Sade Mangiaracina, quando il jazz diventa preghiera

Sade Mangiaracina – Foto Roberto Cifarelli

Può suonare strano pubblicare un doppio disco strumentale con un titolo che riporta subito alla voce: Prayers, Preghiere. Uscito su supporto fisico il 29 settembre per Tŭk Music è l’ultimo lavoro della pianista Sade Mangiaracina. Per completezza d’informazione, in digitale trovate solo il primo volume, il secondo sarà disponibile tra pochi giorni, il 20 ottobre. 

In realtà strano non lo è affatto: l’atto del chiedere o del ringraziare un essere soprannaturale è un gesto tanto intimo quanto globale e la musica, tra le arti, è quella che meglio definisce il rapporto con questo universo emozionale parallelo. Sade è riuscita in una non facile impresa: tradurre in quindici brani, altrettante tappe fondamentali della sua vita, del suo essere donna, artista, credente e madre. 

Due dischi, il primo universale, il secondo interiore, nel primo è accompagnata da Marco Bardoscia al contrabbasso e da Gianluca Brugnano alla batteria (formazione con cui ha pubblicato i due suoi album precedenti Le Mie Donne e Madiba), nel secondo da Luca Aquino alla tromba e Salvatore Maltana al contrabbasso. In entrambi i lavori come costante narrativa la presenza del Quartetto Alborada (Anton Berovski, Sonia Peana, Nico Ciricugno e Piero Salvatori).

Due lavori che sono lo Yin e lo Yang, l’universo armonioso ed euforico del primo volume e l’introspezione del secondo, data da quella tromba che prega, chiede, ringrazia, dove il suono diventa singhiozzo, una voce flebile che implora, in dialogo con la divinità interpretata da un pianoforte che sa rispondere con armonici rassicuranti, percorsi che passano dalla bellezza descrittiva di Kariye (chiesa d’epoca bizantina a Istanbul) al dialogo di Una supplica sul Muro dove il pianoforte usa un linguaggio Blues ad accentuare la forza di un messaggio scritto e infilato nelle millenarie pietre del Muro del Pianto di Gerusalemme.

Jerusalem è anche il titolo di un brano contenuto nel primo disco, racchiude un viaggio che Sade ha fatto alcuni anni fa con il marito e il loro bimbo di pochi mesi. L’incrocio delle tre grandi religioni monoteiste l’ha letteralmente fulminata, lo spiegherà lei stessa tra poco. Le preghiere sono quanto mai necessarie in questi giorni di brutali attacchi terroristici, di morte esibita, di incomprensioni. Ed ecco che Prayers diventa, suo malgrado, un disco di spiazzante attualità.

Ho ascoltato entrambi i dischi più e più volte. Il suono che Sade riesce a dare al pianoforte è pastoso, armonicamente ricco, riesce ad affascinare nelle sue traduzioni dal classico al contemporary jazz, esprime tutta la mediterraneità, il linguaggio che usa con il contrabbasso di Marco Bardoscia è sofisticato ma semplice allo stesso tempo, come complessa è la parte ritmica di Gianluca Brgugnano che fa un lavoro di cesello nei cambi di ritmo per preannunciare gli assoli, ascoltate Journey to Aya Sophia, omaggio al luogo di culto più famoso di Istanbul. Il richiamo del muezzin che apre Jerusalem è un invito a concentrarsi sulla melodia, preghiera contemporanea, dialogo fra tre “oranti”…

Nel secondo volume, come vi accennavo prima, tutta questa pienezza armonica protesa a ringraziare la divinità diventa più “intima” con la tromba di Luca Aquino e il contrabbasso di Salvatore Maltana. Come per il precedente, il livello dei musicisti è altissimo, con gli interventi del Quartetto Alborada trait d’union tra i due lavori. È sufficiente ascoltare Il Dio delle Piccole Cose, titolo che richiama il romanzo di Arundhati Roy per comprendere che ci si trova in un altro universo. Aquino è Aquino! Strepitoso. La sessione ritmica è stata affidata al solo contrabbasso senza batteria, proprio per creare un’altra narrazione, più personale. 

Sade Mangiaracina con questo doppio album si conferma una delle più belle e solari realtà del jazz italiano, attenta non solo alla qualità della musica ma soprattutto al progetto, al significato di un disco che non è solo musica ma contenuto di emozioni, pensiero, cultura. 

Sade, due dischi diversi tra loro, completamente!
«Sì, ma anche molto diversi dal passato, non trovi?».

Concordo, in questi due nuovi lavori c’è una magia particolare…
«Ho voluto disintossicarmi per un periodo perché è stato un grosso lavoro, ho scritto tutto anche la partitura degli archi. Ora che li ho riascoltati in occasione dell’uscita sento che le composizioni vanno un po’ più in profondità nella scrittura rispetto a prima…».

Perché hai deciso di dedicare due album alle preghiere?
«Perché è il mio modo di essere. Sono una persona estremamente cristiana, se vogliamo cattolica, anche se non mi riconosco nei canoni della Chiesa attuale, profondamente spirituale. La spiritualità è una mia grandissima curiosità: capire come, perché, nella vita di tutti noi, esista una propensione verso ciò che è astratto, intangibile, divino, quello che io semplicemente chiamo Dio, ma che per altri può essere la Natura, l’Universo. Se c’è un momento felice nella mia vita mi viene spontaneo dire: “Oh, Dio, grazie!”, e se mi capitano cose negative il mio sguardo è sempre proteso verso il cielo. È una cosa spontanea, mi è sempre successa. Se per me è così immagino che lo sia per ogni altro essere umano, qualcosa che vada oltre a ciò che materialmente tocchiamo».

Scorro i titoli del disco e trovo Journey to Aya Sofia
«Viene da un mio viaggio a Istanbul di alcuni anni fa. Ero con amici. Quando sono entrata in quella chiesa maestosa sono rimasta scioccata, un luogo sacro a 360 gradi, moschea, chiesa cattolica di nuovo moschea, di una bellezza sconvolgente. Lì dentro ho sentito un’aura di rispetto, un qualcosa che andava oltre e che non ti so spiegare. So solo che non volevo più andare via da lì!».

Tra le orazioni del primo volume c’è anche La marcia del Sale
«È un proseguimento se vuoi di Madiba. Mia madre, insegnante di storia e geografia, è stata da sempre innamorata di Martin Luther King, Gandhi e Mandela. Qui non potevo non citare il Mahatma e La marcia del sale. È tutto merito suo! 

E poi c’è Jerusalem, quanto mai attuale!
«È stato un altro viaggio pazzesco che ho fatto con mio figlio appena nato. Aveva forse cinque mesi. Con mio marito abbiamo deciso di andare a Gerusalemme per Pasqua. Istanbul e Gerusalemme sono le due città che più amo e che più mi hanno appassionato. La cosa bellissima di Gerusalemme è che tu esci dal Sacro Sepolcro e davanti ti trovi una moschea. Quel giorno lo ricordo bene perché in quel preciso momento iniziò a cantare il muezzin e fu stordente! Gerusalemme andrebbe visitata a prescindere, è la città più interculturale che abbia mai conosciuto, altro che New York!».

Come hai tradotto in musica tutte queste sensazioni?
«Quando sono tornata l’idea era di scrivere qualcosa, perché questo è il mio modo di fare musica, prendere delle storie e tradurle in note. Mi viene spontaneo. Lo so che non ci sono i testi, sembrerebbe assurdo parlare di una città attraverso la musica. Su Gerusalemme apro con il canto del muezzin che avevo registrato durante quel viaggio».

Veniamo al secondo disco, dalle grandi religioni monoteiste passi all’individuo, vedi Carnera, Cristiano, Una supplica sul Muro. Tutto voluto?
«Certo. Per Carnera, però dovresti sentire Luca Aquino, visto che il brano è suo (il doppio album vede anche Il Dio delle Piccole Cose di Salvatore Maltana e Oración del Remanso di Jorge Fandermole, ndr). Questo secondo volume va ancora di più in profondità nella scrittura, nel personale. Cristiano (brano che chiude il disco, ndr) è il nome di mio figlio. Una supplica nel Muro è molto intima, ognuno di noi implora, anche involontariamente. Prendi Kariye, che è un’altra chiesa, un’altra meraviglia che mi fa impazzire, si riflette inevitabilmente nella musica, in come è stata suonata».

Cosa mi dici di Ho’oponopono?
«È una preghiera laica della Hawaii. Sono frasi che ripetono come un mantra: ti amo, mi dispiace, ti prego perdonami, grazie. Come il Nam-myoho-renge-kyo tibetano. Per come ho costruito il brano, sono una serie di frasi che si ripetono e si ripetono… sembra un Ho’oponopono in musica».

Foto Tamara Casula

Molto intensa l’Oración del Remanso, in piano solo nel primo disco…
«È un brano scritto da un musicista argentino, Jorge Fandermole. Ma ti invito ad ascoltare un’altra versione, quella che mi ha fatto conoscere questo pezzo e che secondo me supera tutte le altre per livello armonico: quella di Renato Braz con il Quarteto Maogani (dall’album Canela del 2015, ndr). Quando l’ho ascoltata sono rimasta scioccata. È una preghiera laica bellissima, parla di una persona che va a pescare nel fiume e dice: Cristo Redentore fai che mia moglie non abbia preoccupazioni non abbia pensieri…».

Hai suonato con due formazioni. Nel primo Bardoscia e Brugnano, nella seconda Aquino e Maltana: con Maltana avete un progetto insieme a Franca Masi, cantante incredibile…
«Tutto quello che gravita intorno alla World Music mi affascina e Franca ha fatto della World Music la sua cifra stilistica».

Sade che musica ascolti?
«Partiamo da quando ero adolescente: avevo una coverband dei Beatles. Amo ancora oggi il pop, quello fatto bene. Nel 2002, a 16 anni, ero a Roma con mio padre e altri pazzi come noi davanti al Colosseo alle sei del mattino per vedere il concerto di Paul McCartney! Sono stata anche un’innamorata pazza del progressive: merito di mio padre, un hammondista e un pianista, che mi ha trasmesso l’amore per il genere. Poi è arrivato il jazz, sempre da mio padre: mi portava ai concerti, all’inizio mi addormentavo sulla sua spalla, piano piano ho iniziato a appassionarmi. Studiando musica classica al conservatorio poi mi sono avvicinata al jazz. Quello che mi ha sempre affascinato è ascoltare chi guarda avanti. Per esempio, per anni e per giornate intere ho studiato e ascoltato Esbjörn Svensson con il suo trio, Joshua Redman, Brad Melhdau, Avishai Cohen».

Perché non usi l’elettronica nella tua musica?
«Ho un rispetto profondo verso la musica elettronica e penso che se non la sai usare bene non la devi usare! Ora mi sto comprando un minimoog, ho un synth, un Fender Rhodes ma li suono solo quando sono sicura sia indispensabile per quello che sto facendo. Voglio arrivarci con calma e con studio. Ora sto iniziando a collaborare con Bonnot, artista di una sensibilità incredibile, abbiamo fatto insieme un concerto a Bergamo con Tino Tracanna. Usata bene l’elettronica è pazzesca».

Che cos’è secondo te il jazz oggi?
«Se vogliamo identificarlo con un modo di suonare appartenente al periodo che va dagli anni Quaranta ai Sessanta (be-bop hard-bop, ecc), quel linguaggio è jazz. Ma se è stato Miles Davies il primo a inserire nei suoi dischi tutta una serie di cose che andavano totalmente oltre quel linguaggio, chi siamo noi oggi per definire jazz un disco o un altro? Vanno dentro un calderone, un cerchio gigantesco di musica improvvisata. Definizione presa in prestito da Greg Osby: sostiene che dobbiamo parlare di musica improvvisata perché il jazz come espressione è diventata troppo stretta».

Dunque siamo nel Contemporary Jazz…
«Gli americani sono avanti rispetto a noi: tutto quello che viene dopo l’hard-bop è contemporary. Termine che in italiano non esiste, siamo un po’ arretrati su certe cose, lì invece l’hanno capito. Fanno le jam session con i rapper: non è forse jazz anche quello? Ho visto cose pazzesche a New York. Greg ha trovato un suo modo per definire la sua musica, lui grande musicista, ha suonato con i grandi jazzisti, però non disdegna tutto quello che c’è dopo, anzi, lo ama!».

Il jazz è una contaminazione continua di per sé… Sicilia, Sardegna e Puglia sono enclave dove il genere prospera infuso nella mediterraneità…
«Hai ragione, osserva “gli” Avishai Cohen, sia il contrabbassista sia il trombettista: attingono da tutta quella parte di musica ebraica che include cultura filosofica e religiosa. Non è forse jazz quello?».

Perché il jazz non può diventare mainstream come lo era il prog negli anni Settanta? Nel mainstream siamo livellati a un pop leggero spesso privo di idee. Che direzione abbiamo preso?
«Sta diventando banale anche il mondo e su questo i social hanno grandi responsabilità. È una deriva e la musica la segue: le canzoni devono arrivare subito, sono prive di contenuti. Non esistono più i De Andrè i Fossati, i Pino Daniele, e se c’è qualcuno, ha “scavalcato” i quaranta, come Capossela o Brunori Sas. I bravi musicisti e cantautori ci sono ma non vengono fuori perché le etichette vogliono una musica che stia tutta nelle 24 ore, così la gente ti guarda e ti ascolta, è il mondo TikTok. L’arte in generale è diventata così. Come facciamo a far diventare mainstream oggi una Daniela Pes, vincitrice del premio Tenco? Lei è pazzesca, fa un enorme lavoro di ricerca per creare un linguaggio diverso, con testi non facili. Come può essere mainstream? Lo è Elodie non certo lei. Figuriamoci nel jazz: una fatica mostruosa farsi notare. Noi ci siamo ma se non abbiamo i giornalisti che ci fanno conoscere… L’unico programma in televisione che è fuori dal coro è quello di Bollani, c’è poco su Rai5 e in tarda serata e poi Radio Tre. Basta. Tra i cantautori ce ne sono di pazzeschi. Vai su internet e cerca Cico Messina, di Mazara del Vallo, con cui ho collaborato, scrive e canta delle cose bellissime,  rimarrai scioccato!».

Una promessa è una promessa. Lo chiamerò e lo conosceremo insieme…