
Damon Arabsolgar – Foto Ginevra Battaglia
Stasera mangiamo erbe spontanee salate e more selvatiche/ provando a non ripeterci/ nei ruoli che ci siamo temporaneamente dati/ e in cui tendiamo ad accoccolarci scomodi/ e contro una parte della nostra volontà/ Continua a insegnarmi come comportarmi con te/ senza dirmelo, così che le mie azioni/ possano essere autentiche./ Potessimo vivere con te sul fondo del mare/ ti costruirei una fortezza trasparente/ in cui sempre foglie. (Wild Salty Herbs)
Damon Arabsolgar è un musicista poco più che trentenne di origini persiane da parte di padre e italo tedesche per madre. Da pochi mesi ha pubblicato il suo primo album solista dal titolo Whale Fall, la Caduta della Balena, un lavoro ricercato, che richiede più ascolti, sofisticato, minimalista e per questo notevole, registrato in parte in un appartamento con pochissimi strumenti musicali e un’elettronica perfettamente integrata nell’armonia del disco e in parte nello studio di Giacomo Carlone.
La prima opinione che uno si fa dopo il primo ascolto è che Damon è un artista che arriva da altri mondi, dove non c’è spazio per il protagonismo e la musica viene scarnificata fino a raggiungere l’essenza, in perfetta combinazione con i testi, come quello che avete letto qui sopra. Una stratificazione di suoni ottenuta grazie anche alla collaborazione con il produttore Giacomo Carlone, e il compositore Vincenzo Parisi, che ha curato le orchestrazioni per archi eseguite dal Trio Cavalazzi (Alessio, Elisa e Andrea Cavalazzi, violini e violoncello). Quello di Damon è un mondo onirico in cui sì, ci si può aspettare che le balene possano cadere dal cielo o inabissarsi in profondità estreme. La balena che precipita rappresenta i nostri desideri che consideriamo irrealizzabili, le nostre aspettative che quasi sempre non corrispondono a quello che siamo, ma che, tolti gli “abiti” imposti dalla società attuale, possiamo vedere chiaramente anche noi.
La balena che cade ha anche un altro significato. Indica il momento della morte di questi grossi cetacei che si inabissano nelle profondità marine e lì, donando le loro carni ad altri esseri viventi, perpetuano la loro vita in altre forme.
Qualcuno di lui ha detto ha detto che è “troppo pop per essere sperimentale e troppo sperimentale per essere pop”, frase quanto mai azzeccata che mi cita Damon stesso durante l’intervista. Potremmo dire che Arabsolgar si rifà ai Radiohead, ci sono buoni punti di contatto, ad Arvo Pärt, a Nick Cave, tutto vero, però la bravura di un musicista sta nel rielaborare queste affinità trovando una sintesi, un proprio stile. E qui ci siamo, nettamente!
Damon, assieme ad Anselmo Luisi ha costruito un altro progetto, i Mombao, pura elettronica. Vi invito ad ascoltare Sevdah, disco autoprodotto, uscito due anni fa: noterete la stessa delicatezza nell’approccio armonico, nella ricerca dei suoni.
In linea con questo disco ecco il tour. Ha preso il via da una settimana ma non frequenterà club e teatri. I luoghi dei concerti sono le case dei suoi fan, persone che lo apprezzano. È bastato pubblicare un Reel su Instagram dove chiedeva quante persone erano disponibili ad aprire le loro abitazioni per un suo concerto: «In due settimane mi hanno risposto in più di 40, da Nord a Sud», mi dice il musicista, e il numero è destinato ad aumentare. «Cerco di affrancarmi dalla filiera della musica e dei concerti», sostiene convinto. Le prime date le trovate sul suo profilo Instagram.
Sei in netta controtendenza rispetto alla musica attuale…
«La musica oggi è user friendly, e questo per me è… molto punk! Vivo questa semplificazione, hyper pop della scrittura, allo stesso modo di come si guardava il punk quando le chitarre elettriche erano diventate appannaggio di tutti. Non la vivo come avversaria o inferiore, semplicemente, ci sono tecnologie che permettono a tante persone di fare qualcosa di molto diretto e altrettanto semplice. Poi non è il mio, non mi metto in cuffia la Trap, ma di sicuro sostengo tutto ciò che è fatto in maniera intuitiva, impulsiva. Lo preferisco a certi generi troppo mentali, matematici».
Come ti sei formato?
«Al pianoforte, studiando musica classica. A un certo punto mi sono stancato di usare lo strumento come semplice “lettura” della musica, una partitura che dovevo eseguire. Così ho smesso con il piano, ho trovato una chitarra abbandonata in un angolo di casa e ho iniziato a suonarla. Mi piaceva perché non sapevo che note stessi facendo: l’idea di far uscire dei suoni senza sapere nulla mi affascinava molto. Quando ho cominciato a capire, sono passato a suonarla a occhi chiusi, poi a luci spente, quindi scordandola, infine cambiando l’intonazione delle corde… Da lì sono ritornato al pianoforte. L’ho aperto: avevo capito, tramite la chitarra, che esiste un approccio più fisico al suono: deriva da un movimento e il pianoforte con il mobile chiuso non mi permetteva di vivere materialmente le onde sonore. Così percuotevo le corde e sperimentavo. Allora avevo 13, 14 anni».
Le sperimentazioni dove ti hanno condotto?
«Ho iniziato a scrivere musica cantautorale alla chitarra, avevo una mia band, ascoltavo molto post rock. In realtà quello che mi interessa molto nella musica è la forma di psichedelia, che non è quella del genere, ma la capacità di portarti da qualche altra parte, in uno stato alterato di coscienza, ipnotico, di trance… che è il filo rosso di tutti i progetti che ho fondato negli anni, compresi i Mombao».
Whale Fall rispetta questa tua ricerca sonora?
«Sì, è un disco che va ascoltato a occhi chiusi, con le cuffie, al buio, lasciandosi trasportare in un punto lontano che è, nello stesso tempo, molto introspettivo e, contemporaneamente, molto paesaggistico».
Provieni da una famiglia musicale?
«No, assolutamente. Mio papà è persiano, viene dall’Iran, mentre mia madre è italo-tedesca. Sono entrambi ingegneri, però nessuno dei due ha mai praticato come ingegnere. Mamma è rimasta a casa per tanti anni per seguire i figli, papà vendeva tappeti. Anche mia sorella è un ingegnere: per quanto abbia studiato pianoforte classico, non c’è mai stato niente di artistico musicale in casa non c’era lo stereo, non avevamo Internet per poter scaricare musica. I miei genitori, però, hanno capito, quando ero ancora molto piccolo, che avrebbero potuto insegnami tanto su come funziona la chimica, la fisica, la meccanica, ma non avrebbero mai potuto educarmi all’arte, alla musica, alla danza, per cui si sono impegnati a iscrivermi a corsi che potessero istruirmi su questi mondio. Mi hanno dato la possibilità di scegliere il mio percorso senza influenzarmi. Pensa che a due anni e mezzo ho fatto i corsi di Yamaha!».
Whale fall. Perché questo titolo?
«Whale Fall è una delle prime canzoni nate per questo progetto quasi nove anni fa. Durante l’estate avevo deciso di rimanere a Milano per iniziare a scrivere un disco, ma soprattutto per imparare a produrre. È stata anche l’estate in cui si sono fatte le prime demo dei Mombao. Tra le varie canzoni che avevo scritto c’erano Whale Fall e Nils, due brani presenti nell’album, rimasti tali e uguali ad allora. La parola del titolo nasce in maniera molto intuitiva: stavo cantando, come spesso mi capita, in Gibberish (pronunciare frasi senza senso, ndr), per poi metterci il testo vero. Quella parola mi aveva colpito, avevo deciso di tenerla nel testo, ma senza un perché. Mi capita spesso di scrivere canzoni e non capirle fino in fondo, come se fossero dei messaggi lasciati in una bottiglia, e poi, mesi o anni dopo, rileggerle e finalmente capire cosa stavo cercando di dirmi. È come se in me ci fosse una porta di accesso tra il subconscio e il conscio: le canzoni sono un sistema comunicativo in cui cerco di mandarmi “raccomandate” per farmi capire quello che mi ostino a non voler comprendere. All’epoca, dunque, mi immaginavo questa balena enorme che cadeva dal cielo. Per me era una sorta di invocazione, il cercare disperatamente di fare tutto quello che era nelle mie possibilità affinché accadesse qualcosa nella mia vita che potesse cambiarla radicalmente. Sono cresciuto in provincia, vivendo in continua stasi, un fondale immobile. Così mi immaginavo – e speravo – che qualcosa di surreale, di gigantesco arrivasse dal cielo e cambiasse la mia esistenza. In realtà, quello che stavo sognando era la vita che poi sono riuscito a costruire negli anni successivi con grande caparbietà, dove poter viaggiare, far musica, arte, e, soprattutto, vivere di questo».
Oltre ai due brani che hai ricordato, anche gli altri sono orientati a una stessa ricerca…
«Nel corso del tempo mi sono accorto che queste canzoni erano tutte… “subacquee”. La sensazione d’essere sott’acqua mi riporta in un punto molto profondo di me in cui mi sento bambino e voglio condurre le persone, un posto molto blu, nel quale immagino che ci sia lo spazio ideale per connetterci l’uno con l’altro in una maniera molto più vulnerabile, fragile. Il ricollegarsi con quella parte di noi che ci mette a disagio, in cui non ci permettiamo di entrare molto spesso, ci dà la possibilità di accendere una piccola luce e tornare indietro con questo tesoro prezioso».
Damon Arabsolgar – Foto Ginevra Battaglia
Nel tuo continuo navigare hai un porto dove attraccare?
«Viaggio molto, quasi cinque anni fa ho lasciato casa dove vivevo a Milano e da quel momento mi sono sempre spostato da un luogo all’altro. Sono stato un mese in montagna, in Valle d’Aosta, poi alcuni giorni a Milano, quindi in giro per il tour, Bergamo, Brescia. Tra poco parto per New York dove starò un mese, quindi andrò in Sicilia…».
Viaggi per lavoro o per inquietudine?
«Un insieme di cose. Facendo musica sono sempre in movimento, tra date, residenze, luoghi giusti dove comporre… Vivere a Milano da artista musicista, poi, è impossibile, economicamente non sostenibile, a meno che non si abbiano le spalle coperte. Nel corso del tempo ho incominciato a sviluppare dei sistemi per poter continuare a portare avanti la mia musica al livello che voglio io, continuando a investire, e la prima cosa che ho deciso di sacrificare è stato l’abitare. Una scelta estrema, che non auguro né consiglio a nessuno, perché portatrice di instabilità. Però ho capito che fare il musicista implica una serie di sacrifici, e fra questi, c’è la stabilità abitativa».
Avere una casa, un rifugio, è insito nell’uomo…
«Se leggi il mio nome al contrario, qualcosa in più lo capisci!».
Già, Damon/Nomad!
«L’ho preso come come segno del destino. Stavo cercando un nome d’arte, ho provato a leggere il mio nome all’incontrario e ho avuto un’illuminazione. Tempo fa ho incontrato a Trieste un bambino che giocava a palla. Ho sentito che la madre lo chiamava “Damon, vieni”. Abbiamo lo stesso nome, gli ho detto! Sai cosa significa Damon al contrario? Nomad. Sai chi sono i nomadi? Lui mi ha guardato, ha riflettuto un attimo e mi ha detto: “Sì, sono persone felici!”».
Nel tour sei da solo?
«Sì. Un paio di date le faccio con Giacomo Carlone, il mio produttore, alla batteria, e Arturo Zanaica (Elazar), un giovane pianista, compositore e cantante che vive a Bruxelles, molto, molto bravo. In questo momento la sostenibilità economica e la vendita di un progetto come Whale Fall è molto limitata. Nonostante sia un musicista affermato, il progetto dei Mombao gira da tanto e ha le sue economie, non ho mai firmato un contratto discografico nella mia vita, non ho mai avuto il sostegno di istituzioni, non ho mai vinto un bando, anche perché non posso partecipare, essendo sprovvisto di etichetta musicale. Negli anni mi sono costruito un’intera carriera do it yourself».
Cosa ti ha portato a fare un tour… d’appartamento?
«Dentro di me ho insito un senso d’amarezza, di esclusione, probabilmente dettato dal fatto di sentirmi un po’ un outsider dal punto di vista culturale. Nel corso del tempo questo sentimento s’è esteso anche nei confronti delle etichette musicali e di tutte queste istituzioni correlate, di cui, ripeto, non ho mai fatto parte. Nella musica, secondo me va avanti solo chi decide, qualsiasi cosa accada, di rimboccarsi le maniche e continuare a crederci, perché la passione lo accende. Le porte in faccia arrivano e sono tante, sono dure e lo sono per tutti. Così ho pensato a come dare significato al disco e al rituale del suonare dal vivo. Qualcosa che permettesse alle persone che partecipano a questo rituale di sentire al meglio la mia musica. Che, soprattutto in questo disco, è sussurrata, proprio perché scritta in un appartamento. Ha un senso che Whale Fall continui a “vivere” in una casa, una realtà limitata. Poi ho pensato a come ribaltare il processo e abbattere gli intermediari: ho iniziato a fare dei reel sui social network in cui chiedevo alle persone di invitarmi nelle loro case. Mi hanno risposto in tanti, così ho incominciato a mettere in fila le date con l’idea di usare questo tour anche per uscire da Instagram, lanciare una mia Newsletter e un crowdfunding tramite Patreon».
Sarà uan serie di concerti no limits!
«In divenire. Più vai, più passa il tempo, più nascono cose. Il mio obiettivo all’inizio di un progetto è entrare in contatto con i miei ascoltatori, conoscerli per davvero. La mia musica non funziona negli streaming? Meno male, oserei dire, e per tantissime ragioni. Semplicemente si tratta di trovare un’altra modalità con cui fare ciò che ti piace e, allo stesso tempo, che sia economicamente sostenibile».