Ilaria Pilar Patassini canta Paolo Conte: emozioni per voce e orchestra

Ilaria Pilar Patassini – Foto Paolo Soriani

Il 28 marzo uscirà per Parco della Musica Records Canto Conte, album firmato da Ilaria Pilar Patassini con Angelo Valori e l’orchestra Medit. Il lavoro verrà presentato dagli stessi musicisti la stessa sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Diciotto brani per 72 intensi, emozionanti, stimolanti minuti, un excursus nella imponente discografia dell’avvocato di Asti. Definirlo cantante e musicista è riduttivo. Paolo Conte è molto di più, un istrione, un volto indimenticabile, un poeta, un attore, uno scrittore. La Patassini lo definisce «una nazione corsara», un mondo da esplorare per capire la sua arte ma anche per incontrare se stessi.

Sostiene Pilar nelle note al disco: «La produzione artistica di Paolo Conte è una summa di arti: canzone, poesia, letteratura, jazz, cinema, opera, arte visiva e un profumo coloniale e retrò, ma il tutto resta invariabilmente contemporaneo, non mi stanco mai di ascoltarlo. Erano anni che volevo realizzare questo progetto, volevo dare voce e corpo alla parte femminile di Conte, al suo lato più sensuale, erotico, giocoso e francese. Alla fine tra l’incoscienza e la saggezza ha vinto il desiderio». 

Il risultato è un progetto meticoloso, presentato con originalità, una delle cifre di Pilar, sempre attenta a non cadere mai nel banale. Con Angelo Valori ha svestito i brani scelti per rivestirli in un altro modo, molto più operistico, “classico” nell’accezione musicale del termine. Quindi, niente chitarre manouche, né percussioni, né kazoo, né vibrafono, né fiati. Un ascolto totalmente nuovo per chi ama viaggiare nello straordinario mondo contiano. Uniche eccezioni, il clarinetto e il sassofono suonati da Manuel Trabucco la fisarmonica di Danilo Di Paolonicola (anche lui una vecchia conoscenza di Musicabile) e, special guest, l’organettista Alessandro d’Alessandro.

Vestito diverso ma intensità ed emozioni a non finire. Potrebbe suonare strana la voce – e che voce! – di una donna che canta le ballate storiche – Via con Me,  Azzurro, Messico e Nuvole – o le rifiniture tristi e sublimi di brani come Dal Loggione, o ancora il crescendo cavernoso e struggente di Madeline. È una settimana che ho in cuffia questo lavoro e, come succede quando ti piace una persona, ti incanti, rifletti, ti commuovi, insomma, ti ritrovi rinnamorato di canzoni che scopri essere ormai parte del tuo DNA. 

È proprio questa la forza di Canto Conte, non un semplice omaggio, ma la rilettura di brani che, in fondo, sono senza tempo. Non a caso Pilar parte da Alle prese con una verde milonga, canzone che dichiara esplicitamente il senso di un progetto raffinato quanto complesso. Il crescendo d’archi ti fa venire la pelle d’oca: io sono qui, sono venuto a suonare e di nascosto a cantare…

Non potevo non chiamare Pilar per farmi raccontare questo lavoro che vive di vita propria e che dà l’opportunità di individuare i tanti sottotesti presenti nei brani di Conte. Un buon esercizio è ascoltare l’originale e poi la versione al femminile di Pilar. Troverete piacevoli sorprese…

Bellissima operazione, anche se complessa… Paolo Conte è sempre Paolo Conte!
«Centrata, sognata da tempo! E poi, il detto bisogna stare attenti a desiderare le cose sennò si avverano, in questo caso c’ha visto giusto! Era da una decina d’anni che volevo cantare Paolo Conte, ed è da molto più tempo che lo ascolto e che mi sono innamorata della sua musica. Prima mi sembrava una cosa totalmente azzardata, proprio per la tipologia di assoluto interpretativo di Paolo Conte rispetto alle sue canzoni. Però, quando il desiderio diventa insopprimibile, allora è amore, e quando il desiderio è anche bisogno, si va all’interno di contesti, magari meno sani, ma insomma nell’arte succede pure di dar retta a vocazioni infauste! Spero non sia questo il caso, anche se… me lo dico da sola, è una bella scommessa fare un disco da interprete, da donna, con 18 canzoni di Paolo Conte realizzate con orchestra, archi, senza batteria né pianoforte, presente solo in un brano».

Avete comunque lasciato il clarinetto!
«Nell’ottica di approcciarci in maniera differente abbiamo cercato di farne a meno, poi succedeva che Angelo mi chiamava: “Certo che lì, in quel punto, il clarinetto ci starebbe proprio…”. Abbiamo comunque cercato di restare fuori dal contesto dei colori contiani, per proporre brani che avessero un altro punto di vista di dinamiche e di melodia sulla canzone. La maggior parte delle composizioni di Conte dà la possibilità di “farti” la tua canzone, raccontarti la tua storia. E questo, forse, è il fattore più incredibile che ha decretato il suo successo universale. Si avverte che dietro le sue composizioni c’è un sogno, una tavolozza di colori dove ognuno trova il proprio pezzettino e può costruirlo come vuole. È un esercizio di fantasia e di intelligenza enorme». 

La melodia dei brani è stata ampiamente rispettata!
«Sì! Parlo del canto: Conte è un grandissimo interprete e anche cantando semina indizi di melodia. Fare una versione orchestrale è come se fosse stato passato tutto attraverso una carta carbone che mi ha fatto vedere la tridimensionalità operistica, non solo cameristica, del compositore. Prendi Snob, è un brano pazzesco. Narra una storia fantastica, ha una potenzialità alla Rossini per il tipo di fraseggio. Il recitativo sembra quasi la piccola aria che precede la cabaletta rossiniana. Quando Angelo me l’ha fatta ascoltare, soltanto con gli archi, sembrava di stare all’Opera».

Vero! Anche se poi chiude con “c’è uno champagne da favola, favola snob». È geniale…
«Una delle mie canzoni preferite, l’ho voluto fortemente dentro questa scaletta».

Angelo Valori e Ilaria Pilar Patassini – Foto Paolo Iammarone

È stato complicato scegliere 18 brani in una produzione vastissima come quella di Conte. Quali criteri hai usato?
«Ho scelto 40 canzoni, quindi mi sono presentata alla riunione di produzione con Angelo Valori, la mia manager, Roberto Catucci dell’Auditorium Parco della Musica e Luciano Linzi – di JazzMi, ndr – (anche lui è stato parte integrante di questo processo). Ho chiesto di sceglierli insieme, così ci siamo mossi su tre direttive, due mie e una, ovviamente, che comprende sia la fattibilità con l’orchestra, sia il cercare di avere una scaletta che all’inizio era di 21 brani, poi diventati 19, quindi 18, perché più di 72 minuti di musica nel disco non ci stanno! È rimasto fuori un brano, L’Incantatrice, che adoro e che spero di poter fare live quando sarà possibile con tutta l’orchestra».

Una scelta che comunque definisce la musica dell’artista piemontese …
«Copre un significativo lasso di tempo, dal 1968, quindi dalle prime canzoni che faceva interpretare ad altri, fino al 2014, un excursus considerevole e riassuntivo della sua scrittura. C’erano alcuni brani che non potevamo non mettere. Non mi sarebbe mai venuto in mente di cantare Via con me, non perché non mi piaccia, anzi la amo, ma perché è come incidere ‘O sole mio! Così anche per Azzurro. Qui scatta un’altra cosa, il mettersi dalla parte del pubblico: chiunque ami Paolo Conte si aspetta quei brani, sono come l’acuto della Traviata, quel mi bemolle che non è stato scritto da Verdi, ma che ormai per tradizione si fa, e se non lo fai, per il pubblico è come se Violetta non avesse cantato. Non proporre questi due brani era… lesa maestà».

Quali sono invece le tue due direttive su cui ti sei mossa?
«La prima voler interpretare tutti i personaggi della canzone di Conte: non ho cambiato nessun tipo di desinenza dal maschile al femminile o viceversa, non mi sarei mai azzardata, perché ciò avrebbe cambiato il senso della canzone. Volevo invece interpretare il femminile, l’erotismo e la debordante sensualità contiana, in un’epoca dove non c’è più eros, ma molta pornografia. Ho sempre sentito questa parte femminile di Conte. Detta così, vedendo lui come un uomo del Novecento, tremendamente affascinante, molto maschile anche nella sua iconografia, può sembrare un ossimoro. Lui ha una proprietà di linguaggio unica sulla psiche femminile, su come le donne possono intendere l’amore e le sofferenze del cuore. Penso a Madeleine, un capolavoro assoluto. In questo brano ho sempre sentito una sensualità debordante e ogni volta che me lo cantavo, dicevo: Paolo, mi dispiace, non so tu adesso cosa penserai, però è anche un po’ mio e vorrei cantarlo, spero non ti dispiaccia!».

Angelo Valori, Ilaria Pilar Patassini e l’orchestra Medit – Foto Master Graphics Photografy

Hai sentito Conte?
«Gli abbiamo mandato gli ascolti, vedremo cosa dirà. Al momento tutto tace. Spero in una buona parola, oppure se la cosa non dovesse aggradargli, che non dica niente (ride, ndr)! Mi rendo conto che è un rischio e che questo progetto può essere divisivo: così come ci sono i loggionisti dell’opera, immagino ci siano quelli contiani… Penso di aver dato tutto quello che potevo nelle canzoni che ho scelto, cantato e interpretato».

Sulle esaurienti note al disco hai scritto: «Il mondo di Paolo Conte non ha alcuna pretesa di risultare “impegnato” o lanciare messaggi, in realtà offre molti balsami e rimedi al buio di oggi». Raccontare da interprete un mondo così fantasioso, sensuale, onirico non deve essere stato facile…
«Un progetto da interprete è molto più difficile di uno da autrice, soprattutto quando ti dedichi a una monografia, come in questo caso. Conte mi attrae per la musica, le sue sonorità ma anche per quello che scrive, per la letteratura, la poesia racchiuse nelle storie che racconta. Sono un’appassionata di libri e scrittura. Scrivo versi da quando ero adolescente, ho molti amici scrittori che mi incoraggiano a presentare le mie poesie per essere pubblicate, ma non ho mai avuto il coraggio di farlo perché sono troppo mie, intime. Ti sto dicendo questo per spiegarti che il mio rapporto con la parola è erotico… assoluto. È lo stesso tipo di operazione che riporto ai ragazzi di Officina Pasolini quando facciamo laboratorio di interpretazione: per cantare in maniera autorevole una canzone altrui, devi starci talmente dentro che alla fine te la ricostruisci e la canti come se l’avessi scritta tu stesso».

Per questo sostieni che Paolo Conte «volente o nolente, allena alla libertà, all’immaginazione»?
«Sì, allena il cervello a essere usato in termini di fantasia, di proiezione, mettendo insieme degli elementi, bada bene, che lui ti dà, e non altri. È lo stesso Conte a dire che desidera che le persone immaginino dentro i suoi brani quello che vogliono. Non desidera che le sue canzoni diano dei messaggi. Conoscendomi, da me stessa mi sarei aspettata di costruire un progetto su Mercedes Sosa, sui canti di lotta o su un qualche autore legato all’attualità, al sociale. Ma in realtà le canzoni di Paolo Conte vanno allo step successivo, ti danno la medicina al male di oggi. Vanno oltre il sapere, ti fanno ricominciare a pensare con la tua testa, osservare con la tua immaginazione. Alcuni suoi testi come Snob, per esempio, si svelano nei loro sottotesti, ascolto dopo ascolto. Snob racconta la provincia meglio di un libro di storia e lo fa in tre minuti e mezzo, offrendoci sia la sintesi sia il paesaggio d’insieme». 

Foto Paolo Soriani

Affermi anche che le canzoni di Conte combattono l’analfabetismo funzionale!
«L’analfabetismo funzionale o di ritorno fa sì che tu sappia leggere e scrivere, ma senza comprendere il senso di quello che stai leggendo. Con le canzoni di Conte, questo esercizio di attenzione, di focus, non puoi non farlo, perché altrimenti ti perdi il senso del tutto. C’è una malìa in quello che fa, una dimensione giocosa, sono piccoli film in cui vieni catturato e per forza ti fanno pensare. Non hanno un messaggio da darti, quello te lo devi trovare da solo, devi raccontartela tu quella storia: Perciò sei costretto a leggere bene ciò che stai ascoltando, lo devi riascoltare, andarci dentro, costruirlo e quindi dargli per forza un’interpretazione».

Sono rimasto incantato dalla tua interpretazione di Una giornata al mare, scritta dal fratello di Paolo, Giorgio Conte. Il tuo canto mi riporta agli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.
«Sì, l’ho intesa esattamente così. Anzi, in realtà, quella canzone l’ho pensata ispirandomi a come avrebbe potuto cantarla Antonella Ruggiero – artista che io adoro – in un assetto da anni ’40 e ’50».

Perché pubblichi in questo preciso momento Canto Conte? È il tuo modo dire: caspita, ma dove siamo finiti?
«Non riesco a non stare dentro l’attualità, non ce la faccio proprio. Penso che nessuno oggi possa ritrovarsi immune rispetto a quello che sta succedendo. Stanno accadendo fatti di una gravità inaudita e a una velocità sconcertante. Quindi è importante che si tengano accese delle luci. Ha sorpreso anche me il fatto di trovarmi a fare questo progetto ora, ovviamente era partito un anno e mezzo fa, quindi non ci poteva essere nulla di concordato o pensato per questo momento. Sono arrivata a questa spiegazione: cantare Paolo Conte è cantare la bellezza per la bellezza, cantare una forma d’arte completa, perché lui è una summa di arti. Insisto col dire che cantarlo vuol dire intonare la complessità, una parola che oggi fa molta paura».

La complessità l’avevi “definita” anche nel tuo album precedente!
«È un concetto a me caro, sì l’ho espresso anche in Terra senza Terra. Continua a essere il mio faro, la mia bandiera. Tramite queste canzoni espresse in forma classica, con gli archi, l’orchestra, ci sembrava  che tutto fosse lì da sempre. Invece non è così. Ovviamente ci sono tantissime canzoni di Conte incise anche con l’orchestra d’archi, però così, senza pianoforte, ritmica, chitarre, è emersa tutta l’ariosità, la summa di arti di cui è composto il mondo fantastico di questo artista. Paolo Conte è canzone d’autore, poesia, letteratura, cinema, pittura, essendo lui un pittore, enigmistica, opera, musica classica, jazz, folklore. E poi ancora è Italia, nel senso di provincia, è la Liguria, l’Africa, il Sudmerica, è la colonialità. Per questo sostengo che è un Atlantide a sé, una geografia fatta di tante geografie che esistono, però assemblate in una modalità tutta sua». 

Una visione estetica e profondamente plastica di un artista raro…
«Sicuramente è un progetto controtempo e pure… senza tempo, che potrebbe avere caratteristiche rétro. Ma non è il canto del cigno del Novecento, visto che può essere inteso pure così. Posso associare il lavoro di Paolo Conte a qualche repertorio di Kurt Weill, per tacere poi di alcuni autori francesi. Insomma persone, compositori e artisti che tempo non hanno. Paolo Conte non fatto il suo tempo, Paolo Conte ha fatto il tempo, lo ha proprio inciso, ci sono canzoni che hanno una loro contemporaneità sempre, in quanto storie universali, sofisticate, di grande carnalità. Un’arma vincente di gioia, il godere per il godere».