Palladio a Palla! Arriva il jazz dei GOGODUCKS

I GOGODUCKS. Da sinistra, Luca Zennaro, Sergio Zacco, Francesca Remigi, Paolo Peruzzi – Foto Elisa Caldana

Titolo e nome della band sono sufficienti ad attirare l’attenzione: Palladio a Palla!, firmato GOGODUCKS (tutto maiuscolo). Sulla cover del disco che esce domani, 6 settembre, la pianta di Villa Almerico Capra a Vicenza, conosciuta come La Rotonda, uno degli edifici iconici dell’architetto Andrea Palladio, che la disegnò 458 anni fa. 

Il progetto, intrigante e ambizioso, di traslare in musica l’architettura neoclassica palladiana ma anche di renderla emozionalmente viva attraverso un jazz contemporaneo di ricerca è venuto a tre giovani musicisti italiani, Francesca Remigi, 27 anni, batterista particolarmente dotata (di cui vi ho parlato spesso su questo blog, per esempio qui e qui), Luca Zennaro, 27 anni, chitarrista e Paolo Peruzzi, 30 anni, vibrafonista. La prima bergamasca, gli altri due veneti. Paolo e Francesca si sono conosciuti a Boston al Berklee School of Jazz, Luca e Paolo, invece, alla Fenice di Venezia. Al trio si aggiunge il creative coder veronese Stefano Zacco che ha lavorato in alcune tracce del disco.

Fatte le presentazioni veniamo al disco: 9 brani per 43 minuti d’ascolto, che corrispondono ad altrettante ville palladiane. Un lavoro che il trio si è equamente diviso, «33,33 periodico», mi ricorda Paolo Peruzzi, componendo tre brani per tre ville scelte da ciascuno. Ne è nato un lavoro fortemente individuale dal punto di vista compositivo ma altrettanto fortemente corale, dove le creatività di Francesca, Paolo e Luca sono confluite in una sessione di lavoro in residenza e hanno trovato l’equilibrio in sala d’incisione, nello studio Artesuono del mitico Stefano Amerio in quel di Tavagnacco, una decina di chilometri a nord di Udine.

Ridisegnare in musica le proporzioni degli edifici palladiani basandosi sulle planimetrie delle ville non è stato facile. Qualche esempio: per il brano Hang Arano, Villa Angarano di Bassano del Grappa (a proposito, andate a visitare la cantina della Villa gestita da una delle cinque sorelle proprietarie, Giovanna Bianchi Michiel, merita!), Francesca Remigi, l’autrice, scrive: «L’armonia nelle forme della facciata di Villa Angarano è il risultato della fusione di elementi architettonici che rappresentano multipli dei numeri 4, 3, 5 e 7. In questo brano la sinergia armonica delle forme geometriche della villa viene resa tramite una tecnica ritmica chiamata morphing, per cui la chitarra passa gradualmente nel corso di 4 battute da una figurazione ritmica in terzine a una in quintine (sempre mantenendo le stesse altezze), mentre il vibrafono fa lo stesso passando da un pattern in 7:4 ad un riff di 7 note in suddivisione di sedicesimi. Il tema viene ripetuto 3 volte con texture diverse al fine di invitare l’ascoltatore all’interno di uno spazio di trance contemplativa della bellezza artistica, proponendo una struttura ciclica che ritorna con dettagli timbrici sempre differenti che generano stupore e curiosità».

O ancora, per Broder, brano ispirato a Villa Badoer di Fratta Polesine (RO), Luca Zennaro spiega: «Prende come modello la perfezione neoclassica palladiana, che in musica viene tradotta con triadi aperte che si muovono in maniera sempre simmetrica durante tutto lo svolgimento del brano. Le triadi rappresentano le tre dimensioni dell’architettura palladiana, altezza, lunghezza e larghezza». In At the Roundabout, un omaggio a La Rotonda, Paolo Peruzzi racconta: «Un gioco in tondo imperfetto all’esterno di un quadrato. Villa Capra forse, tra tutte, più evoca l’architetto Andrea Palladio. Il cerchio della cupola, le colonne di slancio, i quattro lati con le quattro scalinate, un continuo gioco di specchi. Sono diversi gli elementi che hanno ispirato questo brano, le sue incerte suggestioni, le sue incisive improvvisazioni. Di fondamentale appoggio alla composizione è stata l’analisi delle piante di Palladio contenute all’interno de I quattro libri di architettura (1570), dove l’architetto inserisce La Rotonda nell’elenco dei palazzi e non delle ville. Il quinto elemento è il contesto: extra ordinario».

Il trio presenterà il disco nel Ninfeo di Villa Barbaro a Maser (TV) sabato 7 settembre, ingresso gratuito, insieme con Sergio Zacco, che nella serata di fatto sarà il quarto componente dei GOGODUCKS con le sue installazioni artistiche di video mapping. A questa dimora è stato dedicato Better Ask Barbra, brano di Paolo Peruzzi: «Un jazz che s’impregna di Reich e di Battiato, un accumulo di tensione continua, e allo stesso tempo liberatorio. Una ballad che non fa danzare, ma che invita alla contemplazione e all’ascolto». 

Li ho incontrati via Zoom e ci siamo fatti una lunga e proficua chiacchierata…

Da vecchio ascoltatore amante del rock anni Settanta, l’attacco di Malcontenta è… puro prog, ambiente che avete mantenuto anche in altri brani…
Luca: «In effetti, ora che mi ci fai pensare, ha qualcosa dei Genesis anche nei suoni. Tutto comunque alla fine nasce dalla villa. A livello architettonico succede che diventa sempre più stretta e di conseguenza anche le battute diventano sempre più corte». 

Da chi è partita l’idea di un progetto musicale su Andrea Palladio?
Francesca: «È di Paolo!».
Paolo: «Volevo partecipare a un bando. Sono partito dall’idea di mettere insieme tanti tasselli di un puzzle più grande. Per vincere bisogna portare progetti che convincano e che siano legati al territorio. Luca e io siamo veneti, l’etichetta discografica è veneta (nusica.org, ndr), il Palladio è veneto e ha cosparso la regione di pezzi d’arte. Ho vissuto a Vicenza cinque anni per studio, ero inondato dalle sue opere, le sue ville sono bellissime. Abbiamo la fortuna di andare a Villa Barbaro a Maser a tenere il concerto di presentazione, quindi si sono aperte delle strade, possiamo dirlo con fierezza. Abbiamo cercato di tradurre in musica ciò che è stato il lavoro dell’architetto cinquecento anni fa, studiato le planimetrie, visitato le ville scelte e, da lì, siamo partiti: giocando con i rapporti numerici che usava il Palladio abbiamo composto melodie e armonie provando a ricreare le immagini… Alla fine s’è rivelato molto divertente».

È una vecchia storia trasporre altre arti in musica. Quella in architettura è forse la via più plastica per fondere note e calcoli, visto che sempre di matematica si tratta!Paolo: «C’è tanta matematica sì e anche geometria! Ne La Rotonda c’è il gioco di un cerchio in un quadrato con la soluzione dei quattro ingressi. L’architettura palladiana è molto semplice, basilare, mainstream! E questo ci ha reso il lavoro più facile, pulito… Estetismo puro!».
Francesca: «Rendere questo lavoro attuale, però, non è stato così scontato, nonostante l’impianto neoclassico dell’architettura palladiana. Mi sono posta il problema, per esempio, di come colmare quel gap di cinque secoli che ci separa dal Palladio per rendere attuale la nostra musica. L’ho risolto tramite la traduzione numerica di rapporti in serie intervallari che non rispettassero per forza le canoniche armonie più classiche. E poi non ci siamo limitati a tradurre serie matematiche in suoni e i rapporti intervallari in time signatures: andando a visitare le ville, abbiamo avuto anche un riscontro emotivo importante che è finito inevitabilmente nel nostro lavoro».

Come vi siete divisi i compiti?
Luca: «Ognuno ha fatto il proprio lavoro a casa. Ci siamo distribuiti tre ville a testa e ciascuno di noi si è studiato le “proprie” a livello architettonico. La parte più divertente è stata la residenza a Laste di Sopra in provincia di Belluno, sulle Dolomiti, cinque giorni in cui abbiamo condiviso, discusso e lavorato sui nove brani. Quindi, siamo andati in studio a Udine da Stefano Amerio e  in tre giorni abbiamo registrato. Ognuno di noi ha portato la propria sensibilità all’interno di questi brani: riascoltandoli, si ha la netta percezione di chi li ha scritti, e questa è la cosa più interessante». 

Come avete gestito le improvvisazioni?
Luca: «Alcune sono sulle strutture che abbiamo creato ispirate al Palladio e altre sono completamente free, c’è puro ascolto e basta».

Francesca, dal punto di vista ritmico, pennelli molto con la batteria…
«La ricerca che abbiamo fatto tutti insieme è servita anche a compensare la mancanza del canonico trio jazz – piano, contrabbasso e batteria – trovando, tramite l’improvvisazione non idiomatica, situazioni texturali in cui far emergere determinate atmosfere. Mi viene in mente la parte un po’ più aleatoria e contemplativa su Broder, una improvvisazione minimale ottenuta lavorando su una tessitura acuta in cui Paolo utilizza gli archetti e le bacchette normali sui tasti del vibrafono, Luca gli armonici e io l’arco sui piatti e altre sonorizzazioni come i crotali, per ricreare ambientazioni diverse e sviluppare un approccio creativo all’improvvisazione. Infatti, in certi momenti assomiglia al free ornettiano degli anni Cinquanta e Sessanta in altri è una cosa un po’ più studiata che si concentra sullo sviluppo di determinate tessiture utili a ricreare certi suoni ottenuti dai nostri tre strumenti e dall’elettronica. Per me è stato un lavoro di ricerca molto interessante dal punto di vista timbrico».

Paolo, parliamo di vibrafono: quanto è stato determinante in questo trio?
«Il 33,33 periodico, nel senso che siamo in tre, con tre teste diverse, c’è il duo percussivo batteria-vibrafono e il duo armonico vibrafono-chitarra. La chitarra ha anche il ruolo di fare il basso, cosa che il vibrafono non può fare, eppure i due strumenti a livello di note sono quasi identici, la chitarra è trasportata un’ottava più bassa, ha il mi basso mentre il vibrafono il fa basso, un semitono vicino. Stessa cosa per le note acute. Il vibrafono, per come lo concepisco, prende molto dal pianoforte più che dal vibrafono tradizionale. Suono con quattro bacchette, quindi cerco sempre di metterci dentro un ruolo anche armonico e non solo melodico e anche melodico e non solo ritmico. Credo che il non avere determinati strumenti sia il punto di forza di questa formazione, perché ci dà la possibilità di prendere delle idee dalla tradizione cambiando suono ottenendo qualcosa di nuovo, e di esplorare ancora di più giocando con gli altri “caratteri” dei nostri strumenti. Quando smettiamo di considerarli come alternativa a quelli tradizionali si apre un altro mondo di suoni».

I GOGOIDUCKES fotografati da Elisa Caldana al Ninfeo di Villa Barbaro, dove si terrà il concerto di presentazione

Una cosa che mi ha incuriosito sono i titoli dei brani…
Paolo: «Sono basati sul nome delle ville, per esempio, Sir Ego è Serego (la villa di San Pietro in Cariano, Verona, ndr), At the Randabout La Rotonda…».
Francesca: «È partito tutto per caso con Poiana che io avevo chiamato erroneamente Poiena e da lì è nato il gioco…».
Luca: «Badoer è Broder…».

Come vi siete incontrati?
Paolo: «Io e Francesca ci siamo conosciuti a Boston, lavoravamo insieme, compagni di ufficio, al Global Jazz Institute del Berklee. La prima estate che siamo tornati in Italia volevamo partecipare al Conad Jazz Contest. Abbiamo sentito Luca due giorni prima della scadenza per l’iscrizione, ci siamo trovati e siamo riusciti a suonare a Umbria Jazz. Da lì è stato un “capitombolo” dietro l’altro!».
Luca: «Ho conosciuto Paolo sei anni fa a un concorso alla Fenice di Venezia. Poi lui è partito per Boston. Suonando tutti nello stesso circuito di musicisti, Francesca mi ha contattato…».
Francesca: «In realtà era partito solo per farci una suonata insieme!».

Perché GOGODUCKS?
Paolo: «Avevamo un giorno per inviare la candidatura, dovevamo tirar fuori in fretta il nome della band, preparare i curricula… Francesca dice: “Oggi sto pensando tanto alle papere». Vabbè, le ho detto, allora ci chiameremo GOGODUCKS, parafrasando i GoGo Penguin. Funziona bene, ci piace. Poi s’è aggiunta anche la storia de Il Giornale di Vicenza: dà la notizia di uno dei primi concerti che dovevamo fare a Lonigo. Ci presenta non come GOGODUCKS ma GOGODUX… ah ah ah, fascismo&jazz».
Luca: «Il culmine della nostra carriera!».

Come vedete la musica jazz in Italia, per giovani come voi?
Francesca: «Secondo me è un lungo percorso in salita ma c’è anche una musica pazzesca. La nostra generazione ha un potenziale devastante per il fatto che ha tanti legami con l’estero: siamo più cosmopoliti rispetto ai musicisti di generazioni precedenti, quindi molto più coscienti di ciò che succede sulla scena internazionale. E questo porta inevitabilmente grandissimo sviluppo e tanta contaminazione. In Italia non ti trovi la pappa pronta, le cose te le devi sudare. È l’idea del self made man, forse è per questo che sento progetti molto onesti. Che poi sia difficile esportare e far circuitare il progetto vista la saturazione, cosa che vale per tutti i musicisti, è un problema reale e comune».
Luca: «Sono d’accordo. Non è facile ma qui c’è una bella scena di giovani, alta qualità rispetto ad altri paesi europei. Sono contento di farne parte perché c’è condivisione, ci si conosce, si scambiano idee…E poi, alcuni dei jazz club e festival più interessanti sono qui in Italia, non è così scontato poter suonare in piazze così piene di storia e bellezza».
Paolo: «Ho una storia un po’ diversa. Non mi sento parte del circuito jazzistico italiano, per come mi sto vivendo la mia vita. Francesca e Luca mi dicono di ascoltare questo o quest’altro artista, ma io non so nemmeno chi siano. Sono tornato da Boston un anno e mezzo fa, prima studiavo Classica, ero completamente in un altro ambiente, facevo competizioni, concerti, rassegne di musica cameristica per percussioni, ho fondato un gruppo con due colleghi conosciuti al conservatorio di Vicenza, ero inserito in un altro sistema. Poi ho iniziato a scoprire com’è il mondo del jazz contemporaneo fuori dall’Italia e la mia ricerca mi sta portando all’estero, anche perché adoro viaggiare. Poi ci penserò!».