Mimmo Cavallaro, la musica popolare nasce dal… Mirjiu

In questo blog parlo spesso di musica popolare. Perché è una musica in movimento, a dispetto di quelli che la liquidano come noiosa e ripetitiva. Una musica dall’alto potere contaminante, a cui fior di artisti hanno attinto – e non solo qui in Italia. Qualche settimana fa vi ho presentato Romagna 2.0 il lavoro di Moreno Conficconi con gli E-Wired Empathy, dove il liscio viene presentato con una nuova chiave di lettura. Oggi vi propongo Mirjiu, ultimo album di Mimmo Cavallaro, uno dei grandi maestri della musica popolare italiana. Da Gatteo a Mare scendiamo a Caulonia, cittadina nella parte ionica di Calabria, dove è nato e vive orgogliosamente Cavallaro. 

Mimmo, classe 1957, oltre a essere il nuovo padre della musica popolare calabrese è uno studioso pignolo di canti e ritmi. Come fecero l’etnomusicologo Alan Lomax e Diego Carpitella nel 1954/55 dando vita a Italian Treasury, ha registrato in presa diretta ore e ore di canti, musiche e brani trasmessi solo oralmente per conservarne storia, cultura e identità. La musica popolare in tutti questi casi non è rimasta ferma, ma si è evoluta, basti pensare alla Pizzica Salentina, citata più e più volte su Musicabile.

Spiega Mimmo nella presentazione del suo lavoro: «Sono contento di questo disco che arriva dopo sette anni dall’uscita di Calanchi. I brani rappresentano una successione di sensazioni ed emozioni connessi a personaggi, storie della mia infanzia e luoghi che parlano di quella piccola parte di Calabria che ho vissuto con la mia famiglia. Lo spopolamento e l’abbandono lasciano segni indelebili nell’anima di chi ne ha vissuto i profumi, i suoni e i momenti; contadini e pastori che ne hanno rispettato e amato ogni essere e ogni cosa». 

Miriju nel dialetto calabrese significa, osservare. E l’artista, calato nella veste di un moderno cantastorie, racconta in chiave moderna la sua infanzia e la sua terra. Nei 12 brani che compongono il lavoro c’è la voglia di non fermarsi a una unica narrazione, ma contaminarla in modo da avere più versioni, arricchendola con altre voci: c’è Davide Van de Sfroos nell’unica canzone cantata in italiano, Una Storia mille Storie, Antonella Ruggiero in una commovente Ninna Oh, il rapper Kento, al secolo Francesco Carlo, in Mirjiu, brano che dà il titolo all’album, sintesi di quello che Cavallaro da direttore artistico del Kaulonia Tarantella Festival si prefigge, ovvero la commistione tra generi per “fortificare” (e sperimentare con) la musica popolare. E ancora, il violinista Jamal Oassini (della Tangeri Café Orchestra) in Giamba u Violinista, il compaesano Marcello Cirillo nella giocosa Tarantella di lu sciorru.

Tra chitarra battente, ciaramelle (i flauti), i tamburi a cornice e la lira calabrese la musica arriva dritta al cuore e alle gambe. È una musica fatta per danzare, è quell’atmosfera popolare che accomuna tutti senza distinzione di censo, lavoro, idee politiche, l’unico posto dove puoi dire che la condivisione è reale non costruita. 

Ultima annotazione prima di leggere l’intervista con Mimmo: quest’anno il tema della 26esima edizione del Kaulonia Tarantella Festival che si terrà dal 21 al 24 agosto è Generation Tarantella. Spiega Mimmo nella veste di direttore artistico: «È un titolo che sottolinea con orgoglio quanto, in un mondo sempre più globalizzato dove le culture e le tradizioni locali rischiano di essere sopraffatte dalla crescente omogeneizzazione e uniformità culturale, sia fondamentale preservare e valorizzare le culture periferiche». Oltre ai concerti, seminari sugli strumenti tradizionali, dalla chitarra battente alla lira calabrese ai tamburi a cornice, corsi di ballo, tarantella calabrese e pizzica.  

Mimmo, innanzitutto: cosa vuol dire Mirjiu?
«Deriva da mirare, osservare. Questo termine veniva utilizzato per descrivere l’atteggiamento delle greggi di animali che, al pascolo nelle ore più calde della giornata, si ritiravano in una zona più fresca e, immobili, osservavano quello che avevano intorno. Questo loro  atteggiamento si chiama “stare al mirjiu”, cioè stare a guardare senza far niente. Parola utilizzata anche per le persone che oziano in alcune ore della giornata, quando la calura è insopportabile».

Applicato al disco, che cosa si guarda?
«Quello che succede intorno a noi oggi, questo nostro mondo che in qualche modo va verso direzioni che a volte ci fanno paura».

È un album di ricordi per guardare avanti?
«In genere in tutto quello che scrivo mi rifaccio ai luoghi che ho vissuto e ai personaggi che ho conosciuto o di cui ne ho sentito parlare. Lo faccio perché credo sia importante dare valore e senso alle cose che stanno dietro di noi. Per esempio ricordando Giamba u Violinista, personaggio che ho conosciuto attraverso i racconti dei paesani di Caulonia Centro, dove lui viveva negli anni Cinquanta. Nei vicoli e nelle stradine risuonava spesso il suo violino. Faceva le serenate anche fuori città: partiva per le campagne con la sua bicicletta e con il violino a tracolla. Giamba non era uno famoso, anzi veniva deriso dai suoi stessi paesani, ma in qualche modo era un uomo che aveva una sensibilità straordinaria, anche se poi ha fatto una brutta fine. Viveva da solo e la solitudine è una brutta bestia, l’ha portato al suicidio. Mi piace raccontare di queste persone prive di storia che hanno però dato la loro vita al territorio dove vivo».

E Jimbusedu, ultima traccia del disco?
«Significa gobbo, racconta di uno che va al mercato per comprasi una chitarra, la moglie è tutta orgogliosa del marito che suona uno strumento. Chi suonava per hobby uno strumento popolare era tenuto molto in considerazione, e anche se lui fisicamente era gobbo e goffo, aveva comunque un suo fascino grazie alla musica che suonava».

Passiamo alla cover del disco: un foto in mezzo a un campo con una signora che copre gli occhi a un uomo seduto su una sedia…
«Quella donna è mia mamma e quello a cui lei chiude gli occhi sono io. Mia mamma, che oggi ha 93 anni, è stata sempre una grande fonte di ispirazione per me, è lei che mi ha raccontato le storie dei canti, della campagna. Mi copre gli occhi perché io possa vedere con i suoi, lei che ha vissuto e visto il mondo in una prospettiva diversa da quella in cui lo vedo io. Lei arriva dal passato e va avanti: è il passato che ti porta nel futuro. Si ritorna sempre al Mirjiu».

Cosa vuol dire per te fare musica popolare?
«È importantissimo perché rispecchia quello che sono realmente. Provengo da questa parte di Calabria, dove ho vissuto il mondo contadino e dei pastori che cantavano all’aria aperta, ogni occasione era buona per fare festa, per suonare la zampogna, per ballare. Si festeggiava alla fine del raccolto, per i matrimoni, i battesimi, un’occasione si trovava sempre! Ecco, fare musica popolare vuol dire mettere in evidenza la mia identità, quello che sono, da dove vengo, cosa faccio. Un modo per dire che non mi vergogno di provenire da questa terra, voglio che la mia cultura non si disperda, spazzata via dalla globalizzazione che prepotentemente cerca di cancellare le culture periferiche in sostituzione di una cultura che non si sa da dove arrivi e che cosa voglia rappresentare».

L’hai avuta sempre nel cuore o è una cosa che hai maturato con gli anni?
«Ho vissuto quel periodo dell’infanzia dove ho conosciuto il mondo della tradizione popolare, quello tramandato oralmente, poi da ragazzo ho iniziato a suonare la chitarra. Per un periodo di tempo ho fatto parte di gruppi che si interessavano alla canzone d’autore italiana, poi mi sono reso conto che la musica che avevo davvero dentro era quella della mia infanzia, di mia mamma, mio nonno, mio papà. Così ho deciso di approfondire la musica popolare, andando a registrare i cantori e i suonatori. Quindi ho iniziato a proporre, innovando, quello che avevo imparato e, piano piano, a scrivere e a comporre cose mie. Dal 2009, con il primo disco, Sona Battenti, prodotto da Taranta Power con la direzione di Eugenio Bennato fino a Mirjiu».

Sei rimasto ancorato alla tua terra, non te ne sei andato come tanti altri…
«Sono sempre stato fortemente radicato avendo qui la mia famiglia. Ho vissuto l’emigrazione, anche se stagionale: mio padre andava a lavorare in Svizzera, partiva ad aprile e tornava a casa a novembre. Questa terra era il nostro punto di riferimento per questo non l’abbiamo mai lasciata. Anche se povera, è ricca di tante altre cose, paesaggi, rapporti umani intensi, amore, cultura».

La Calabria della tua infanzia e la Calabria di oggi sono tanto diverse?
«La Calabria è cambiata nel tempo come è cambiata l’Italia. Quella di oggi dunque non è quella che ho conosciuto nella mia infanzia. Allora non c’erano l’energia elettrica, il telefono, le strade rotabili, si scendeva dal paesino a piedi, si facevano ore e ore di camminata per raggiungere Caulonia. Oggi in qualunque posto del nostro territorio si arriva in auto. L’unica differenza è che allora ci si accontentava di avere il necessario per vivere, mentre oggi questa società ci porta a volere e pretendere sempre di più».

Venendo alla musica: hai delle collaborazioni preziose, Antonella Ruggiero, Kento, Davide Van de Sfroos, Jamal Oassini, Marcello Cirillo, tuo compaesano…
«Le ho volute, perché erano gli artisti adatti a questo lavoro. Ho avuto modo di conoscerli grazie al Kaulonia Tarantella Festival, dove sono il direttore artistico. L’obiettivo del festival è far incontrare culture musicali differenti. Abbiamo cantato alcuni brani insieme, loro hanno cantato con me canzoni della Calabria e io brani del loro repertorio, incrociando così le nostre culture. Ho pensato che potevano essere gli artisti giusti per questo disco, volevo dare anche un respiro un po’ più nazionale al lavoro».

Sei considerato il padre della musica popolare calabrese. Ci sono giovani che ti chiamano perché vogliono approfondire l’argomento?
«Sì ci sono tanti ragazzi interessati soprattutto alla costruzione degli strumenti musicali tradizionali, la lira calabrese, la chitarra battente, il tamburello. Tempo fa mi ha chiamato anche una ragazza di Zurigo, che stava portando avanti un lavoro per l’università sulla musica popolare del mondo. Mi ha richiamato mesi dopo per ringraziarmi perché la sua tesi aveva ottenuto un punteggio molto alto».

Come ti spieghi tutto questo interesse?
«Ognuno alla fine percepisce il fatto che la musica popolare è veramente un linguaggio identificativo che ti riporta alla terra, ai luoghi, a un mondo che in qualche modo appartiene anche a loro e non solo ai loro padri o ai loro nonni. Si rendono conto che è importante interessarsi, non spazzare via ciò che rappresenta il loro passato».

Il rapper Kento annunciando la collaborazione con te ha scritto su Instagram che ti è grato perché è ritornato a scrivere nel suo dialetto d’origine…
«Il suo è un interesse genuino, pulito. Ho pensato subito che fosse un’occasione importante per far incontrare due mondi musicali apparentemente distanti ma in realtà più vicini di quanto si possa pensare. Francesco Carlo/Kento ha questo linguaggio straordinario, chiarissimo, molto musicale, i concetti e le tematiche che affronta sono interessantissimi. Lui è contento, ma lo sono anch’io».

Con il tuo gruppo state portando in giro il disco?
«Sì, per fortuna in Calabria c’è ancora qualcuno che compra il disco fisico».

E Kento ci sarà in qualche serata?
«L’abbiamo appena ospitato a Cittanova, è stato un concerto bellissimo, noi siamo stati bene con lui e c’è stata una grandissima risposta da parte del pubblico».

La tua è una musica che coinvolge, la musica popolare è trascinante!
«La gente che viene ai nostri concerti viene per ballare, stare insieme, divertirsi».

Che differenza c’è tra la Taranta pugliese e quella Calabrese?
«La Pizzica Salentina a livello di ritmo è sempre un terzinato ma con un timing veloce. La calabrese è molto più tranquilla, rilassata».

Variano anche gli strumenti…
«Noi abbiamo la lira calabrese, anche se in Puglia qualche gruppo la utilizza. Èn ata nella parte ionica, grazie ai greci e ai bizantini. Stesso discorso per la ciaramella e la zampogna, fiati che utilizziamo molto di più rispetto alla Puglia. Ancora, da noi la chitarra battente è parecchio diffusa, grazie anche a liutai che la costruiscono da sei generazioni, i De Bonis di Bisignano. Una famiglia che ha contribuito alla diffusione di questo strumento».

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