«Questo disco è dedicato a quanti hanno fiducia nell’arte, in ogni sua forma, come veicolo di speranza. Fanculo a tutti quelli che non la meritano (e sono troppi)!». Parole di Pivio, sì, proprio lui, Roberto Giacomo Pischiutta, ingegnere elettronico, musicista, in coppia con Aldo Se Scalzi nella premiata ditta che ha sfornato oltre 200 colonne sonore in anni di creativa carriera, e presidente di ACMF (Associazione Compositori Musiche per Film). Il disco in questione, Misophonia, nove brani per 39 minuti d’ascolto, è uscito pochi giorni fa, il 23 novembre scorso per essere precisi, in vinile e in digitale.
Partiamo dal titolo: la misofonia, come trovate scritto nelle pagine dell’AiMif (Associazione Italiana Misofonia) è una sindrome neuro-comportamentale, fenotipicamente caratterizzata da una accresciuta eccitazione del sistema nervoso autonomo e reattività emotiva negativa (per esempio irritazione, rabbia, ansia), in risposta a una riduzione della tolleranza a suoni specifici. Detta volgarmente, l’avversione a certi tipi di suono. Misophonia, dunque, per Pivio è «l’intolleranza al suono vista come metafora utopico/distopica del disagio sociale», come scrive sempre l’artista. Una provocazione? Certo! Di un musicista che non si riconosce in quello che è diventata la musica di grande ascolto oggi. Misophonia è «il reclamare in nove brani il non allineamento al modello vincente dell’oggi».
Non è una questione di nostalgia, com’era bello quando eravamo giovani! Semmai il contrario. Nella lunghissima chiacchierata che ho fatto con lui mi dice: «Sono un neostalgico, uno che non ha trovato nel futuro che è arrivato il futuro che si aspettava. Non è quello che immaginavo ascoltando i Kraftwerk di Autobahn, mi fa molta paura, perché si è instaurata una sorta di repressione distesa non violenta. E la colpa non è dei famosi dieci, venti tecnocrati che comandano il mondo e decidono le sorti dell’umanità. Semplicemente, la storia ha portato in questa direzione».
Per questo Misophonia è un progetto interessante, una voce fuori dal coro da ascoltare con attenzione. Il lavoro è la parte conclusiva di una trilogia iniziata nel 2020 in piena pandemia con Cryptomnesia (titolo riferibile all’amnesia della fonte, ovvero al credere di aver creato cose nuove e invece si attinge al “già fatto”, a quella sorgente che è l’inconscio collettivo) a cui è seguito, nel 2023, Pycnolectic, ovvero la sospensione dello stato di coscienza. Ultima nota prima di leggervi l’intervista: anche la cover è opera di Pivio!
Hai concluso la trilogia, non è certo musica semplice, per composizioni e contenuti.
«Tutto nasce nel 2020. Avevo già realizzato alcuni video, mi ero già abituato, in qualche modo, a produrre qualcosa di mio, non necessariamente legato al mondo delle colonne sonore. Sono sperimentazioni. Ho deciso di realizzare l’ennesimo mio disco da solo con i soliti dodici giorni a disposizione, tempo che mi ero già imposto precedentemente, che sono poi l’equivalente dei giorni con cui Aldo e io avevamo realizzato la nostra prima colonna sonora insieme, quella per il film Il Bagno Turco di Ferzan Özpetek».
Prima ti occupavi di altro!
«Sì, per tanti anni ho fatto l’ingegnere elettronico, ed ero piuttosto stimato nel mio ambiente. Ho abbandonato un percorso professionale che mi dava parecchie soddisfazioni sia dal punto di vista personale sia da quello economico per seguire quello che mi era sempre piaciuto fare, e cioè il musicista… Alla fine, tutto sommato, ho fatto bene!».
Torniamo alla trilogia!
«Cryptomnesia l’ho realizzato partendo dal presupposto di scrivere un concept album dove, teoricamente, dovevano esserci riferimenti alla pandemia: i titoli riportano una serie di meccanismi, di modi di vivere, di situazioni nati durante il Covid, anche se in realtà della pandemia non parlo mai. Erano il pretesto per raccontare qualcos’altro. Nel 2023, incappo in un altro termine che mi sembrava piuttosto adeguato a quel momento, un periodo particolare della società, in cui vedevo un definitivo stop a un atteggiamento etico. Scrivo i sette brani di Pycnoleptic, disco registrato con il sistema Atmos nativo. La picnolessia è una malattia giovanile, adolescenziale, per cui si stoppano tutte le attività motorie e cerebrali per pochi secondi. Questa sorta di black out mi sembrava simbolica del momento. Dopo Ugly Cover, album dove ho reinterpretato sette brani che hanno colpito la mia fantasia nel corso di 50 anni di ascolto, sono approdato a Misophonia. Nel nome c’è una sorta di provocazione, pubblico un album che parla di intolleranza al suono! In realtà c’è una considerazione legata al tentativo di zittire ogni forma di dissenso, che non è solo politico ma anche di proposta artistica. Le due cose vanno a braccetto, temo, per motivi che non ho ancora completamente compreso».
Questa Misophonia si allarga anche alle altre arti, almeno così sostieni in Nobody Trusts Art. Perché nessuno crede più nell’Arte?
«L’Arte, quindi ogni forma di espressione culturale, eleva l’uomo a uno stato di benessere e consapevolezza molto più alto di quanto non abbia normalmente. Evidentemente, in questo tentativo di zittire il dissenso, le menti pensanti sono da cancellare. Il tentativo è quello di creare una sorta di buco nero in cui l’Arte viene riposta in un angolino, perché attraverso le sue forme crea persone pensanti e libere. È un problema diffuso a livello globale, non solo italiano. È un uno zeitgeist ben preciso che si può riscontrare in tutto il mondo occidentale e, in parte, anche in quello orientale».
Nobody Trusts Art è simmetrico a Never Understand dei Jesus and Mary Chain, cover che riproponi nel disco!
«C’è una sorta di ambiguità, perché nel brano dei Jesus and Mary Chain non necessariamente il meccanismo della non comprensione è legato all’Arte ma alla non comprensione tra persone che vivono un qualche sentimento comune. Mi piace decontestualizzare una situazione da una certa parte per portarla da un’altra, mi sembrava opportuno».
Oltre a Never Understand ci sono altre due cover nel disco, In the Art of Stopping degli Wire e What Use dei Tuxedomoon…
«È un gioco che ho fatto con Marco Odino, mio storico compagno di giochi, con lui avevo fondato gli Scortilla (band new wave genovese nata nel 1979, ndr): nei brani che volevo realizzare come cover, abbiamo scelto alcune parole utilizzate nelle altre canzoni originali del disco per creare una sorta di fil rouge dove, appunto, un contesto diventa un’altra cosa. È una sorta di evoluzione di quello che veniva chiamato global plundering per l’hip hop, che campionava pezzi da dischi passati facendoli diventare un prodotto nuovo. L’atteggiamento è lo stesso, basato però non solo sul suono ma anche sulla parola».
Tre cover che sono di ambiente punk, post punk, new wave. Il punk è stato un momento di rivoluzione, di provocazione. È inevitabile fare un paragone con l’oggi, dove la musica più ascoltata è omologante, i testi sono di un individualismo spinto, con buona pace per il coinvolgimento e la condivisione…
«L’hai detto tu (ride!). Premesso che non sono il benpensante che si astrae dal mondo e rifiuta qualsiasi novità, capisco che in questo momento storico l’attuale modello musicale sia quello vincente e abbia grande successo. Quello che non mi piace è che sia l’unico modello. Si dovrebbe trovare lo spazio per qualcosa di alternativo, un po’ di anomalie sono fondamentali per rendere ciò che funziona migliore. Misophonia è un disco fatto da una persona non più giovanissima, magari ancora non totalmente rincoglionita, ma oggi ci sono un sacco di ragazzi che fanno della musica ottima, paragonabile in qualche modo a questa mia proposta, costretti a vivere nell’oscurità più assoluta. È un paradosso, perché in questo momento l’accesso a un ipotetico mercato ampio è possibile grazie alla tecnologia: fai un disco o quello che potrebbe essere un disco e dopo un secondo è a disposizione in tutto il mondo».
In effetti, vista così è una figata!
«L’avessimo avuta 40 anni fa! Invece, tutto il fardello che si porta addosso l’accesso al vero mercato fa sì che nella realtà le voci discordanti sono relegate in un angolino che diventa sempre più stretto. Una volta anche le radio nazionali, oltre ovviamente alle radio libere, avevano programmazione alternativa all’allora mainstream. C’erano i locali dove si suonava musica non mainstream, in televisione c’erano trasmissioni a cui si accedeva facendo musica non mainstream. Trovo che ora non ci sia qualcosa di analogo. Quindi, questo disco è un inutilissimo tentativo di dire “scusate ma sappiate che ci sono anche altre cose, che magari non “esploderanno”, ma ci sono».
Negli ultimi anni, a causa di un vortice tecnologico che ha risucchiato tutti, i tradizionali cambi generazionali sono saltati…
«Tra una generazione e l’altra c’era un passaggio naturalmente graduale, nel nostro mestiere si iniziava ad acquisire tecnica musicale, si facevano lunghe gavette, si cresceva emozionalmente, per poi arrivare magari al grande successo. Adesso, invece, in linea ipotetica è possibile raggiungere un grosso successo da zero a cento in pochissimo tempo. La gavetta è bypassata, chiunque pensa di avere l’opportunità, proprio perché la tecnologia permette di fare musica senza strumenti. Non sono un purista su questo: se il mezzo non è uno strumento musicale ma un computer e tu lo sai usare, va benissimo, poi se avrai voglia di imparare a suonare il piano o la chitarra lo farai. Quello che mi fa paura è assistere continuamente a un tentativo di emulare uno stesso modello perché sai che funziona».
È una spirale perversa da cui non è facile uscirne!
«Tutta questa accelerazione anche nella comunicazione è fatta di sempre meno elementi, il tweet, il brano che deve durare un minuto e mezzo e se dura un minuto e mezzo magari lo possiamo accelerare due volte così lo mettiamo su Tik Tok… Tutta questa roba qui significa non avere mai un momento di contemplazione, di pensiero, di approfondimento. Ed è una realtà diffusa, non solo nella musica, succede nel mondo della comunicazione, nell’informazione, in tutto. Piano piano crei una società che non ha più bisogno di approfondimento, che si accontenta, più o meno consapevolmente, del fatto che sono sufficienti piccole scintille per crearti un tuo pensiero che proprio per questo, rischia di essere molto deficitario».
Start Again, ultimo brano, è una ripartenza verso dove?
«Bisogna ascoltarlo bene perché c’è il barbatrucco. Uno potrebbe pensare: ok, arrivi alla fine percorso, hai avuto tempo di fermarti un attimo, da cui appunto il famoso In the art of Stopping. Hai preso consapevolezza di un certo stato dell’essere, non importa quale, e pensi: ho fatto un percorso, adesso riparto, quindi Start Again. Ma se ascolti bene, il brano finisce con un testo che dice: sì comunque si può ripartire anche in paradiso, in una forma di estremo benessere, ma sotto c’è una sirena che non smette mai di suonare, una di quelle che potresti sentire in una zona di guerra, una voce che ripete “anche in paradiso” che piano piano si spegne, gli archi che suonano sotto non sono esattamente un inno alla gioia… Volutamente è di nuovo il tentativo di creare le condizioni per pensare: ma ha veramente senso ripartire? Forse sì, però… è un po’ come quando, arrivi alla fine di un film horror. Di solito finiscono bene, poi però senti un rumoretto e dici, di nuovo? No!».
Qual è la tua ripartenza?
«In questo momento, per assurdo, piano piano sta diventando la scrittura. Ho già scritto e pubblicato un libro assolutamente irrilevante durante la pandemia, Diario di una resistenza musicale, che aveva dei Qr Code dove potevi collegarti e ascoltare anche musica. Ho terminato un romanzo e anche una sceneggiatura che non so se troverà spazio per una realizzazione. Vediamo, anche perché, con i mezzi a disposizione oggi posso anche stamparmelo da solo!».