Il primo marzo è uscito in digitale per Edizioni Curci la colonna sonora del film Caracas di Marco D’Amore, composta da Rodrigo D’Erasmo. Le soundtrack sono una delle mie tante passioni musicali, perché seguono altri fili logici compositivi. Il musicista lavora in team, compone in base a suggestioni che gli arrivano dal copione, dai desiderata del regista, dalle immagini che mano a mano gli vengono sottoposte e, chiaro, dal suo background.
Rodrigo D’Erasmo è un musicista curioso “contaminante”, dotato di una straordinaria creatività. Nato a São Paulo, in Brasile, arrivato in Italia da ragazzino, è riuscito a fondere l’amore per la musica popolare brasiliana con mille altri mondi che lo hanno condotto a collaborare con grandi artisti, dal rock al pop, dal jazz alla musica contemporanea, oltre a essere il violinista degli Afterhours. Sempre con il solito spirito e l’immancabile pignoleria, convinto che non esista un genere più degno di un altro ma che la musica sia un linguaggio universale comprensibile ovunque ci si trovi nel mondo.
Venendo proprio alla musica: più che una soundtrack Caracas sembra un disco a tutti gli effetti, un percorso di 15 tracce, un viaggio, un lavoro compiuto, nato per vivere di vita propria. «Sono orgogliosissimo», mi confessa al telefono. Infatti, l’attenzione estrema all’infinita gamma di suoni e armonie dettate dal violino, dalle chitarre acustiche e da improvvise grida distorte di un’elettrica sofferta, come nella bellissima Tutto cambia ma nulla è cambiato, atmosfere dense, fumose, musica che emoziona e ti taglia a fettine i pensieri, è la costante di questo felice lavoro. A proposito di Maghreb, c’è anche la partecipazione di un’artista che seguo da anni, la tunisina Emel Mathlouthi, che ha cantato e scritto con Marco D’Amore il testo che apre il disco, La nuit noire.
Ecco che la città di Napoli, il film è ambientato nei vicoli attorno alla stazione ferroviaria, tratto dal libro Napoli Ferrovia di Ermanno Rea, diventa, grazie alle composizione di Rodrigo, il simbolo di tutti i Sud del Mondo.
Una colonna sonora che è, in realtà, un gran bel disco, fatto e finito!
«Sono contento che me lo dici perché lo credo anch’io. Non lo penso di tanti altri lavori che ho fatto in precedenza, perché non erano altrettanto autonomi – non come dignità – dalle immagini. Qui penso ci sia una dignità della musica che va al di là anche delle immagini».
Con Marco D’Amore siete partiti con Manhã de Carnaval pezzo straordinario di Luiz Bonfá tratto dall’Orfeo Negro di Marcel Camus, come mai?
«Marco aveva questa suggestione sulla primissima scena del film: un lungo indugiare su un cielo svela una squadra di paracadutisti acrobatici – che poi capiremo essere parte dello squadrone di nazifascisti in cui il nostro Caracas milita all’inizio del film. Caracas è l’ultimo ad aprire il paracadute perché ama il brivido e rischia di lasciarci le penne. Su questa sequenza “action” Marco inizialmente si immaginava Manhã de Carnaval, idea che a me è piaciuta tantissimo, amo queste cose a contrasto, molto efficace, almeno sulla carta».
Scelta, essendo tu nato in Brasile, che avrai sicuramente apprezzato!
«Infatti, ha aperto una breccia nel mio cuore, perché fa parte delle mie radici, è un brano che adoro, mi ricorda la mia infanzia, lo ascoltavo sui vinili di mio padre quando ero piccolo. Mi ha fatto anche capire che, in realtà, nel film lui volesse un suono che non fosse didascalicamente legato a Napoli ma che fosse invece più ampio e usasse questa città come pretesto per raccontare un po’ tutti i Sud del mondo. Da lì, mi sono allargato al mio Brasile come tipo di sonorità ma anche, ovviamente, all’Africa, al Maghreb, che è poi quello di cui veramente parliamo e trattiamo, perché la maggior parte dei protagonisti di questa Napoli, Ferrovia sono africani che popolano il dedalo di vie attorno alla stazione ferroviaria di Napoli. Siamo partiti da lì e si è aperto un pozzo d’ispirazione che mi ha fatto produrre tantissimo nei primi due mesi precedenti l’inizio delle riprese, tant’è che ho dato a Marco un sacco di materiale prima ancora che iniziasse a girare. Poi il destino ha voluto che Manhã de Carnaval sia passata in cavalleria e che al suo posto ci sia un mio brano scritto a sei mani con Mario Conte ed Emel Mathlouthi, bravissima cantante tunisina, diventato “la canzone” del film, La Nuit Noir di cui Marco D’Amore ha firmato per metà il testo insieme alla stessa Emel. È stato bello perché è stato un lavoro di squadra, condiviso anche con un’artista che ha quelle radici, una musicista donna, cosa che ho amato tantissimo. Credo che il risultato abbia dato a quella sequenza l’abbrivio, il ritmo che gli serviva: è pur sempre una action scene, però con un sapore comunque molto mediorientale, nordafricano con qualche tratto di Sudamerica: c’è un po’ tutto quello che volevo fosse il suono di questo Caracas che poi si sviluppa in tutte le altre tracce».
Sei un musicista che spazia molto, hai collaborato con Diodato, con Lanegan, i Muse e tanti altri artisti incredibili. Cos’è per te la musica in questo momento? Dove stiamo andando?
«Non mi sono mai chiuso in nessuna gabbietta, in nessuna casella, come si usava quando c’erano ancora i negozi di dischi, dove esisteva il reparto jazz, quello rock… È una cosa che ho sempre detestato. Non amo le categorie, preferisco piuttosto che i dischi siano tutti mescolati in un meraviglioso mercatino del vinile in cui, lì in mezzo, vado a scovare cose improbabili, accostate ad altre, altrettanto improbabili, magari non di mio gusto. Però penso che la magia della musica sia quella lì, uno zibaldone in cui ognuno cerca di trovare un proprio porto, rievocare un’emozione, trovare un ponte grazie al quale avere accesso, comunicare con altri individui, con altre forme d’arte, con altre culture. Per me è un privilegio enorme fare il lavoro per cui ho lottato tanto nella vita. Quindi mi piace poter stare a Sanremo una settimana godendomi il fatto di esserci e cercando di dare il massimo e fare il meglio possibile con un artista come Diodato, in un ambito pop, e, parallelamente, muovermi su territori di improvvisazione radicale che hanno molto a che fare con un certo tipo di musica contemporanea, di jazz, e poi scrivere per immagini – al momento la cosa che mi affascina di più. Trovo che qui ci sia molta più libertà, proprio perché il mercato della musica è un po’ asfittico, sterile, che pensa che nella ripetizione ci sia un valore. Così quando imbrocchi la cosa giusta, ripeterla può significare una reiterazione del successo… Invece, secondo me, la ricerca dell’originalità è il tema fondamentale, quello che fa sì che in mezzo a cento cloni esca qualcosa che magari possa restare, di veramente speciale. Penso di essermi costruito, conquistato e anche aver avuto la fortuna di trovarmi in questa posizione, un posto al sole, che in questo momento mi godo perché mi dà l’opportunità di parlare una lingua che è meravigliosamente universale e mi permette di cercare di mettermi in comunicazione con tutti quelli che hanno voglia di provare a parlarla con me».
Quindi non fai differenze su rap, urban e altro materiale oggi mainstream?
«Certo che le faccio, come le fa chiunque, ci sono cose di mio gusto e altre meno, però ho tantissime persone che stimo, ammiro e sono diventate amiche nell’ambito dell’urban e nelle quali riconosco qualcosa di davvero speciale. Dopodiché c’è un sacco di monnezza che non mi interessa. In questo momento c’è talmente tanta produzione, proprio per le ragione che ti dicevo prima. Funziona l’urban? Facciamo tutti l’urban, le case discografiche si buttano a capofitto su qualunque ragazzino sbuchi fuori, pensando semplicemente all’immediato profitto. Tanti di questi finiscono male perché son troppo giovani, li riempiono di soldi e due anni dopo sono a spasso e, soprattutto, ripeto, si produce tanta monnezza, quando invece è un ambito in cui c’è tantissimo di interessante. Basterebbe la giusta misura, ma d’altronde il commercio non guarda alla misura ma al profitto: sono due cose incompatibili. Muoversi in territori meno battuti dal commercio fa ancora intravedere cose interessanti e affascinanti, magari molto meno di largo consumo e successo però molto affascinanti. A me interessano queste.
Tornando a Caracas: c’è il violino declinato nelle varie forme dal Nordafrica al Nordeste brasileiro: mi sembra di aver sentito suoni tipicamente nordestini…
«È vero, ho usato anche una rabeca, il protoviolino indio, strumento che non si produce quasi più in Brasile. Sono andato a scovarlo nel Sud, a Curitiba, dove c’è uno dei pochi liutai che ancora li costruisce, un giovane che ha imparato da un vecchio maestro. L’ultima volta che sono stato in Brasile me ne sono fatto costruire uno. È un violino molto grezzo che ha un suono altrettanto grezzo, ma per questo affascinante. L’ho usato in un paio di pezzi della colonna sonora».
Ne Il Maestro smarrito, la chitarra inizia con i primi due accordi di Manhã de Carnaval, se non sbaglio!
«È vero, assolutamente sì. Quello è stato il secondo pezzo che ho mandato a Marco, il primo era Chi è Caracas?, perché partivamo da quell’idea da cui si è sviluppato tutto».
Con gli Afterhours lavorate ancora?
«Siamo in stand by. È un po’ che non produciamo niente. L’ultimo disco è quello del 2016, anche se abbiamo continuato a suonare fino al 2019. Da allora siamo fermi perché Manuel (Agnelli, ndr), nel frattempo, ha fatto tantissime cose, ha pubblicato il suo primo disco solista, ha composto cose belle per colonne sonore, una l’abbiamo fatta insieme ed era contenuta nel primo episodio di Diabolik dei Manetti Bro. Per quel brano ha ricevuto un David di Donatello. Nel frattempo abbiamo aperto un locale a Milano che si chiama Germi, per noi un posto speciale in cui, da agitatori culturali quali sempre siamo stati, cerchiamo di far succedere quante più contaminazioni possibili tra le arti, le persone, le discipline. Insomma, siamo in ballo su tante cose. Il progetto Afterhours in questo momento è in letargo, in attesa di trovare il momento giusto per tutti e forse anche il pretesto per rimetterci a suonare. Sono fiducioso che la voglia, almeno di ritornare sul palco, ritornerà a tutti, per celebrare così tanti anni di percorso meraviglioso. Proprio in questi giorni – mi capita ciclicamente – sto riascoltando sia le cose che abbiamo prodotto insieme sia quelle precedenti al mio ingresso nella band. Devo dire che le trovo sempre avventurose, in qualche maniera attuali. Credo che quello degli After, non perché ne faccia parte, sia un percorso virtuoso, penso che ci siano poche band così!».
Sei stato anche ne Le Luci della centrale elettrica..
«Sì, per tanti anni. Tutt’ora in tutti i dischi di Vasco (Brondi, ndr) almeno un mio zampino c’è. Anche in questo che esce proprio oggi (Un segno di vita, ndr), Illumina tutto, è un brano bellissimo, è la naturale evoluzione di Vasco cantautore pop contemporaneo. Lì ho curato tutta la parte dell’orchestrazione. Continuiamo a collaborare a distanza e a volerci molto bene. Nel nostro ambito è una delle persone di cui stimo il percorso. Penso sia un artista che è sempre cresciuto perché è estremamente intelligente, curioso, studioso e inquieto. Come me, non sta mai fermo!».
Se dovessi scegliere il lavoro che più ti ha soddisfatto in tutta la tua vasta produzione quale indicheresti?
«Ti dico Caracas, non perché siamo qui a parlarne, ma per l’esatto opposto: banalmente perché è l’ultima cosa che ho fatto. È un piccolo augurio che mi faccio da solo, perché ci credo davvero: sono orgogliosissimo di quello che ho composto e spero che ogni volta che esce qualcosa di mio di non dovermi guardare indietro e pensare: “Beh, certo quella volta nel ’99 avevo fatta una figata”, ma di rispondere convinto: “L’ho fatta ieri!”».