Quando l’8 novembre dello scorso anno ho rivisto sugli scaffali Petra Lavica, mitico album del 1991 rimasterizzato, firmato da Kaballà, mi sono chiesto il motivo di questa uscita “a freddo”. Sì, certo, il film di Luca Barbareschi, Paradiso in vendita, presentato il 17 ottobre scorso a Roma, contiene quattro brani di quell’album, ma non giustificava certo una ristampa. Quindi, nessuna ricorrenza, nessun nuovo disco in arrivo, nulla.
E proprio qui sta il bello: ritirare fuori un lavoro che dopo 34 anni riesce ancora a stupire per la sua freschezza e profondità, per il modo di solcare i sentieri del folk e del prog, della classica e del pop è una notizia e anche una buona azione. Un lavoro attuale che probabilmente non entrerà in classifica ma che, da utile pietra miliare tra altre pietre miliari, ricorda quali sono i confini della buona musica. Quello di Giuseppe “Pippo” Rinaldi in arte Kaballà è un gesto d’amore verso la musica e la canzone d’autore, il voler ricordare che, in un mondo digitale dedito all’Intelligenza Artificiale dove il mainstream continua ostinato a galleggiare nel vuoto cosmico, esiste un pianeta dove la musica lascia segni, stimola ricordi, emozioni, racconti.
Kaballà ha pubblicato, oltre a Petra Lavica altri tre dischi, Le vie dei canti (1993), Lettere dal fondo del mare (1996) e il live Astratti furori (1998). «Una serie di vicissitudini personali mi hanno fatto fermare, i cambiamenti della musica di più, ecco perché non volevo ritornare», mi dice Pippo. Ha continuato a esibirsi dal vivo ma soprattutto s’è dedicato all’arte della parola. Lo ha fatto per molti artisti, anche per quelli più commerciali, vedi Sanremo, ha scritto per la televisione, il cinema, il teatro: «Mi sembrava giusto dare spazio alla mia creatività, con alti e bassi, momenti di delusione e altri di grande effimera gloria», spiega. Dalla sua biografia si legge un lungo elenco di nomi, Eros Ramazzotti, Mario Venuti, Anna Oxa, Antonella Ruggiero, Baustelle, Irene Grandi, Nina Zilli, Alex Britti, Ron, Andrea Bocelli, il cantautore californiano Josh Groban, Placido Domingo.
Certo, Pippo nel ’91 è partito “avvantaggiato”. Evidentemente la sua idea era credibile al punto da smuovere grossi nomi della musica e della discografia. Per Petra Lavica ha avuto al suo fianco musicisti, producer e arrangiatori incredibili, persone che hanno creduto in lui, a partire dal produttore Gianni De Berardinis e da Massimo Bubola (fu lui a coniare il nome d’arte Kaballà), Lucio Fabbri, quindi lo staff della Emi Publishing, Paolo Corsi, Antonio Marrapodi e Stefano Senardi, allora giovane Direttore Generale della CGD/Warner.
La lunga chiacchierata che ho avuto con l’artista ve la sintetizzo qui sotto. «Se, invece di telefonarmi, fossi venuto a trovarmi, avremmo potuto parlare di musica per tre ore senza accorgercene», s’è accomiatato dopo un’ora di conversazione. Annotazione da cronista: per chi si trovasse a Roma, domani, 1 febbraio alle 18:30, Kaballà sarà al Jey Music Club in via Ostiense 385 per parlare di Petra Lavica, musica e dialetti…
Petra Lavica è un disco che ho ascoltato tanto.…
«Ahimè, la dice lunga lunga sulla nostra età! Al di là di Petra Lavica abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare un mezzo secolo di musica molto bella. Adesso, molto meno…».
La situazione non è delle più rosee. Si guarda solamente al profitto.
«Anche prima ci si focalizzava sul guadagno, oggi però c’è una mancanza di gusto, un appiattimento culturale che va di là, capisci? Non voglio fare il moralista, ma siamo di fronte a passaggi epocali che si riverberano anche sull’arte in generale, che appiattiscono e sminuiscono tutto».
Perché secondo te?
«È un problema condiviso da una generalità di persone che hanno superato, non dico la cinquantina, ma la trentina. Senza dare alcuna colpa ai giovani, è una questione complessa; ho due figli grandi e mi ritengo fortunato di aver vissuto forse il periodo migliore che l’umanità ci ha regalato. Ho ascoltato rock, prog, musica alta d’autore, mi allargo, anche il grande pop! Ma chi lo fa più il grande pop? In Italia era un genere elegante, anche semplice, oggi c’è un mutismo che annichilisce. Pensando nel 2025 a Petra Lavica, ti dico che sono fiero di aver fatto quel disco».
È un gran bel lavoro, avevi con te musicisti incredibili, Walter Calloni e Mauro Pagani della PFM, Jantoman di Elio e le Storie Tese, Mark Harris e via elencando….
È stato un esordio col botto! Intorno a quell’idea si è raccolta una serie di persone che avevano la possibilità, la voglia e i tempi giusti per osare. Comunque, si faceva fatica anche allora, un progetto come quello non mi ha portato subito al successo, ma poi le cose buone rimangono nel tempo».
Com’è nata l’idea della ristampa?
«Petra Lavica gira nella mia vita da sempre, continuo a proporlo dal vivo, le canzoni sono sempre molto amate. Ci sono state più concause, prima di tutto l’incontro con Rodolfo “Foffo” Bianchi, grandissimo ingegnere del suono che ha fatto la storia della musica italiana, vedi Pino Daniele, la prog italiana, Dalla. Mi dice: “Quel disco ce l’ho ancora, è bellissimo, perché non lo rimasterizzi? Sono a tua disposizione se volessi farlo”. Mi ha messo la pulce nell’orecchio, ma pensavo: cosa faccio? Non sono un nostalgico, però, sai, un po’ l’orgoglio di averlo fatto, un po’ gli amici che mi sono stati attorno e che mi hanno aiutato, la macchina è partita, è andata avanti e adesso sì, mi sono ingolosito! Sono operazioni che danno merito al lavoro di un artista. Petra Lavica è un bel cameo rimasto, allora ha detto quello che doveva dire con grande dignità, gusto e bellezza. È un momento importante che stiamo rievocando».
C’è grande attenzione al passato, forse la gente si stanca di subire dischi inutili!
«Me lo auguro! Sono una goccia nel deserto, tengo la mia umiltà… penso però che iniziative come questa meriterebbero uno spazio maggiore. Non lo dico per me: è importante che la buona musica, suonata, analogica, ritorni a farsi ascoltare attraverso quegli oggetti importantissimi che sono i vinili, con copertine fatte da grandi visionari, ricordi quelle dei Genesis, o le altre prodotte da Andy Warhol? Lo dico come fan e cultore del genere. La musica che mi ha formato ha dato vita a questo disco. In quel momento storico, abbiamo voluto guardare all’Europa. Parlo al plurale perché con me c’erano persone che hanno creduto a questo progetto. È nato un lavoro con tante sfaccettature, folk, rock, pop. Alla presentazione milanese del disco rimasterizzato c’era anche un visionario, Stefano Senardi, che volle questo disco e che, con tanti amici dell’epoca, investiva su progetti di questo tipo che potevano essere anche, fra virgolette, non appetibili dal punto di vista commerciale. È stato importante perché ci vogliono le persone giuste per far nascere e far muovere l’arte. Sono certo che anche oggi ci sono queste attenzioni ma sono tarpate dietro a un immenso fumo di mercato che… boh…».
Quello che conta sono gli streaming, arrivano comunicati stampa di perfetti sconosciuti, forti di miliardi di streaming, e tu pensi, ma chi sono, quale il loro background, e soprattutto, che valore ha lo streaming come metro di misura?
«La musica si ascolta attraverso mezzi che la comprimono, le canzoni sono tutte uguali, non hanno sfogo, sono senza pathos. E quindi, ripeto… boh! Fare questi discorsi mi stanca, mi sento il vecchio brontolone, non vorrei dare spazio a polemiche. Non sono contro, tant’è vero che nel ’91 avrei dovuto fare un altro tipo di disco e non questo, però… la creatività è sempre la creatività, in qualsiasi epoca, bisogna andarla a cercare, tirarla fuori».
Sono convinto che ci siano artisti bravi, però te li devi andare a scovare col lanternino…
«Perché sarebbe necessario dare loro i giusti spazi! Ho avuto la fortuna di iniziare con grandi musicisti. Ma come potrei avere ora la gente di quel rango se non mi si dà una possibilità? Devi essere aiutato dal mercato, dalla discografia. È la situazione che ci fa diventare nostalgici, a me piace solo parlare di musica e di canzoni».
Siciliano di Caltagirone, hai lasciato l’isola, però te la tieni stretta. La Sicilia è un serbatoio fantastico di grandi musicisti, come del resto la Sardegna, la Puglia, la Campania, sarà il bacino del Mediterraneo a ispirare… Artisti che però hanno difficoltà enormi a emergere.
«Le componenti che svegliano movimenti e arti, sono tante: voglia di rappresentarsi, di attingere dal proprio patrimonio culturale. Il Sud, e le isole in particolare, hanno storie tormentate e un conseguente ribollire di movimenti culturali e musicali. Non parliamo poi di Napoli e del suo calderone secolare. Ma anche il resto d’Italia non è da meno. Milano e Genova hanno fornito tanto carburante alla musica. Anche il lontano Friuli, che ha una lingua straordinaria… Si potrebbe fare un discorso molto complesso sui dialetti e sulle musiche che si sono mosse in questo senso e, vivaddio che questo esiste e che, in qualche maniera, con fatica, continua ancora. Tornando a me: il mio lasciare la Sicilia è legato a più fattori, questioni personali e di sentimento, il cercare nuovi punti di vista… Però se si hanno rapporti molto forti si rimane sempre legati alla propria madre. E non c’entra solo la musica! Nella vita di noi che veniamo dal Sud e che andiamo a cercare altrove non dimentichiamo le nostre origini, le ritroviamo nella nostra cultura, nella nostra lingua. Io la mia storia l’ho scritta, erano tempi in cui si doveva andare… poi devo tanto a Milano perché l’industria musicale mi ha dato la possibilità di realizzare cose che probabilmente in quei tempi non avrei potuto esprimere in Sicilia. Anche se negli anni ’80 e ’90 sull’isola nascevano realtà pazzesche, vedi la Cyclope Records del mio amico Francesco Virlinzi, che promuoveva iniziative importantissime. I Rem venivano a suonare a Catania, non a Milano… per cui sai, il Sud ha sempre mosso contraddizioni enormi e potenze artistico-sentimentali di una certa forza.
Perché hai cantato in siciliano?
«Per vari motivi. Per ribadire l’origine indubbiamente, per sanare una frattura sentimentale, perché a volte dalla madre si scappa… La Sicilia è bellezza e oscurità, ci sono cose che noi siciliani di un certo tipo non amiamo, quindi questo viaggiare, come diceva Vincenzo Consolo, ci fa diventare degli Ulissidi che partono alla ricerca di qualcosa di diverso ma poi ritornano per poi ripartire ancora… Mi appartiene un linguaggio che è nella mia anima, una cultura di letture, anche una formazione artistica che molti colleghi hanno poercorso coltivando il folk siciliano, pensa a Rosa Balestreri, a Ciccio Busacca, ai tanti cantastorie. A me, però, apparteneva anche una cultura più internazionale, di altri ascolti, come dicevamo prima, prog, rock. Allora guardavo cosa stava succedendo nel mondo. In Irlanda, dove il celtico entrava in certe atmosfere rock, sono nati gruppi come gli scozzesi Waterboys, o gli U2. Da artista elabori e capisci che anche il dialetto diventa uno strumento musicale, e che qualcuno in Italia aveva già pensato a questo, primo fra tutti Fabrizio De Andrè con Creuza de ma, poi Battiato che era un genialone, Pino Daniele che cantava il blues in napoletano fin dagli anni Settanta, poi i Tazenda, i Sud Sound System… Quando sei fuori dal tuo luogo di origine, la tua identità diventa una cifra stilistica. Milano ha aiutato ad accogliere e continua a ricevere tante identità. Per fortuna si sono aperte tante strade, ma allora era un osare, un buttare il cuore oltre l’ostacolo e creare questo ponte immaginario tra la terraferma e la Sicilia che non è il ponte di Salvini, ma quello della cultura!».
Sei un musicista… paroliere!
«Per me la parola è molto importante, l’ho sempre curata nei miei studi classici, nelle mie letture, però ho una storia da cantautore, ho cominciato a suonare e a cantare, a scrivere note. Sono più conosciuto per questa mia facilità di potermi innestare in altre musiche, ma parto come musicista. Sono conosciuto come autore, il termine paroliere non mi piace moltissimo. Ho dato il mio contributo nel suono delle parole, amo dire ciò! Però ho scritto anche tante musiche, sia da solo che in compagnia di altri straordinari musicisti, quindi rivendico pure questo mio lato creativo».
Con la riedizione di Petra Lavica non è che ti è venuta voglia di ritornare a pubblicare?
«Me lo chiedono in tanti, dentro il cassetto, in effetti, ci sono degli inediti. I tempi sono radicalmente cambiati e anche l’energia di una persona, come la mia visione del mondo. Sei più maturo, più saggio, oppure… meno. Forse, se fossi stato molto più giovane avrei rotto il muro con energia come un supereroe. Adesso cammino più lentamente, capisco più lentamente, però magari questa cosa qui potrebbe aprire uno spazio. Poi sai, mi nutro di dubbi, mi autocensuro, nell’epoca dei social, se fai qualcosa c’è il timore di metterti in piazza e, come un San Sebastiano, farti tirare le frecce. È il colmo avere paura di questo secondo, terzo mondo virtuale che ci sommerge. Dunque, vado lentamente, non dovrei permettermelo perché il tempo scorre, ma che importa? Quello che volevo dire penso di averlo detto con coerenza, onestà, gusto, anche nelle cose più popolari, come il Festival di Sanremo, è un’attitudine che mi è sempre stata riconosciuta. La tentazione di non uscire da questa comfort zone che mi ha sempre accompagnato è tanta. Così, se farò delle cose, le farò meditando e non esponendomi a inutili gogne polemiche e meschinità. Lo farò a modo mio!».