Loucani, tra poesia e migrazioni: il debutto del cantautore che canta le api e l’umanità

È uscito oggi il primo lavoro di Loucani, 32enne cantautore veronese. Il disco porta lo stesso nome, Loucani. «È un’anacrasi del mio nome e cognome, Luca Ossani», mi spiega. Lo raggiungo via streaming in Puglia. Abita e lavora vicino a Bari, da un anno si occupa della comunicazione di una Ong. Per fortuna, come tiene a sottolineare, ha avuto l’opportunità di viaggiare per il mondo. Studi economici, un master in sociologia e una passione per la letteratura e la musica, Loucani ha sintetizzato tutto il suo vivere in questo lavoro in parte autobiografico e in parte dedicato alle persone e alle culture di cui s’è assaporato nel suo peregrinare.

Mi dici scontroso disagiato distante/ di fondo diffidente/ Io mi adotto per quello che sono/ poi mi adatto alla meglio stando tra la gente. In questi versi di In Solitaria, seconda traccia dell’album, si descrive così, mentre in Amalamara un allegro crogiuolo di percussioni e chitarre latine racconta le migrazioni prendendo a spunto le api: Non è poi un allungo se è per non rientrare/ Vola e lascia volare/ Uno sciame dʼapi sul pelo dʼacqua sopra il mare/ Può non sembrare ma sa dove andare

La sua caratteristica è cambiare improvvisamente direzione, i brani sono un turbinio di svolte musicali e testuali. «Ho fatto impazzire i musicisti che hanno suonato con me, ma sono fatto così, voglio capire, riflettere» racconta, per questo la strada del cammino non è mai dritta, ben che vi vada dovrete fare un bel po’ di curve per arrivare dove Luca vi vuol condurre. Ed è proprio questo che mi ha affascinato di questo suo primo lavoro, disco che richiede più ascolti anche perché i testi sono tutto fuorché banali. Ascoltatevi Aquiloni, con il bel controcanto di Giulia Vallisari: Noi con gli aquiloni alti fra i sacconi gli occhi tesi i piedi fermi/ (già da oltre quarantʼanni)/ Con gli aquiloni alti fra i sacconi gli occhi tesi ai piedi ferri/ (da oltre quattrocento anni)/ Noi con gli aquiloni alti fra i sacconi gli occhi tesi e mani inermi.

Possiamo definire questo disco il riassunto della tua vita e dei tuoi viaggi?
«L’album in sé non è una sorta di diario di questi viaggi. A malapena potrebbe essere una sintesi di qualche momento, una fotografia di quando ho preso il tempo di organizzare quei pensieri che erano andati accumulandosi negli anni. Infatti, è una raccolta di scritti, pensieri e di armonie, di accompagnamenti che si sono sviluppati in vari anni per un paio di tracce. Il resto sono nate nei pochi mesi che hanno poi visto il lavoro nello studio di registrazione, accanto agli altri musicisti. I miei viaggi sono iniziati ben prima di allora: sin da ragazzo ho avuto la fortuna di poter visitare l’Europa e poi gli Stati Uniti e da lì approfondire l’attitudine a concepire il nostro mondo, da una parte globalizzato e al contempo molto provinciale. Verona è un ottimo esempio di quanto ti sto dicendo».

Dove vivi ora?
Sono in Puglia, ennesimo peregrinaggio. Al momento lavoro per una cooperativa sociale che si occupa di seconda accoglienza per migranti, progetti di inserimento lavorativo, di dignità di welfare, ma anche comunità terapeutiche per persone con dipendenze patologiche, disturbi cognitivi, neurodivergenze. Mi occupo della comunicazione, sono qui da un anno, però a Verona non ho più avuto base se non per periodi sparuti negli ultimi tempi».

Perché per esprimerti hai scelto la musica invece della narrazione o della poesia?
«In realtà, per come le concepisco, sono tutte forme di espressione in dialogo tra loro, perché possono nascere come componimenti più simili a poesia, senza per forza rientrare in metrica, o schemi dell’amor cortese o quant’altro. Possono essere musicati, oppure nascere semplicemente come motivetti, una specie di mantra che mi coinvolge, mi rapisce, e resta come leitmotiv delle mie giornate, accompagnandomi nell’attività di lavoro manuale o del divagare: camminando trovi un ritmo che ti accompagna, si sviluppa e raggiunge una sua forma più a tutto tondo, con dei momenti di respiro, di climax, di attenuazione e silenzio. Non ho una forma prediletta, infatti questo disco va in più direzioni».

Hai scritto i brani in vari periodi?
«Lo strumentale l’ho sviluppato in sei mesi circa, a ridosso della produzione in studio. Il più vecchio è Mille Piani, il pizzicato iniziale m’è venuto come idea embrionale addirittura nel 2016, non ti dico quante versioni ho registrato e riregistrato con diverse band fino a quest’ultima che mi piace molto. Il resto dei brani li ho scritti poco prima di registrarlo».

È comunque un lavoro molto… comunicativo!
«Spero sia figlio del suo tempo. Un tempo che manca di coesione politica, di intenti, di dialogo, ovviamente lo vediamo con le crisi che stiamo vivendo. Ci sono tanti diversi livelli di lettura che si possono dare. Io sono una persona piuttosto pragmatica e seguo la scuola della geopolitica perché è quello che la nostra realtà ci impone, geopolitica che passa anche dai corpi, tanto che tratto il tema delle delle migrazioni, che poi è la mia condizione odierna, nella quale mi sto impegnando di più e che probabilmente determinerà i lavori a venire. In ottica geopolitica osserviamo un grande discostamento tra quella che potrebbe essere un’occasione di mettere assieme tanti popoli e degli interessi che hanno ahimè a che fare come al solito, con la scarsità di risorse, o almeno così ci viene raccontata. Sono scelte politiche fatte per favorire i soliti attori più forti. Nell’album c’è un’attenzione particolare alle parti fragili ma anche uno slancio fortemente intimistico. Non so se sono riuscito a trovare l’equilibrio, questa era la mia intenzione, visto che sono entrambe componenti per me fondanti, tanto da essere impegnato nel sociale come lavoro e come interessi. Nel contempo l’espressione artistica che trascende anche la nostra condizione – ahimè gretta – di persone costrette a fare un altro lavoro per sopravvivere, mi è data dalla possibilità che ho di mettere delle parole in musica».

Insomma, un disco intimo che rispecchia la tua idea di una società multietnica e dunque vitale e creativa..
«L’altro giorno leggevo la storia del bandoneon spiegata da Astor Piazzolla. Lo strumento nasce nella Germania ecclesiastica e viene quindi portato in Argentina dai puritani per accompagnare le loro funzioni religiose. L’organo a canne era troppo impegnativo da trasportare, così hanno inventato un mini formato, il bandoneon, appunto, che poi è diventato l’accompagnamento delle peggiori balere delle città. A noi manca tanto questo sincretismo, siamo nati “tutti d’un pezzo”, per questo siamo portati a guardare solo al nostro orticello. Sicuramente il coltivare delle prospettive cosiddette “indigene”, è un grande step per chi nasce con quella forma mentis che segue il Rinascimento e vuole restarvi pervicacemente attaccato, una posizione piuttosto comoda. Per chi ha avuto il privilegio o la “sfortuna” di viaggiare, c’è una responsabilità morale alla quale rispondere».

Curiosità: a chi è dedicata Amarlamara?
«Vuole essere un omaggio al Mediterraneo, alle sue sponde che si estendono dalle tristi spiagge di Gaza all’istmo di Cadice e di Gibraltar in Spagna. Vorrebbe abbracciarle tutte. Infatti ci sono delle percussioni mediorientali, delle chitarre spagnoleggianti, c’è l’oud e il canto all’italiana, visto che, volenti o meno, trovandoci nel mezzo non possiamo chiamarci fuori. Il brano tratta di migrazioni. Sono un grande amante delle api, purtroppo diventato allergico. Ecco, le api sono diventate un po’ il capro espiatorio, il soggetto di questo racconto. Paragono i grandi movimenti del Mediterraneo a uno sciame, gruppi di persone che tentano la traversata. Quando lo sciame sente di dover lasciare la colonia prende e se ne va, nonostante il mare di mezzo, perché sanno che dall’altra parte qualcuno ha visto un tronco d’albero secco che le attende. Vanno e non chiedono il permesso a nessuno».

E poi c’è Mille Piani, che è il titolo di un libro dirimente firmato da Gilles Deleuze e Félix Guattari uscito nel 1980…
«Lì ci siamo impantanati un po’… Sono stato introdotto a questo testo da una persona che me l’ha fatto amare e odiare, non tanto il libro in sé, ma il pensiero che rappresenta. Questo album per me è stata l’occasione per pormi certe domande e confrontarmi su questioni esistenziali, tra cui questa: che valore ha la nostra presunzione di razionalità? Chi ha provato a darmi una risposta sono appunto i post-strutturalisti, di cui Deleuze a Gattari fanno parte. Quello che ho tentato di fare, visto che non se ne veniva a capo, era di declinare alla mia dimensione personale questi concetti e rivederli nel rapporto che si ha con un altro essere umano, giocando più che altro sul senso e sulla valenza delle parole in un testo. Quindi, ha dei rimandi ai Mille Piani, trattato filosofico, però poi sono i mille piani che facciamo nella vita a restare inspiegabili, talvolta lasciano cogliere soltanto un bagliore di quello che è stato guardandosi alle spalle».

Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
«Ho difficoltà ad ascoltare cose nuove, però mi piace un po’ tutto. Non penso d’essere un musicologo, ho invece avuto la fortuna di incontrare amici che lo sono a tutti gli effetti a cui ho potuto attingere dal loro fantastico repertorio e sapere. Ho letto anche i libri di Marius Schneider ed Elémire Zolla, due pezzi da mille del Novecento, più per ispirarsi poeticamente al loro mondo che per carpirne qualche segreto. Ascolto dunque jazz, ma non gli standard, mi piace parecchio la musica classica, anche se le mie competenze sono piuttosto limitate, sono attratto dalle musiche che hanno un approccio etnomusicale – l’antropologo Carlo Severi, sostiene l’importanza della musica nel creare momenti collettivi e mnemonici. Noi abbiamo una tradizione che è molto solipsistica, quella del cantautorato. Alla fine sei da solo, a parte i tuoi testi, non c’è granché di dialogo, nonostante possano essere ripresi, rielaborati o cantati da un pubblico, però quella forma dialogica e catartica credo che la si possa ricondurre ai canti curativi o tradizionali di popolazioni ancora intatte dal nostro mercato e forma d’arte».

Chi sono i musicisti che hanno suonato con te nel disco?
«Sono persone talentose con cui sono diventato amico. Partiamo da quelli più distanti, li ho conosciuti su Internet per interesse e affinità musicale, il perussionista polacco Maciej Giżejewski e il batterista Soykan Akkaya, artista turco della bellissima Izmir. Andando in ottica nostrana, ci sono amici di lunga data: Mezuru Takahashi, trombettista jazz formato nelle scuole di Verona e Trento, trasferitosi dal Giappone apposta per studiare lo strumento. Lo importunai qualche anno addietro per strada, pensando che nella custodia che si portava appresso avesse un violino. In realtà con gentilezza mi spiegò che purtroppo nella custodia aveva una tromba! Mi è stato poi utile per conoscere la scena Jazz veronese, che negli ultimi anni ha preso abbastanza quota. Nel disco ci sono anche interventi di Orazio Puglisi, pianista siciliano trasferitosi a Verona per studio e di Federico Alvino, un gran bravo contrabbassista. C’è il cantautore Giulio Deboni, collega dotato di una fine sensibilità che mi ha passato alcune idee sull’ecologia dei luoghi. Giulio ha una una profonda conoscenza di tutto l’arco prealpino delle Dolomiti; cura infatti dei progetti di sensibilizzazione, tramite la sua musica, a contesti che stanno andando perduti in favore di una urbanizzazione feroce; cura anche progetti di integrazione con migranti ed è un grande viaggiatore. Un giorno vorrei fare con lui un giro da qualche parte in Africa, chissà. Intanto mi ha dato una mano suonando la batteria e le percussioni su questo album e ne sono molto contento. Continuando, c’è Nicola Cipriani, chitarrista rinomato, che nell’album ha suonato una chitarra acustica a un brano folk Neve e ha delle memorie di di Neil Young, poi ha messo una chitarra elettrica molto grintosa in Mille Piani, portando il brano su un altro piano ancora. E poi c’è Giulia Vallisari, una voce fantastica, la conosco da anni, veronese pure lei insieme con il suo produttore milanese Leo Einaudi. Infine, Francesco “Sbibu” Sguazzabia, musicista formidabile, percussionista pluripremiato sempre della scuola veronese, la prima persona a cui mi sono rivolto per registrare l’album ».

Cosa ti aspetti da questo lavoro?
«Bella domanda (ride, ndr). Sicuramente mi fa riflettere quello che mi ha detto mia madre l’altro giorno: “Ma Luca, sei sicuro di voler pubblicare questa roba? Non stai dicendo delle cose scomode che poi ti tirano addosso tutti gli anatemi dei familiari, amici e conoscenti?”. Magari è un’occasione per far nascere qualche dubbio, anche solo uno stimolo per dire, ma cosa ha combinato quello che era un così bravo ragazzo…».