrivere cose nuove, ti inaridisci. Bisogna essere mentalmente preparati a tutto ciò. E poi, cambia tutto così velocemente che uno diventa fuori moda in due mesi, altroché un anno!».

Il problema nel mainstream sta anche nella musica, quella suonata è sempre meno!
«Te la puoi fare a casa con i mezzi tecnologici a disposizione e non come un vero musicista consapevole di quello che fa. Che significa, prendere uno studio, pagare un fonico, gestire i musicisti che suonano con te… un dispendio di soldi ed energie. Nella tua cameretta è molto più semplice, infatti ci sono molti meno gruppi di un tempo. Il fenomeno Måneskin può aver rilanciato questo tipo di immagine, e cioè che la band rock è ancora possibile…».

Ma loro sono implosi, sono stati una meteora…
«Hanno avuto più o meno la storia di molti gruppi della Seconda metà del Novecento, vedi i Clash durati cinque anni ma poi diventati un mito, perché hanno cambiato la storia della musica. O, meglio ancora, i Beatles: sono entrati nella storia in pochissimi anni poi ognuno di loro ha fatto cose nuove, diverse da solista».

Il vostro segreto di longevità invece quale è stato?
«Abbiamo avuto la fortuna di “aver fatto parte di…”. Quella di 30, 40 anni fa era una scena molto diversa, c’erano i punk, i rocker, l’heavy Metal, lo ska, generi che adesso non ci sono quasi più, il grunge è stato l’ultimo genere veramente rivoluzionario, ed eravamo negli anni Novanta. Oggi è un po’ tutto commerciale, sempre legato a quello che funziona, si va sul sicuro. Non ti trovi più, come facevamo noi con i Casino Royal a Sant’Eustorgio a cazzeggiare  per poi andare in sala prove a suonare gli strumenti, quelli veri. Non critico né trap né rap, però mancano gli scambi creativi».

Ferdinando, 30 anni passati a razzo!
«Sono tanti ma ne è valsa la pena. Abbiamo avuto il nostro momento magico quando ci siamo fatti il disco da soli vendendolo da casa (The Album). Ero io l’incaricato, Internet non funzionava ancora benissimo e le carte di credito non erano la modalità di pagamento più sicura, così si faceva quasi tutto per vaglia postali: nonostante ciò abbiamo smerciato 12mila copie, incredibile! I Bluebeaters sono nati da un misto di gruppi della scena musicale di quegli anni, abbiamo  fatto il primo disco dopo cinque anni che suonavamo insieme, eravamo diventati una sorta di gruppo mistico che dovevi andare ad ascoltare perché in giro di stampato non trovavi niente. Quando abbiamo pubblicato quel disco finalmente tutti hanno potuto ascoltare esattamente quello che sentivano ai concerti. Nei momenti in cui avremmo potuto diventare un gruppo mainstream pur facendo cover, avendo un nutrito pubblico ai concerti, andando in televisione per qualche apparizione, la musica intorno a noi è cambiata, con il digitale è mutato l’intero “sistema musica”. Oggi si fa molta più fatica a organizzare un tour, a vendere i dischi, sei pieno di impegni da sbrigare e devi fare una scelta fra tutto questo. In 30 anni ci siamo comunque mantenuti il nostro giro di concerti, abbiamo cominciato ad aprire un po’ all’estero, in Messico, Inghilterra, Francia, cose che con Giuliano non avevamo fatto, eccezione per un paio di date in Inghilterra…».

Con buoni risultati?
«Sì, in Messico ci hanno accolto con la serietà di un gruppo che ha una lunga storia di vita e di palco. Facevamo soggezione, avere 30 anni sulle spalle vorrà pur dire qualcosa! A fine agosto abbiamo suonato in un festival in Germania. Lì ho trovato un musicista che si era esibito negli anni Novanta in uno dei tanti festival dove c’eravamo anche noi, è stato lui a riconoscermi! Con questo voglio dire che siamo sempre gli stessi da anni, non stiamo cambiando pelle. Vogliamo continuare a suonare perché ci piace stare insieme, condividere musica e amicizia con uno sguardo al futuro».