MicoJoão e Os Macacos Loucos, underground ed effervescenza

MicoJoão e Os Macacos Loucos. Finalmente una band gioiosa e intelligente! Una di quelle underground che non guardano ai social, ai like, al tempo massimo dei brani per passare nelle radio. Una band che suona perché si diverte e vuole far divertire. Quello che cinquant’anni fa era la regola ma che oggi è un’eccezione. 

Chi mi legge sa quanto sia sensibile alla musica come espressione collettiva, da contrapporre a quella egoriferita dell’idolino di turno, buono per una stagione. Mico João e Os Macacos Loucos sono una band solida, perfettibile, certo, piena di energia, di buone idee e consapevole che la musica sia troppo importante per gettarla in pasto fugacemente. Lo scorso 13 dicembre hanno pubblicato (via Marley360) il oro primo disco, un Ep di cinque brani per 24 minuti di ascolto intitolato MicoJoão Vol. 1.

Un lavoro confezionato con le passioni musicali dei componenti, a partire da Giovanni: calabrese, ha vissuto da bambino a São Paulo frequentando le scuole della città e imparando il portoghese brasiliano che parla e scrive in modo ineccepibile. Del Brasile, visto che i suoi ascolti (o meglio gli ascolti dei suoi genitori) erano quelli della MPB, del Tropicalismo e della Bossanova, ha tratto anche la passione per la chitarra e per quegli accordi così carezzevoli e dissonanti che hanno caratterizzato il Novecento brasileiro esplodendo in tutto il mondo (ascoltate Camera 21 o il brano d’apertura AereoJazz). Giovanni Di Bella, altro bravo chitarrista e tastierista del gruppo e Francesco Candelieri, il batterista, vengono dal conservatorio e da studi jazz, mentre il bassista Lorenzo Napoletani, solida colonna della band, invece è un appassionato di R&B. Un mix così assortito non poteva che generare una musica esplosiva dove l’ascoltatore trova Funk, R&B, latin jazz e quella fusion tropicale tanto cara a Milton Nascimento e alla scuola mineira. «Il Brasile mi è rimasto negli accordi della chitarra, nelle ritmiche, mi fa un po’… l’effetto Taranta», mi spiega Giovanni. 

Anche lo stile di scrittura dei testi opera di MicoJoão sono un alternarsi di italiano e portoghese. Passa con naturalezza da una all’altra lingua «perché mi viene naturale esprimermi così». In Spiaggia, brano che chiude l’Ep, per esempio, scrive: 

Siamo una generazione di sfigati/ dai cellulari lobotomizzati/ a noi ci piace la pizza col kebab/ simbolo do nosso ser multicultural/ simbolo do nosso ser multicultural/ Abbiamo lavori precari/ dati da datori prevaricanti/ sintomo che le nostre vite poggiano/ su travi traballanti/ poggiano su travi traballanti/ e quindi io/ noi/ gridiamo tutti insieme/ vaffanculo alla società/ io me ne vado via da qua/ numa praia/ numa praia/ numa ilha deserta/ vaffanculo alla società/ me ne vado via da qua/ me ne vado via/ me ne vado via/ numa praia/ numa ilha deserta/ numa ilha deserta…

In attesa del secondo Ep che giungerà nei prossimi mesi, ho chiamato il frontman del gruppo, MicoJoão, al secolo Giovanni D’Ermoggine, per farmi raccontare la genesi di una band che ha un gran bel potenziale.

Giovanni, raccontami un po’ di te: hai vissuto tra San Paolo e l’Italia…
«La mia famiglia ha un profondo legame con il Brasile: mio bisnonno materno era emigrato là da ragazzino ed è rimasto più di 30 anni. Io sono nato in Italia, però l’infanzia l’ho passata a São Paulo, sia per questi legami, sia per il lavoro dei miei genitori. Lì ho passato sette anni, dai tre fino ai dieci, alla fine l’italiano lo parlavo solo a casa. Mi è servito molto: il fatto oggi di scrivere sia in italiano sia in portoghese, in questo continuo switch diventato il mio metodo di scrittura, è un qualcosa che mi esce piuttosto naturale, non mi metto apposta a tavolino pensando qui in italiano suona bene, qua, invece, va meglio il portoghese… è la musica che va a richiamare l’uso di una lingua piuttosto dell’altra».

Questo tuo modo di scrivere fa pendant con il vostro modo di suonare, un mix di funk, MPB, latin jazz, R&B…
«Il nostro sound mescola tutte quelle che sono le nostre influenze come singoli musicisti: due  di noi il tastierista Giovanni Di Bella (che è un po’ il nostro direttore d’orchestra!) e il batterista Francesco Candelieri sono jazzisti di professione, hanno studiato al conservatorio, mentre il bassista, Lorenzo Napoletani, ha a che fare con altri progetti legati sempre a musicisti professionisti. Io sono l’unico punk del gruppo!».

Nella band avete tutti dei nickname… Tu sei MicoJoão, ti rifai al Mico-Leão-Dourado, scimmietta endemica del Brasile?
«(Ride) Sì, mi chiamo Giovanni, quindi Mico João ci stava, e poi in portoghese mico è uno che imbarazza, che fa vergognare. Giovanni è Hanno B., Francesco è l’Eremita e Lorenzo, Lo Sciamano…»

Quali sono i tuoi ascolti? Perché tra accordi e armonie siamo in pieno Brazil Sound…
«Ogni tanto rifletto su questo con i miei amici cantautori di Bologna. Loro sono cresciuti con il cantautorato storico italiano, per me, invece, la musica di riferimento è quella che si ascoltava a casa, e cioè i cantautori brasiliani, Milton Nascimento, Caetano Veloso, Gilberto Gil, Vinicius de Morães, João Bosco, Seu Jorge, Adriana Calcanhotto. Quelli italiani li ho recuperati una volta tornato in Calabria e poi a Bologna, frequentando l’università e vivendo nel mondo artistico cittadino».

Suoni le chitarre, giusto?
«Sì e sono anche la voce principale. Come formazione siamo un quartetto, in realtà in questo primo EP ci siamo allargati aumentando la formazione con interventi esterni, amici musicisti di Bologna che stimiamo e che ci stimano. È stata una bella operazione che ci ha unito».

Siete una sorta di collettivo o una band aperta?
«Un po’ di tutte e due le cose, diciamo che la scusa dei Macacos Loucos permette di giocare su questa dicotomia».

Il panorama musicale bolognese è sempre vivace?
«Dopo anni che vivo a Bologna posso confermartelo, però si è un po’ persa la dinamica della musica dal vivo, non quella negli spazi storici e più apprezzati come il Locomotiv Club, parlo di live in palchi più piccoli. Anche in altre città italiane sta accadendo questo. I gestori dei locali hanno paura delle multe per chiasso, del vicinato, vogliono andare sul sicuro, se devono proprio mettere musica, ricorrono ai DJ set, al massimo a concerti in acustico e senza batteria. Però, nonostante ciò, la città nel suo essere “piccola”, secondo noi continua ad avere tanto fermento».

Non fai il musicista di mestiere?
«Eh, sarebbe bellissimo, però no! Per certi aspetti al momento mi piace non esserlo perché, in qualche modo, mi permette di essere più libero su come impostare un pezzo o scrivere un testo, evitando di seguire determinate mode soltanto per non avere l’ansia di arrivare a fine mese. Per ora cerco di accontentarmi così!»

Hai una voce caratteristica, non se ne sentono tante come la tua. È naturale o l’hai impostata così?
«In realtà sono molto ignorante a livello di teoria musicale. Chitarra e canto me li sono studiati da autodidatta, quindi… sulla voce sto lavorando. Quest’anno vorrei iniziare a prendere lezioni di canto. Il timbro diverso l’hanno notato anche alcuni miei amici cantanti, mi dicono che è una fortuna perché è una voce riconoscibile… Spero piaccia agli ascoltatori».

Siete una band under 30. In base alle vostre frequentazioni, ne esistono altre che hanno progetti interessanti, visto che il mainstream, per ovvie ragioni, preferisce i singoli ai gruppi?
«Secondo noi di progetti musicali validi under 30 ce ne sono tantissimi in Italia. Non riescono però a emergere, mancando, appunto, la possibilità di farsi conoscere nel circuito dei piccoli live. E poi oggi la musica è un oceano talmente vasto, ogni giorno esce talmente tanta musica che l’ascoltatore non sa come muoversi, va in confusione».

Quindi per farsi conoscere oggi…
«Devi lavorare ma anche avere una buona dose di… culo! Noi, al momento, cerchiamo di divertirci quando suoniamo. Tutti ci siamo fatti la nostra gavetta, principalmente nel rapportarci con il pubblico durante i live. Non a caso il concerto è la dimensione in cui ci troviamo più a nostro agio».

Da quanto suonate insieme?
«Dalla fine del 2022».

Una band post covid!
«Il progetto è nato proprio durante la pandemia, poi, mano a mano, si sono aggiunti i vari elementi del gruppo».

Che tipo di spettacolo portate in giro?
«L’EP è composto di cinque pezzi che abbiamo estratto da una serie di canzoni scritte dalla fine del ’22 e nel corso del ’23. A livello di live siamo sulle 13 canzoni. Nel volume due vorremmo inserire brani già scritti – che stiamo rimaneggiando – e pezzi nuovi nati ultimamente».

Una vostra caratteristica è che nessun brano è sotto i 4 minuti…
«Ripeto, suoniamo principalmente perché ci divertiamo. Non ci interessa nulla se un pezzo dura, 3, 4 5 o dieci minuti. In base alla canzone noi andiamo senza darci limiti. Ci rendiamo conto che il mercato attuale richiede tempi più brevi, intorno ai tre minuti, se è meno, meglio ancora. Però funzioniamo così!».

Quindi sul palco improvvisate molto?
«Sì, è anche il frutto del percorso musicale dei musicisti che compongono la band, due sono jazzisti come ti dicevo, quindi sono portati – e ci portano – all’improvvisazione. Questo know how ci permette di immaginare un concerto in maniera più elaborata. Nei Macacos Loucos, poi, oltre ai musicisti che hanno contribuito a registrare il disco, ci sono molte altre persone, dal graphic designer, al videomaker, alla fotografa, alla persona che si occupa delle proiezioni, che hanno deciso di continuare a lavorare con noi. Siamo una bella e solida squadra, un collettivo, aperto al confronto».

Ultima domanda: ma la Calabria cosa c’entra nella tua musica?
«Nella musica in maniera stretta, direi nulla. Mi ha lasciato più un modo di vivere la musica diverso da quello che ho assaporato in Brasile. Sono di Cosenza, una città che, rispetto alle altre della regione, ha un gran bel fermento culturale. Sarà per l’università, per la presenza di tanti giovani, per l’attivismo in molti settori della cultura. Come ha giustamente detto Brunori (cosentino doc, ndr), la provincia di Cosenza è un po’ “la Seattle” d’Italia: infatti siamo tutti cresciuti con il punk e il grunge. Sarà un po’ il clima, il paesaggio, la Sila… Faccio parte di un’associazione culturale che mi ha portato a credere in quello che faccio».