Witchess è l’acronimo di Womxn Implement The Creation of Harmonious Ecosystems of Selfless Species, un progetto interdisciplinare che unisce letteratura, danza e musica, nato dalla creatività di una musicista che conoscete piuttosto bene, Francesca Remigi, batterista di grande talento, della chitarrista Silvia Cignoli, della cantante e flautista Andrea Silvia Giordano e della ballerina Clotilde Cappelletti.
Un lavoro che si traduce in materia sonora e visiva potente, a tratti durissima, intelligente. In questa narrazione che prende spunto da alcune opere femministe contemporanee di scrittrici come Angela Davis, Silvia Federici, Chimamanda Ngozi Adichie, le quattro artiste hanno costruito una performance, come mi spiega Francesca che ho raggiunto a Berlino dove ora risiede per studio, «con l’obiettivo di reimmaginare un mondo senza patriarcato e ruoli di genere predefiniti».
L’omonimo disco è uscito poche settimane fa, è un lavoro che va inquadrato nel jazz sperimentale, nel noise, nella musica contemporanea. Non certo facile – va ascoltato e riascoltato – per la costruzione, l’uso dell’elettronica, le improvvisazioni dirompenti e serrate, il contenuto raccontato. Dentro c’è rigore filologico, rabbia, ma anche la speranza che scuotere chi ascolta possa portare ad avere una diversa visione su ciò che è “diverso” da te, aprirsi al confronto, ampliare la conoscenza per vivere in una società libera.

Un lavoro visto dalla parte del diverso, della minoranza, un tuo pallino da sempre!
«Sì, perché ho sempre sofferto il fatto di non sentirmi rappresentata e totalmente a mio agio nel mondo jazzistico, che dal punto di vista più antropologico, da sempre tende al maschile. Storicamente non ci sono mai state molte strumentiste donne. A maggior ragione se consideri il ruolo della batterista donna. Credo di essermi abbastanza svincolata da canoni estetici più jazzistici perché troppo restrittivi, anche il tipo di musica che viene suonata, da classica jam session dove devi dimostrare di essere tecnicamente preparato, virtuoso, soprattutto dal Bebop in poi, è diventata un’imposizione della propria individualità sugli altri, mentre invece ultimamente in altre aree, come per esempio quella dell’improvvisazione, mi sembra ci sia un ritorno a un’estetica più collettivista del fare musica, ed è la cosa più bella perché diventa un bel modo di comunicare e stare insieme agli altri».
Dunque ti sei orientata definitivamente sulla musica sperimentale!
«Con la mia musica sì. Poi suono con Simona Molinari, dove facciamo tutto fuorché musica sperimentale, con cui ho registrato a settembre. Sono presente anche in un singolo di Natale di Mario Biondi, quindi mi capita ancora di fare cose più “commerciali”…».
Perché questo genere ti attrae così tanto?
«Credo che faccia parte di una riflessione più ampia sul ruolo del musicista all’interno della società, e qui entriamo nella solita dicotomia musica fine a se stessa o musica che parla alle coscienze del pubblico. Per me perseguire la direzione di musica come denuncia e critica sociale, è una strada obbligata, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, con il genocidio in Palestina con Trump alla guida degli Stati Uniti d’America, con l’uso massiccio dell’Intelligenza Artificiale. Questo mio modo di approcciare la musica è un primo aspetto che mi porta un po’ fuori dai canoni estetici più piacioni e commerciali. Poi, c’è anche il ripensamento del ruolo non solo del musicista, ma anche dei vari strumenti all’interno dell’ensemble. Come batterista donna, non afroamericana, per esempio, rimane il retaggio jazzistico da cui provengo, dei miei studi accademici, ma lo sento mio fino a un certo punto, perché aver vissuto in America alcuni anni mi ha aiutato a capire che quella non è la mia storia. Io vengo da un contesto culturale che non ha niente a che vedere con la lotta di classe degli afroamericani negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta del Novecento. Con questo non voglio dire che non si possa riprodurne l’estetica per tenerla in vita. Dico solo che non è il mio vissuto. Ho sempre cercato di mettere le mie esperienze dirette, il mio vivere la vita nella mia musica. Io sono una privilegiata, nata e cresciuta in Europa, il continente più sicuro al mondo. La nostra storia culturale e musicale è un’altra».

Da sinistra, Francesca Remigi: batteria, composizione – Silvia Cignoli: chitarra elettrica, elettronica – Andrea S. Giordano: voce, flauto, elettronica – Clotilde Cappelletti: danza
Quindi, l’unico modo per affrontare queste tematiche è la musica sperimentale?
«Piuttosto che sperimentale mi piace definirla musica creativa. Non è un free jazz newyorkese, tipo Ornette Coleman, piuttosto richiama tutta quella corrente che si è sviluppata a Chicago a partire dagli anni Sessanta, penso a Roscoe Mitchell, che in qualche modo ha aperto il jazz ad altre contaminazioni estetiche, come per esempio alla musica elettronica. E ovviamente anche dalla scena europea, vedi Derek Bailey, in Inghilterra».
Questo album potrebbe essere letto anche come una sorta di incitamento a seguire questo tuo percorso. Chi sono i nuovi “sabotatori” del jazz?
«Dipende dalle scene, dai circuiti che uno frequenta. Ora, per esempio, sto vivendo a Berlino per uno scambio tra università per il mio dottorato, e capisco che ci sono dei giri molto molto diversi che non comunicano gli uni con gli altri. C’è la scena più sperimentale, noise, che si sviluppa attorno a certe venues, a certi club, invece la parte jazz più tradizionale, si ritrova al b-flat jazz club o allo Zig Zag. Sono scene che spesso non comunicano più di tanto ma ci sono casi in cui determinati musicisti militano in entrambe. In Italia mi sento abbastanza circondata da musicisti che sono sono sul mio stesso filone di ricerca. Sto pensando a Simone Massaron, a Francesca Naibo, musicisti già dediti alle pratiche improvvisative sperimentali, e anche ad altri che lo fanno da tantissimi anni, vedi Gianluigi Trovesi, Claudio Fasoli, Giancarlo Schiaffini».
Che studi stai facendo a Berlino?
«Di live coding con SuperCollider, programmazione musicale per la sintesi del suono. E quindi… sto diventando una nerd! Ha che fare col mio progetto di dottorato che riguarda la pratica in solo della batteria aumentata, estesa tramite elettronica. Riallacciandomi a ciò che dicevamo prima, alla questione di definizione identitaria in base all’etnia al genere, sto cercando di dimostrare come questa possa essere ricollegabile all’estetica e alla sperimentazione che un’artista poi decide di scegliere. Sto intervistando un sacco di batteristi e batteriste che praticano il solo… vedremo dove mi porta».
Vi siete esibiti dal vivo in più occasioni con questo progetto. Come ha reagito il pubblico?
«C’è gente che piange, gente che si alza e se ne va, un po’ di tutto. Il disco in sé è uscito da poco sto lavorando con un ufficio stampa tedesco e mi sembra che in Germania stia andando molto bene. Per adesso gli amici/colleghi che l’hanno ascoltato e le recensioni che stanno uscendo mi sembrano molto positive. Tornando alla reazione del pubblico, è uno spettacolo che tocca molto o allontana altrettanto, non ha mezzi termini».
E in Italia?
«Portare una performance così, con un pubblico che magari non è super aperto o super preparato a determinati suoni non è facile. A Berlino ho tenuto un paio di concerti più di improvvisazione e ho notato che vengono ad ascoltarti tantissime persone di tutte le età, tanti giovani. L’altro giorno sono andata a vedere questo ragazzo che faceva una specie di metal one man band, una cosa anche un po’ bruttina a dire la verità. Il locale era pieno, gente molto curiosa… probabilmente Berlino si sa che è una città abbastanza disposta all’avventura».