Patrizia Laquidara: la musica, la scrittura e quella voglia di raccontare il mondo

«I miti viaggiano perché i popoli viaggiano ed è un processo millenario che non si può fermare». Nella sua evidenza storica questa frase può sembrare lapalissiana. In realtà non lo è affatto. Il contagio, le commistioni, quel melting pot che l’antropologo Darcy Ribeiro, parlando della costruzione del popolo brasiliano, ha definito miscigenação, da cui discendono storie, leggende, riti, musiche oggi vengono visti come un’accezione negativa, da osteggiare. E così i nazionalismi hanno facile presa, perché questi cammini, queste migrazioni sono complesse e la tentazione di ricorrere a riassunti grossolani (e grotteschi) per rappresentarle è tanta. Viviamo in un periodo “semplice” dove il “complesso” viene dato in pasto alla gente come un pomposo nemico da combattere. 

Patrizia Laquidara, classe 1972, è un’artista curiosa e vivace. La frase con cui ho aperto questo pezzo è sua. Testimonia tutta la sua urgenza di musicista, compositrice, cantante, scrittrice e performer di raccontare il presente avendo ben chiaro il passato. I suoi lavori, sempre molto calibrati, raccontano proprio questo. Patrizia è donna curiosa (il curiosos per i latini era colui che si curava di qualche cosa) il voler conoscere oltre le apparenze, lo scavare per raccontare. Che lo faccia in musica, la sua espressione più immediata, oppure attraverso le parole (il suo libro Ti ho vista ieri, romanzo autobiografico, uscito lo scorso anno edito da Neri Pozza, è un bel successo editoriale), non cade mai nella banalità di pensiero.

Nessuna scorciatoia, anzi, più il cammino è lungo e tortuoso meglio è. Prendete Il Canto dell’Anguana disco uscito 14 anni fa, cantato nel dialetto veneto dell’alto vicentino che racconta di antiche leggende, riti presenti nel Nord Est italiano, lavoro che le è valso il premio Tenco. Ha vinto, lei di origine siculo-veneta, il blocco di cantare in un dialetto che per anni non ha sentito totalmente suo. In quel disco c’è un brano Reina d’ombrìa, suonato da musicisti siciliani, ed è una taranta. Contaminazioni, appunto…

In questo suo nuovo processo compositivo Patrizia ha pubblicato due singoli negli ultimi mesi, Assobenerica e Ti ho vista ieri, nati da fatti e personaggi narrati nel romanzo. La protagonista del primo brano è una processione che si tiene a Messina in agosto, La Vara, la seconda è una ragazzina che incontra le donne della sua famiglia. Nel video che accompagna il brano lo rappresenrta plasticamente: «C’è uno sfondo da cui appaiono molte donne, quelle che hanno abitato il mio albero genealogico. Donne che ho conosciuto e altre che, per ovvi motivi, non ho potuto incontrare, la mia trisavola, la quadrisavola sia materna sia paterna. Tutte persone molto semplici, che però in qualche modo diventano eroine del quotidiano, simboli. In mezzo a loro danza una bambina, che le guarda e le sfiora. Quella sono io».

Che cosa ti ha lasciato la Sicilia?
«Assabenerica parla di una processione La Vara che si tiene il giorno di Ferragosto a Messina. Messina è la città di mio padre, Vicenza, invece, quella di mia madre. Io sono nata a Catania e ho vissuto là i primi anni della mia vita. La conosco bene, anche perché la mia madrina viveva nella Civita, che è uno dei più antichi quartieri popolari della città, vicino al Duomo. Poi mi è capitato di scrivere un libro che si chiama Ti ho vista ieri da cui stanno nascendo tutte queste canzoni. La prima parte del romanzo è ambientata tra Catania e Messina. Quindi faccio, per esempio, una descrizione piuttosto animata di quello che era il mercato di Catania negli anni Settanta. Devo dire che molte persone che l’hanno letto sono rimaste sorprese dalla descrizione di Catania».

Quanto ha influito la Sicilia sulla tua musica?
«Diciamo che, come descrivo anche nel libro, la Piscaria, il mercato del pesce, e quel mondo antico che ho annusato quando ero piccola, mi ha lasciato un imprinting indelebile. La Catania degli anni Settanta era una città molto diversa da quello che è adesso ma anche da una Vicenza di quegli anni. Era piena di conflitti, difficile, dove però ho sentito viva quella cultura molto antica, nella musica, nelle persone, nei riti. La Piscaria era un autentico teatro “panico”. Le grida, i suoni, gli odori emanavano un qualcosa di molto potente. Poi, come tantissime altre tradizioni culturali, si sta un po’ affievolendo. Ogni volta che andavo a far spesa con mia mamma la mia voce si univa a quelle dei pescatori, ripetevo a gran voce le parole dei venditori, mi sentivo… ben integrata! Ho il ricordo sempre vivo di questo pescatore che aveva appena tagliato la testa di un pesce spada. Stava dietro al bancone, aveva un grembiule intriso del sangue dell’enorme pesce. Davanti a quella voce, che prima invitava all’acquisto e poi ha iniziato a cantare, ho subito una sorta di incantamento. Credo che il mio amore per la musica popolare sia nato lì, in quel preciso istante. La Sicilia poi mi è rimasta nelle continue collaborazioni con tanti musicisti dell’isola. La musica mi ha sempre portata lì, fino ad arrivare ad Assabenerica…».

Un brano che trascina, tra bossa, folk, spoken word…
«La canzone parla di una processione a cui andavo ad assistere quando ero piccola. Si partiva da Vicenza in auto, una Fiat 127, in sei. Nella macchina mancava tutto, poggiatesta, aria condizionata, aveva un bombolone del gas come carburante. Erano viaggi mitici. Arrivavamo sulla soglia della Sicilia, ci si imbarcava sulla Caronte… sembrava di andare verso un altro mondo. Passare lo stretto era come arrivare a Itaca, noi assomigliavamo a dei piccoli Ulisse. Scendevamo a metà agosto per andare a trovare i nonni  paterni e assistere alla processione. Scrivere Assabenerica è stato un po’ rendere omaggio a quella parte della mia vita e anche a quella processione così antica: un enorme carro votivo che viene spinto a forza di braccia per tutta la città con operazioni molto pericolose perché non è semplice tenerlo in equilibrio… un misto di fede mariana e rito profano. Lì si mescolano tante cose, come del resto in tutti i riti popolari».

Usi molto lo spoken word?
«Non lo definirei spoken word! In Assabenerica e nell’ultima canzone appena uscita, che porta il titolo del mio romanzo, ho usato molto il parlato, mi sento una specie di moderna cantastorie».

La Sicilia è una fucina di bravi musicisti. Forse merito dell’alta frequentazione nella storia di popoli e culture diverse?
«Sì, e poi c’è il mare, e il mare è sempre accoglienza. A Vicenza ho i monti, e si sentono: sono un confine e i confini sono sempre da oltrepassare. I monti sono anche una difesa. Il mare invece è l’esatto opposto: apertura, accoglienza. La musica popolare parla proprio di questo, di una costante mescolanza di lingue, di miti, di musiche. Aiuta molto essere naturalmente dentro un luogo, ti porta a essere propenso alle aperture».

Sei un’artista completa, canti, componi, scrivi, fai teatro…
«Ora mi sento scrittrice (ride, ndr). Ondeggio tra la scrittura e la musica. Alcuni giorni fa sono stata invitata a un festival di letteratura ed ero con Emanuele Trevi, il vincitore dello Strega. Mi trovavo in un circolo completamente diverso da quelli che frequento di solito. E mi è piaciuto. Comunque la musica resta la mia strada maestra».

Torniamo alle radici, alle tradizioni e ai riti. Nel 2010 hai pubblicato Il Canto dell’Anguana: cosa ti spinge a scavare nelle tradizioni per poi farle diventare musica?
«Il Canto dell’Anguana è stato un lavoro d’insieme. Ho fatto musica popolare nei live per almeno dieci anni, immergendomi completamente, anche prima di partecipare a Sanremo (nel 2003, ndr). A un certo punto volevo imprimere su nastro questo mio grande amore e provare a dare qualcosa di quello che la musica popolare mi aveva trasmesso. Mi sono posta alcune domande: in che lingua devo cantare visto che sono nata in Sicilia, abito in Veneto ma il dialetto non lo parlo? Mi invento una lingua? Oppure: canto delle cover e faccio un omaggio alla musica popolare? O, ancora, provo a scrivere nuove canzoni? Dopo tante riflessioni mi sono stati chiari alcuni punti: volevo scrivere e cantare brani nuovi ma che sembrassero già scritti, che avessero un’impronta melodicamente molto popolare ma che potessero parlare di commistione, di mescolanza. Quindi, ho chiamato a lavorare con me un improvvisatore, un jazzista, che si chiama Alfonso Santimone, lui ha scritto gli arrangiamenti, le melodie le abbiamo scritte insieme. 

I testi sono delle poesie, giusto?
«Sì, molta musica popolare ha come testo delle poesie. Ho deciso che avrei cantato nel dialetto dell’alto vicentino, perché è il posto che “annuso” tutti i giorni. Mi sono ricordata di un poeta di cui avevo letto le poesie qualche anno prima, Enio Sartori. Aveva scritto alcune poesie sull’Anguana, mitologica figura che popola i corsi d’acqua, tra l’altro era il nome con cui mi chiamava spesso la mia nonna materna, che mi diceva: ti te sì na anguana, e cioè una bambina un po’ selvatica. Così sono andata da Enio, lui mi ha fatto vedere alcuni testi e io li ho messi in musica. Abbiamo lavorato insieme alla loro struttura per farli diventare cantabili. Sono stata la mamma di tutto questo progetto, l’ho portato in braccio per tanto tempo. Però, la cosa meravigliosa di questo disco è stata che oltre agli Hotel Rif, ho invitato a suonare dei musicisti siciliani, il dialetto dell’alto vicentino è stato cantato dentro una taranta, a proposito delle cose che si mescolano. Alla fine ho cantato in una lingua che non parlo ed è stato un atto liberatorio. A parte la figura dell’Anguana, complessa e interessante per il cuore drammatico delle sue leggende, cantare una terra in qualche modo vuol dire abitarla, e io sono riuscita a cantare un luogo con cui all’inizio, dopo il trasferimento in Veneto, ero entrata in conflitto. Cantarlo ha voluto dire, ok appartengo anche a questo posto».

Un’altra cosa che mi incuriosisce di te e che mi ha fatto apprezzare il tuo modo di fare musica, è la tua passione per i ritmi brasiliani…
«Il primo grande viaggio della mia vita è stato nel 1991, avevo 19 anni. Sono andata in Brasile, per me un Paese del tutto sconosciuto. Lì ho visto cose molto forti, tante ingiustizie, anche delle persone uccise. È stato un’esperienza in un certo senso traumatica. Quando sono tornata non ho più voluto pensare al Brasile. Poi sono arrivate le voci di João Gilberto e Caetano Veloso. Per me erano terapeutiche, soprattutto quella di Caetano, profonda e dolcissima, mi ha veramente curata. Sono state quelle voci a spingermi di nuovo in Brasile. Ho visitato i luoghi di cui loro parlavano nelle canzoni… conosco pochi paesi al mondo che hanno un bacino di pezzi belli come quelli brasiliani. Non parlo solo di Bossa, ma anche di MPB, Forró, Frevo, Maracatu, Axé. Una commistione enorme e tantissimi ritmi. In Chico Buarque, per esempio, trovi melodie meravigliose, armonie ancor più belle e testi che riescono a essere sempre universali, quasi metafisici. Tra un mese tornerò in Brasile, andrò nel profondo Nordeste per seguire i Sem Terra, vedere l’Occidente da un altro punto di vista».

Assabenerica e Ti ho vista ieri andranno a comporre un album?
«È quello che vorrei fare. Ho altri due brani in cantiere, oltre a un remix di Ti Ho Vista Ieri, che uscirà tra poco, il primo della mia vita! Sto facendo una canzone su un altro personaggio del libro, e di personaggi nel romanzo ce ne sono davvero tanti. Vado avanti così, a piccoli passi. All’inizio questo processo mi sembrava strano, abituata com’ero a pubblicare dischi di 12, 14 canzoni. Invece così è una bella cosa, perché ti consente di far parlare tanto del tuo lavoro e contemporaneamente di comporre con calma. Sono una che fa un album ogni sette anni! Ciò che devo fare è riuscire a mantenere una certa integrità, dunque queste singole uscite devono essere legate tra loro a comporre un album coerente, “monografico”».